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MARINA DI SIMONE, Amore e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo e Euridice tra passato e presente, Firenze, Libri Liberi 2003, pp. 136,9,80. 

 

Sono decenni che si parla di storia dei temi e dei personaggi, che si compilano e si pubblicano repertori di motivi letterari e miti culturali, e da qualche anno anche i manuali scolastici, in risposta a un’attenzione critica sempre più diffusa, sono ricchi di schede sui paralleli e sulla fortuna di un’opera, sulle sue riscritture e la sua diffusione nelle varie letterature. Ma di fatto sono pochi gli autori impegnati nella produzione dipercorsi didattici concreti  che guidino il docente, lo studente e il lettore dalle origini lungo le trasformazioni di una storia senza risolversi in analisi di singoli testi o in elenchi di nomi e di titoli. Questo di Marina Di Simone è il tentativo, brillantemente riuscito, di conciliare esigenze culturali e comparatistiche con sollecitazioni proficuamente recepibili dalla scuola nei suoi vari gradi, dal liceo scientifico a uno dei moduli sulla ricezione dei classici che cominciano a spuntare un po’ ovunque nelle università italiane. Il volume racconta le metamorfosi del mito di Orfeo, il poeta in grado di incantare la natura ma incapace di richiamare dagli inferi la sposa defunta senza resistere alla tentazione di voltarsi, a guardarla, perdendola (o guadagnandola)  per sempre. Ricordata dagli scrittori greci come una storia già nota, la tragedia di Orfeo diventa tale solo nei versi di Virgilio e di Ovidio, che ne forniscono le versioni destinate a costituire il modello, alternativo, per tutte le riscritture successive, sia letterarie che musicali e teatrali: la Di Simone ne esplora in poche calibratissime pagine, sulla scorta di testi ampiamente citati e antologizzati, i riflessi nelle letterature (e nella riflessione critica) italiana, inglese e francese del Novecento, dedicando i capitoli finali alle versioni  musicate (da Poliziano a Gluck al balletto di Stravinsky), cinematografiche (Cocteau, M. Camus-De Moraes) e ai modelli principali diffusi nelle arti figurative. E questo itinerario ci accompagna da una scoperta all’altra, perché anche testi che si conoscevano acquistano uno spessore inatteso, una luce obliqua dal confronto con le interpretazioni analoghe ma sempre diverse di altri autori e di altri tempi. Nella Consolatio Philosophiae di Boezio, ad esempio, troviamo un metrum (3, 12) dove Orfeo è immagine dell’anima che gli interessi terreni distraggono dalla sapienza autentica, e la sua allegoria assume nei versi del filosofo latino una leggerezza inattesa, ma non priva di profondità: come nel verso quod luctum geminans amor, «[canta] il dolore raddoppiato dall’amore», o ancor più Quis legem det amantibus? / Maior lex amor est sibi («Chi può dare una legge agli innamorati? L’amore è la legge più alta per se stesso»), che coglie in pochi elementi quello che Ovidio non sa dire se non diluendolo nel giro di molti esametri. Ma i vertici più alti di questa inesauribile storia si toccano forse con il poemetto Orfeo. Euridice. Hermes di Rainer Maria Rilke (1904), che finalmente scava nel punto più sensibile del mito, il rapporto fra verità e morte, e fra verità poetica e morte, ove la morte è condizione della pienezza creativa, della durata artistica. Euridice «Era raccolta in sé. E il suo stato di morte / la colmava di pienezza », intuizione ripresa nel Sonetto 13 a Orfeo:

 

Sii sempre morto in Euridice, e innalzati

fino al rapporto puro, con più forza cantando, celebrando. [...]

Sii, e la condizione del Non-essere al tempo stesso sàppila,

questo fondo infinito del tuo interno vibrare,

perché s’adempia intera in un’unica volta. 

 

La stessa atmosfera, la stessa luce di un tramonto infinito aleggiano nella prosa magicamente ritmica di Cesare Pavese, che nel dialogo Inconsolabile fra Orfeo e una baccante fonda sulla coscienza della vanità assoluta del tutto la motivazione della morte necessaria di ciò che è passato, e dunque la certezza della volontarietà dello sguardo di Orfeo:

 

L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa [...] Fu un vero passato soltanto nel canto. L’Ade vide se stesso ascoltandomi. [...] Il mio pianto d’allora fu come i pianti che si fanno da ragazzo e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. [...] Accostare la morte ci fa simili agli dèi.

 

Tutt’altra declinazione ha il tema nelle cosiddette smitizzazioni, che non resistono alla tentazione di ironizzare su una storia che forse non lo consente facilmente senza rischiare cadute nel grottesco: la pièce teatrale di Cocteau Orphée (dove Euridice, riacquistata la vita per rinnovare i dissapori coniugali col marito-Cocteau, torna poi alla morte) e la sua sceneggiatura cinematografica tutta costruita sul personaggio della Morte, o Il ritorno di Euridice ove Gesualdo Bufalino disvela – in una summa metaletteraria degli Orfei della tradizione – l’artificiosità del dolore «poetico», mentre mantiene una dignità patetica l’Eurydice di Jean Anouilh (dove Euridice è un’attricetta morta in un incidente e poi salvata da Orfeo, che però parlando con lei ne scopre con profonda delusione i dubbi trascorsi), rappresentazione dell’impossibilità di un amore nel mondo del reale, e dunque della inevitabilità della scelta dell’Orfeo mitico, che quasi mai la letteratura moderna accetta come involontaria. Stilisticamente grottesca può apparire al gusto attuale anche la resa dei drammi musicali, dove perfino Poliziano, Monteverdi e (meno) il Ranieri de’ Calzabigi che scrisse per Gluck risultano difficili da gustare per la povertà e l’artificiosità che il linguaggio melodrammatico non riesce a nascondere quando sia separato dalla musica. Diversamente datata è forse anche la prosa barocca di Maurice Blanchot, superato cult degli anni ‘60 e ’70, il cui spessore evocativo tuttavia ancora non smette di emanare il fascino della genialità:

 

Euridice [...] costituisce [...] il punto profondamente oscuro verso cui l’arte, il desiderio, la morte, la notte sembrano tendere. L’opera di Orfeo non consiste tuttavia nell’assicurare l’avvicinamento a questo «punto» scendendo verso la profondità. La sua opera è di riportarlo al giorno e di dargli, nel giorno, forma, figura e realtà. [...] Il mito greco dice: si può produrre un’opera solo se l’esperienza smisurata della profondità [...] non è perseguita per se stessa. La profondità non si consegna apertamente, e si rivela soltanto dissimulandosi nell’opera. [...] Orfeo è colpevole d’impazienza. Il suo errore è di voler esaurire l’infinito, di mettere un termine all’interminabile, di non sostenere all’infinito il movimento del suo stesso errore. L’impazienza è lo sbaglio di chi vuole sottrarsi all’assenza di tempo, la pazienza è l’astuzia che cerca di dominare questa assenza di tempo facendone un altro tempo, altrimenti misurato.

 

Ma non c’è angolo del libro che non incuiriosisca, non soprenda, non solleciti integrazioni personali o storiche: come quella suggerita dal recente volume di Enrico Giaccherini Orfeo in Albione, Pisa, Edizioni Plus-Università di Pisa 2002, che ci restituisce il Sir Orfeo del lai bretone e altre incarnazioni del vate tracio, o come Il divino Orfeo di Calderón de la Barca, cui allude la stessa Di Simone in un paragrafo- cerniera, che assomma in sé la tradizione medievale di Orfeo-Cristo, ancora da indagare perché documentata da testi spesso ancora inediti o introvabili e certamente non tradotti. Le pagine conclusive della parte letteraria, dedicate all’Orfeo negro di Marcel Camus e Vinicius de Moraes (dove Orfeo tranviere di Rio salva la compaesana Euridice da un assassino ma la uccide per sbaglio, poi ne recupera il cadavere ed è a sua volta ucciso dalla fidanzata gelosa), aprono la prospettiva verso le interpretazioni interculturali che consentiranno al mito di trovare le riscritture via via richieste dal tempo, se è vero che «non muore nel mondo la voce di Orfeo», la voce di chi deve rinunciare alla realtà dell’amore e della vita per poterli cantare.

 

(Francesco Stella)

 


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