« indietro GABRIELLA SICA, Poesie familiari, Roma, Fazi Editore 2001, pp. 156, € 14,46.
Quartine e sonetti le forme prescelte per questo continuo dialogo, condotto a preferenza con altri poeti che dipanarono il proprio viluppo lirico per il bandolo dell’intimismo. E se Petrarca delle Familiares, insieme al Virgilio dell’Eneide, sono evocati fin dall’epigrafe come cantori di quella «campagna come un’infanzia» viterbese, che è una delle principali protagoniste della poesia di Gabriella Sica, il Pascoli della quasi omonima raccolta assemblata a posteriori con materiale domestico e dimenticato, è il maestro primo di un canto sapientemente invilito. Smottano in vere parodie gli echi dalle Myricae, manifesti a partire dal titolo: Felicetta la cucitrice (rilettura sul canone della Cucitrice); inversamente, quasi per gioco leggero e vagante, una sezione che potrebbe far pensare ai più arditi esperimenti del Pascoli ornitologo, Canzoni uccellette, la si conduce con a modello le canzonette sabiane degli Uccelli, pertanto in una lingua da sempre saputa. E parodia, nel solco della tradizione, quella con cui si omaggia nel contempo destinatario, Paolo Prestigiacomo, e referente, Guido Cavalcanti, in una ballatetta, voce d’addio del vivo a chi se n’è partito per antifrasi, già similmente usata dal Caproni dei Versi livornesi; come studio sulle variazioni del metro breve e della rima facile è Roma rimario, canto antifonale alla Litania che Caproni dedicava alla Genova della sua formazione poetica. Paesaggio etrusco, già ruvida ed essenziale sinopia d’affreschi giotteschi, nei Versi viterbesi la campagna esce lumeggiata alla maniera di un Pasolini delle Ceneri, qual terra che «tiene ancora del macigno» e che naturalmente si presta a costituire la scena dei «miseri e quieti anni Cinquanta», dove «la povera gente d’Italia, / così umile fatta di stracci e luce», da secoli intonante confiteor e santificetur, ripete in figure quali la mitica Candida, rubeste Fillidi oraziane; patria segnata da fratte e siepi, netti confini sanciti in una lingua antica, «So che quelle terre ...», a tratteggiare gli «alba pratalia» di una poesia indistintamente nutrita di più linguaggi: quello della lirica pura, come quello del taccuino pittorico- cinematografico; l’intimo idioma del quaderno bertolucciano, come l’eloquio che accenna a una devotio continiana.
(Francesca Latini)
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