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Politique et style. «Balises», Cahiers de Poétique des Archives & Musée de la Littérature, 1-2, 2001-2002, Bruxelles, Didier Devilez Editeur/Archives& Musée de la Littérature (www.aml.cfwb.be), pp. 290, € 21,00.

 

La questione del rapporto tra strategie del linguaggio e affermazione del potere suscita oggi un rinnovato interesse critico, sorto dalla sensibilizzazione attuale ai problemi della socialità e della comunicazione. Rispetto ad una società teocratica, dove le ragioni di tali strategie muovono dalla necessità dell’equilibrio interno alla polis (secondo la tradizione platonica ed aristotelica che il classicismo francese sei- settecentesco accoglie: così Buffon affermava, all’Académie française, che «le style c’est l’homme même» nella sua essenziale ‘riproducibilità’ morale), la società democratica si fa portavoce di una ‘critica’ dello stile inteso, sensu lato, come modalità del rapporto tra il sé e l’altro. Ma non solo: ogni grande uomo, come sostenne il liberale Hugo, in polemica col classicismo di Buffon, ha molti stili. Ed è proprio questo pluralismo metastilistico che qui si riscontra, nella diversità stessa degli approcci al binomio in questione il quale viene proposto, come si dice nell’editoriale, a mo’ di provocazione. Taluni lo intendono infatti come diade inscindibile, altri come opposizione o alternanza (et/aut); talvolta – come in Barthes – è «écart», talaltra ciò che più intimamente appartiene all’uomo. Resta comunque ferma, in larga parte, l’implicazione politico-sociale del fatto stilistico, non più inteso come mero ornatus (e tuttavia, la «stilistica inessenziale» rilevata dal Benjamin era indice di una precisa intentio, seppur non consapevole). Il problema dell’equilibrio interno allo Stato accentrante, che ha in Francia una tradizione secolare e che per questo configura la peculiarità francese della ricezione di questo binomio (nella fattispecie la diffidenza,  di ascendenza cartesiana, verso laretorica come arte del  détour e dell’affabulazione, cui deve contrapporsi la chiarezza e la trasparenza degli intenti nel pensiero così come nella gestione della res publica) si confronta con altre prospettive culturali. Tale confronto mostra indirettamente come la stessa idea di ‘stile’ sia, in qualche modo, legata ad una modalità linguistico-culturale specifica che, come già voleva Humboldt con la sua idea di Wechselwirkung, identifica un sistema  culturale attraverso lo stile (la lingua stessa,  come volle Leopardi) dei suoi locutori.Così, al di là del valore artistico e scientifico  degli interventi che si avvicendano (testimonianze dirette di scrittura si alternano a saggi critici), la varietà delle prospettive è, ci sembra, il principale merito ‘testimoniale’ di questo volume collettaneo. Qui infatti si accende, viva, la polemica insita nella problematica culturale peculiare della francofonia, ovvero quella del confronto tra lo style-métropole, come diremmo oggi in termini correnti (le ‘modalità’ poetico-politiche imposte dal canone parigino), e le sue varianti linguistico-culturali, siano esse interne o esterne all’Esagono. Così, se da vari saggi traspare la polemica ‘nazionale’ o comunque interna all’ambito francofono (seppur trasposta ai fatti letterari: non-conformismo autentico e solitudine in R. Char; presunto ‘regionalismo’ stilistico nello svizzero Ramuz, che nella penna di un Céline – aggiungeremmo noi – sarebbe semplicemente risultato come un tratto di modernità tutta metropolitana; il caso dell’Algeria di Jean Amrouche), da altri scritti (soprattutto da quelli di autori anglo-americani, benché tradotti in francese) si riceve per contrasto l’impressione che l’idea di stile sia appunto  ‘indotta’ da una certa forma mentis culturale che in qualche modo influenza il pensiero degli autori. Così, infatti, lo spirito federalista e multiculturale di matrice  americana analizza lo stile nell’ambito di una concezione nettamente improntata sul gender e i post-colonial studies, ovvero secondo una visione agonica e dialettica tra culture che non appartiene allo spirito francese e francofono, ancora in larga parte improntato  alla tradizione scolastico-retorica dello stile. È il caso di Nathaniel Tarn e del suo concetto lato (antropologico) di anti-traduzione, mutuato dalla Babele steineriana ma riproposto in un contesto di conflittualità culturale dove si riconosce (in lei come in molti altri) l’effetto disgregante di una democrazia ‘stilisticamente’ scorretta.

 

(Michela Landi) 


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