« indietro PIETRO ABELARDO, Planctus, a cura di Massimo Sannelli, Trento, La Finestra 2002, pp. 90, s.i.p.
Edizione tradotta e commentata dei sei planctus biblici del grande Abelardo, che rappresentano una delle manifestazionipiù mature della poesia mediolatina nella forma derivata dalla sequenza, anche se forse più folgoranti per intuizioni di pensiero e di strategia testuale che per disposizione della materia lirica. Il testo è ripresoda diverse edizioni presistenti (Dronke, von den Steinen, Vecchi, Laurenzi), cui dunque questa versione costituisce una sorta di revisione critica. La traduzione, nonostante la celebrata perizia poetica del curatore, sceglie la forma in prosa, «più o meno ritmata, se non ritmica », in base alla convinzione che vede nella versione ametrica un recupero delladimensione orale della poesia di Abelardo – scritta come è noto per una esecuzione musicata. Nonostante questa scelta, la traduzione è estremamente libera, con le rinunce e le integrazioni, ossia le compensazioni, tipiche di una versione poetica, cui manca solo la cantabilità del verso: un esempio può essere la strofa 5 del plantucs di Giacobbe:
Duorum solacia Perditorum maxima Gerebas in te, fili. Pari pulchritudine Representans utrosque Reddebas sic me mihi.
Nunc tecum hos perdidi: et plus iusto tenui hanc animam, fili mi. Etate, tu, parvulus, In dolore maximus Sicut matri sic patri.
«Tu mi offrivi il conforto, in cambio dei morti. La tua bellezza li rappresentava: l’uno e l’altra. Oggi, con te, li perdo ancora, e tengo la vita più del giusto. Eri anche piccolo, ma quanto dolore, alla madre e a tuo padre...»
La breve introduzione «collega una serie di appunti su alcuni temi dei Planctus », presentandosi come «solo un esercizio di lettura poetologica e teologica, oltre che un accessus alla sententia» (p. 7). Il commento, liricamente dedicato a Cristina Campo, si pone come un’esplorazione ragionata di quelli esistenti, «una storia delle interpretazioni» (p. 12), ancora molto sensibile al fascino delle teorie biografiche che cercano nei testi biblici un’eco della indimenticabile vicenda amorosa con Eloisa. In realtà si offre come uno strumento ricco e mobile, ispirato da una sensibilità vivissima per i valori psicologici e gli intertesti poetici: più biblici e classici – anche meno probabili come Properzio, apparentemente sconosciuto ai medievali fino a Petrarca – che specificamente mediolatini (i quali per la storia di Giuseppe, ad esempio, rischiavano di essere fin troppi, dal ritmo di Paolino d’Aquileia in poi: si pensi al percorso di Derpmann, Josephsgeschichte). In questo risente della sua natura di commento dei commenti, che è un procedimento tipico dell’italianistica, piuttosto che di esplorazione ex novo. Ma proprio questa competenza romanistica e questa spiccata attitudine critico-teorica consentono allargamenti imprevisti, come le riflessioni filosofiche sull’episodio della figlia di Iefte, che gettano nuove luci moltiplicando comparativamente i punti di vista dell’oggetto osservato, spaziando dal Roman de la Rose a Brecht, dall’innografia di Venanzio Fortunato alla teologia di Ladislaus Boros). Una summa della felice eterogenità di queste sollecitazioni si condensa nella breve ma succosa Appendice, opportunamente seguita da una riproduzione delle trascrizioni musicali di Vecchi, pur superate, nella lucida coscienza che i testi abelardiani non erano composti per la lettura ma per il canto. Un ideale complemento sarebbero le esecuzioni audio di Hillier, che ascolteremo come integrazione perfetta a questo prezioso atto d’amore per la poesia mediolatina.
[F.S.]
SUHRAVARDI, L’Angelo Purpureo, a cura di SERGIO FOTI, Trento, Luni Editrice 2000.
Segnaliamo qui, nonostante l’appartenenza a un genere piuttosto prosastico che poetico (ma non privo di inserti versificati), i testi riprodotti nell’originale persiano e tradotti in elegante italiano dall’iranista Sergio Foti, studioso del dramma rituale iranico e del sufismo e già traduttore di Rumi e Jami. Il volume, uscito nella benemerita «Biblioteca Medievale» di Luni (ora passata a Carocci), contiene tre brevi narrazioni sapienziali del filosofo Shihab ud-Din YahyaSuhravardi: condannato a morte ad Aleppo nel 1191, aveva dedicato la breve vita (36 anni) all’esplorazione delle possibili vie per conciliare la koiné platonico- eripatetica ereditata dalle scuole greche e già rielaborata da Avicenna, e la mistica sufi dell’annientamento, alla luce di una ricerca dominata dall’idea-guida dell’Oriente, la dottrina chiamata ishraq. Si tratta di due racconti sul rapporto iniziatico allievo-maestro, Il fruscio delle ali di Gabriele e L’angelo purpureo, che dà il titolo al libro, e La lingua delle formiche (che si interrogano sull’origine della rugiada, come altri animali poi su altre questioni simboliche): racconti paradigmatici, narrazioni visionarie (hikayat) di incontri rivelatori e apologhi animali, che adottano la veste narrativa per esporre complesse verità dottrinali in forma più immediatamente comunicativa. Ma la cornice del racconto è esile e sfuggente, e i contenuti vivono di «mondi estranei, fatti di panorami gelati, di tempi abbozzati», perché come, scrive sempre Foti in una introduzione estremamente analitica che si diffonde con dovizia di riferimenti soprattutto sulle radici di pensiero del testo tradotto, più che sui valori letterari, «allo sbocciare della Hikmat [disvelamento della Sapienza] il sapere si muta in visione»; ogni elemento diventa quindi simbolo di entità spirituali la cui identificazione, pur accuratamente guidata dal ricchissimo commento del curatore, mantiene sempre un tratto di vaghezza che costituisce parte dell’innegabile fascino e dell’effetto psicagogico che a questi racconti si attribuiscono. Si è pensato infatti, da parte dello shaykh Ahmad Ahsa’i, che i testi inducessero nel loro recitatore una sorta di trasformazione dell’anima, un’ascensione mistica corrispondente alla capacità di salire a un ulteriore livello di lettura (Proclo ne rivendicava 5 per i testi platonici, e le formulazioni sufi moltiplicano ulteriormente i gradini): come conclude l’Angelo purpureo – in versi che spesso la prosa orientale inframmezza alle esposizioni narrative o teoriche.
Io sono quel falco di cui i cacciatori del mondo hanno bisogno in ogni momento: la mia preda sono le gazzelle dagli occhi neri ché il sapere è come le lacrime degli occhi: davanti a me scompare il senso letterale, presso di me si illumina il senso vero.
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