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UWE KOLBE, Die Farben des Wassers, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag 2001, pp. 80, € 14,80.

 

Con la sua ultima raccolta di poesie, Die Farben des Wassers, Uwe Kolbe, nato nel 1957 a Berlino Est, ritorna a quello che dei quattro elementi gli è più familiare. L’acqua, legata al mestiere del padre, navigatore fluviale di un paesaggio orientale scomparso  a presente come incancellabile palinsesto di ogni verso, è ora sicura dimora tra i canali che solcano Tubinga e i suoi verdi dintorni, dove Kolbe attualmente vive. Tra alberi e ruscelli i versi, ora in ritmi liberi, ora oculatamente cadenzati in esametri o in pentametri, riproducono le sensazioni di un ritrovato presente siglato con il luogo e il giorno della scrittura, quasi a tenere un diario lirico e costruire lo sfondo di un’esistenza finalmente approdata a una sicura sponda, tra le colline sveve. «Ma io cerco, arrogante chimera, / un paese non tedesco (perciò non diviso) / equidistante dalla Daimler-nazione e dalla Prussia», scriveva nel 1988, e a più di un decennio di distanza Kolbe si riconcilia con il suo paesaggio perché, e solo per questo, accolse e ispirò Mörike e Hölderlin. Come di consueto Kolbe è poeta che legge poesie, che traduce le suggestioni dei suoi autori più amati nei suoi versi. Se nella Berlino della ‘Prenzlauer-Berg-Connection’ gli espressionisti gli avevano impresso a fuoco le immagini della metropoli, ora sono i poetiromantici della natura i numi tutelari della  sua lirica, poeti che sono voci di un paesaggio, melodia di un’esperienza localizzata qui e non altrove, genius loci. Forse per questo la raccolta si apre con il tentativo di archiviazione di un luogo ormai remoto, la Vineta dell’omonimo volume (1998), lo scenario orientale inabissatosi lasciando un «tempo che non guarisce» (Für Clemens Eich). Diario lirico, si diceva, idillio di ponti e sentieri ombreggiati, se non fosse che ognuna delle poesie si diparte da quella ferita sempre aperta nel tempo, se non fosse che il bambino ne ha viste troppe (Beim Zeitungslesen) e che Don Chisciotte, sceso da cavallo, si vergogna e non sa più chi è (Zu wissen). Un io lirico sempre alle prese, suo malgrado, col «prima», «mai con il poi» (Womit ich befaßt bin), condannato a ritornare sempre sui luoghi colpevoli di un’infanzia passata a giocare all’ombra di betulle che nascondono fosse comuni, di colline che recano muta la memoria di Miklós Radnóti, poeta ungherese ucciso dai nazisti (Ich habe es wie immer gemacht). Paesaggiodi betulle sempre novemberkahl, sempre spoglie come a  novembre: questa, in fondo, la Germania di Kolbe tra le crepe del  paesaggio svevo, non diversa, in questa assonanza novembrina che per la storia del novecento tedesco ha una connotazione tragica, dal fatale Novemberland di Günther Grass. Laddove la storia riaffiora e rimuove il verde e le acque sveve, il linguaggio si disincanta, abbandona nuances e discrete citazioni ottocentesche, e si fa nuda cronaca quando non è addirittura orrida pellicola di un inferno dantesco rivisitato che ospita la vendetta di un io lirico intento a infliggere la pena atroce di Ugolino a chi, avendo orecchie per intendere, intenderà (Der schöne Dezember 2000. Frei nach Dante).

C’è da chiedersi se Kolbe, che fin dall’esordio nel 1976 su «Sinn und Form» scrive perchéin credito con la storia, sia  riuscito a recuperare tutto ciò che gli funegato,  come prometteva a se stesso in una poesia di Vineta (Was habe ich nachzuholen). La sua risposta migliore è il «ma» hölderliniano, «che era più patria di questo pianeta, forse» («das mehr Heimat war als dieser Planet, vielleicht»; Der Glückliche) e che è, in fondo, la patria del sommacco orientale, albero che, nell’immagine più bella della raccolta, cresce dal nulla tra i binari della stazione Schönhauser Allee: un «quasi albero», esposto senza tregua, di minuto in minuto, ai due venti dei treni che viaggiano in direzioni opposte, sempre scosso ora da un lato, ora dall’altro, sempre impegnato a resistere da qualsiasi parte soffi il vento: «e ci voleva tutta la sua forza per trattenere le foglie, e null’altro» («und es alle Kraft galt, die Blätter zu halten, sonst gar nichts»; Der Essigbaum).

 

[Stefania Sbarra]  


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