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AD ALTA VOCE

 

di Annalisa Comes

 

 

 

J’entends des voix, disait-elle, qui me commandent...

Marina Cvetaeva

 

 

Nuova moda o esigenza compositiva? La domanda sul senso e sulla validità della grandissima diffusione della scrittura per/con la musica sorge spontanea. Tanto da parte di chi ascolta i versi, quanto, in modo particolare, per chi i versi li compone. Nella mia esperienza di poeta ho trovato nella corrispondenza di musica e poesia un campo assai stimolante che, sostanzialmente, corrisponde poi al mio concetto di poesia e al mio modo di scrivere. Lasciando da parte le giustapposizioni, il sottofondo musicale, i rap trafugati d’oltreoceano, che hanno il sapore di una scolorita, populistica avanguardia (ma che pure trovano tanto successo di pubblico, soprattutto tra i giovani – fenomeno questo che sarebbe interessante indagare, anche da un punto di vista sociale), comporre versi che debbano essere letti a voce alta, recitati o cantati costituisce un’operazione retorica che ha regole a sé. I versi devono tenere in considerazione distanze fisiche, tempi dell’attenzione, toni, ritmo, fare i conti, insomma, con tutto ciò che ha a che fare con l’udito, con il prestare orecchio, con il teatro.

Non è sicuramente casuale il fatto che due dei poeti che stratificamente hanno costituito l’ossatura della mia biografia letteraria, e che sento più vicini proprio nel modus scribendi, siano Osip Mandel’štam e Marina Cvetaeva. Per entrambi la poesia coinvolge il ritmo, il suono e la voce. Mandel’štam in apertura della sua Conversazione su Dante, afferma: «Il discorso poetico è un processo incrociato, e si compone di due specie di suono: la prima di esse è il cambiamento – che noi possiamo udire e percepire – degli strumenti stessi del discorso poetico, emersi strada facendo nello slancio del discorso; la seconda è il discorso vero e proprio, ossia l’attività che, sul piano dell’intonazione e della fonetica, viene svolta da tali strumenti»(O. Mandel’štam, Conversazione su Dante, a c. di R. Faccani, Genova 1994, pp. 41-42). E, soprattutto, Marina Cvetaeva, in quel saggio bellissimo che è Un poeta a proposito della critica, confessa perentoriamente: «Do ascolto a qualcosa che risuona in me in modo costante ma non uniforme, ora dandomi indicazioni, ora dandomi ordini. Quando indica – discuto, quando ingiunge – ubbidisco. [...] Ciò che indica è la via sonora alla poesia: sento il motivo, non sento le parole. Cerco le parole. Più a destra – più a sinistra, più su – più giù, più svelto – più lento, allungare – troncare: ecco le precise indicazioni del mio udito, oppure di qualcosa al mio udito. Tutto il mio scrivere è un continuo prestare orecchio» (M. Cvetaeva, Il poeta e il tempo, a c. di S. Vitale, Milano 1984, pp. 27-28).

Quando Nicola Campogrande mi ha chiesto di scrivere il libretto dell’opera che gli è stata commissionata per il Festival di Edimburgo 2004, la mia poesia era dunque già pronta e ricettiva, per sua natura, ad approfondire quel particolare intreccio di ritmo e parola, ad indagare ancora più da vicino la corrispondenza tra musica e voce, a sperimentare infine, in tutti i modi possibili, lo scrivere per la musica. E quando poi mi ha accennato al tema di From the garden, l’idea di far parlare degli alberi mi ha   subito incuriosito e poi appassionato.

Non intendo solo nel senso della possibilità di una una sfida drammaturgica’, quella di far parlare, agire, muovere quasi, degli alberi – ma essenzialmente quella di potermi concentrare sulla voce. Un teatro di voce, sì ma nel senso corporeo del respiro, delle inflessioni, dello strumento, del canto appunto, un teatro che mi avrebbe permesso di superare ogni dato realistico – considerata anche la necessaria stilizzazione scenica – pur nella assoluta concretezza dello sguardo sulla vita degli uomini (nella rappresentazione di fatti minimi e gesti privati e intimi) e della ‘materia’ dei dialoghi.

Tuttavia necessari aggiustamenti e chiarificazioni sono stati indispensabili. Nicola Campogrande immaginava questi alberi esprimere i loro sentimenti, raccontare le loro storie nell’eden di un giardino botanico (proprio come quello, straordinario, di Edimburgo, il secentesco Royal Botanic Garden), ma io li avevo già ‘visti’ e ‘ascoltati’ in un giardinetto urbano, uno di quelli che ognuno di noi ha avuto occasione almeno di attraversare, presente quasi in ogni città. Un luogo più domestico, anti-elegiaco per costituzione, ma che, proprio per questo, poteva inquadrare gli avvenimenti e gli incontri più diversi, far parlare le voci più varie; non un luogo di teatralità dunque, di spettacolarità, di scelta. D’altronde l’individuazione del luogo ha portato da sé il fluire dei versi, del ritmo, del tono, evitando così l’eccesso della drammaticità retorica tradizionale dei personaggi. Un teatro di confessioni anche: gli alberi sentono il bisogno di parlare, ma senza motivazioni psicologiche, al di là di qualunque convenzione drammaturgica o convenienze di situazione. Le parole, i versi, il canto li sento arrivare direttamente al pubblico quasi senza la mediazione del palcoscenico.

From the garden è un’opera nella quale i cantanti perdono ogni connotazione umana e interpretano quattro alberi. Siamo infatti in un giardino urbano e un platano (plane-tree, basso), un ippocastano (horse-chestnut, contralto), una betulla (birch, soprano) e un tiglio (lime-tree, tenore) conversano tra loro, commentando la vita che scorre loro davanti. Si intrecciano storie di donne e di uomini evocati dalla voce degli alberi, uomini e donne mai rappresentati scenicamente ma fatti vivere dal libretto e dalla musica. Intanto, a poco a poco, arriva l’autunno, la terra si raffredda, i colori mutano, le foglie cadono e anche questo viene cantato dagli alberi, che riflettono sulla loro vita mentre raccontano quella umana.  

 

 

Dalla scena II. La betulla, rivolta alla notte. Poi, una  donna si fa avanti nel buio:

 

B – Now do I see

how you fall around me here,

how the close of the day

– must give way –,

Let the night fall and touch my skin.

Behind the gate,

by the white-bloomed briars

and dark ferns,

people coming in from a blizzard.

Oh, I cannot stop the weather

or restrain this last light –

My voice is restless dew

that cannot melt their pain.

 

Pt – Who faces the cold?

Why does she walk alone?

 

Hc – She steps with a flapping coat

like sail against the mast.

Her hand is tight

flame-face in the night.

 

Pt – Her heart beats,

Her feet run.

White clock

Red voice

grass blesses –

no other noise.

 

Hc – What does she say?

 

Pt – «Let me work».

 

Hc – What does she cry?

 

Pt – «Earth is not round!»

Bareheaded, was it fate?

She seems to be late.

Her temple is white

such grace, such fright.

Along the street

beneath the walls:

Who knows her name?

Her open mouth is in shame.

[...]

 

(B – Così che io possa vedere / come cadi qui presso di me, / come si conclude il giorno / – senza scampo –, / Lascia cadere la notte così che tocchi la mia pelle. / Oltre il cancello, / a lato di rovi biancofioriti / e nere felci, / la gente rietra dalla tormenta. / Non posso fermare gli elementi /o trattanere queste ultime luci – / La mia voce è come una rugiada inquieta / / che non sa sciogliere il loro dolore. // Pl – Chi affronta l’aria gelida? / Perché passeggia tutta sola? // I – Avanza con il mantello / come una vela contro l’albero. / La sua mano è stretta / fiamma-faccia nella notte. // Pt – Il suo cuore batte, / il suo piede corre. / Campanile bianco / voce rossa / l’erba benedice – / nessun altro rumore. // I – Cosa dice? // Pl – «Lasciatemi lavorare». // I – Cosa grida? // Pl – «La terra non è rotonda!» / A capo scoperto, per il destino? / Sembra essere in ritardo. / Bianca la sua tempia / ha la grazia del terrore. / Lungo la strada / accanto ai muri: / Chi conosce il suo nome? / La sua bocca spalancata è una vergogna. /...).

 

Dalla scena III. La donna arriva a riposarsi sotto le fronde del tiglio. L’albero racconta ciò che vede attraverso i vetri delle case:

 

 

[...]

Lt – She finished her run

under my hair,

I listen to her sigh,

she embraces my green

and sobs in the leaves.

Why does she grieve?

Why does she cry?

Her tears glow –

My arms lie down

and linger –

I stretch out my arms

they cross walls and gates.

Some light in the night –

I see a child

with head bent on the kitchen table

cup to the left

plate to the right

bent over book.

Soft light

cup gowing cold

over his face –

Potted plants upon the window ledge

he lifts his pen over the table-cloth edge

Crumbs falled from mouth

like pins and needles

along his writing hand,

while his father

in the room nearby

drinks a beer

and scans the tv with his eye.

 

Hc – What can you see?

 

Pt – What can you see?

 

B – Tell us, tell us what you can see.

 

Lt – I see a woman

looking out from the open glass

she’s laughfing and looking

speaking on the phone

she sings and...

Few cars

fly by on the road.

Here comes a man

with his red coat

his throat

is deep of stone,

he combs his hair

with childlike care.

He dined, he drank

and then

he went to a show,

a night spot,

to celebrate his birthday,

he tries to go home

he passed kicks

and screams

and raves –

one face among so many faces.

He tries to climb

so counts the stairs

– same number –

– same place –

Locked arm in arm with a bottle

His night cheeks

creak as he sneaks...

 

Hc – More, more,

what can you see?

 

Pl – What can you see?

 

B – Tell us, tell us what you can see.

 

Lt – ... there’s a man

sitting at a table,

a trace of light

a trace of pain

seems to have swept him away,

he remains

leaning on his left hand.

I hear the ashes of cigarettes

crackle suddenly

like a bonfire –

lips and lines around it:

he writes a letter –

(whetever god this man belives in

his god is better

than a factory boss) –

the wind blows in his ear

he keeps all these little things –

the chairs are trembling

under the diesel wave,

the sheets fall apart...

 

but ...I can’t read their lines

 

B – I see the page full

I see the lines

that cross the empty page.

 

Hc – Read them

What do they say?

 

Pt – What has he sewn?

 

B – «My darling...» – crossed out

«.... my dear,» I can’t read the name

«happy birthday.

I saw the date

on a display of news.

I was walking,

sore footed,

I was praying,

I looked up –

to meet your voice

to find

the silence of bycicles

the giant clock of frost

all down the white line

of George Street –

horribly white and hard.

I looked up –

to meet

your step

your ring

the wisp of your hair.

A few pence

for the bus-ticket

(Why didn’t you get on?

Why didn’t I call you?)

Opposite the entrance

you left

your shopping bags

for safe-keeping...»

– I fight to keep the meaning

of my words – crossed out

these two lines.

«something might have abondon us:

our books

our dishes

and...

all across by back

– they tempt me

– they weighs down me...»

he sucks

on his wetted knuckle.

 

Lt – Verses, verses...

words, words...

 

Hc – She wont understand

a thing at this rate...

 

Lt – Shh! he’s screws up

he tears

[...]

 

 

T – Ha finito la sua corsa

sotto la mia chioma,

la ascolto sospirare,

abbraccia il mio verde

e singhiozza nel fogliame.

Perché si duole?

Perché grida?

Ardono le sue lacrime –

Le mie braccia si allungano

indugiano –

Si allungano le mie braccia

oltrepassano mura e cancello.

Luci nella notte –

Vedo un bambino

con la fronte curva sul tavolo della cucina

una tazza a sinistra

un piatto a destra

chino, chino sul libro.

Una luce dolce

la tazza si raffredda

sulla sua faccia –

Le piante in vaso sopra il davanzale

leva la penna sopra gli angoli della tovaglia

Briciole cadute dalla bocca

come aghi e spilli

sulla mano che scrive,

mentre il padre

nella stanza accanto

beve birra

e vaga nella tv col suo occhio.

 

I – Cosa vedi?

 

Pl – Cosa vedi?

 

B – Dicci cosa vedi.

 

T – Vedo una donna

che guarda fuori dal vetro aperto

ride e guarda

parlando al telefono

canta e...

Poche macchine

volano sulla strada.

Vedo un uomo

dal cappotto rosso

la sua gola

profonda di pietra,

si pettina

con la sua mano da bambino.

Ha cenato, ha bevuto

e poi

è andato a uno spettacolo

in un locale notturno

a festeggiare il suo compleanno,

cerca di rincasare

ha oltrepassato calci

e urla / e deliri

una faccia fra tante altre.

Cerca di salire le scale

conta i gradini

– lo stesso numero –

– lo stesso posto –

a braccetto con la bottiglia

Le sue guance notturne

cigolano quando cerca di sgattaiolare

 

 

I – Ancora, ancora, cosa vedi?

 

 

Pl – Cosa vedi?

 

B – Dicci cosa vedi.

 

T – ... c’è un uomo

seduto al tavolo,

un indizio di luce

un indizio di dolore

sembra trascinato,

è ancora lì

appoggiato alla mano sinistra.

Sento la cenere della sigaretta

crepitare improvvisamente

come un falò –

labbra e linee attorno:

scrive una lettera –

(a qualunque dio creda

il suo dio è meglio

di un capo fabbrica)

il vento soffia nell’orecchio –

tiene da conto tutte queste piccole cose –

le sedie tremano

sotto l’onda di un diesel,

la carta si squaderna come...

 

– Non leggo le sue righe

 

B – Vedo la pagina piena

vedo le righe

che attraversano la pagina vuota

 

I – Leggile // Cosa vedi?

 

 

Pl – Cosa segna?

 

B – «Mia cara...» – cancellato

«... mia cara» non riesco a leggere il nome

buon compleanno.

Ho letto la data

sul cartellone di un giornalaio.

Camminavo / col mal di piedi,

Pregavo,

Alzo gli occhi –

per incontrare la tua voce

ma

solo silenzio di biciclette,

l’enorme orologio di gelo

giù per la linea bianca

di George Street

orribilmente bianca e dura.

Alzo gli occhi –

per incontrare

il tuo passo

il tuo anello

una ciocca di capelli.

Pochi spiccioli

per il biglietto dell’autobus

(Perché non sei entrata?

Perché non ti ho chiamato?)

Di fronte all’ingresso

hai lasciato

i pacchi della spesa

come salvezza...

– Combatto per mantenere

il senso delle mie parole –”

– cancellate

queste due ultime righe.

«qualcosa ci avrebbe abbandonato:

i nostri libri

le stoviglie

e...

sulla mia schiena

– mi tentano

– pesano...»

aspira

dalla nocca inumidita.

 

T – Versi, versi...

parole, parole...

 

I – Lei non capirà niente

di questo passo...

 

T – Sh! L’accartoccia

la lacera –

(...).

 

«Ritornello» della scena III, il vento scuote gli alberi:

 

 

Pt – In the beginning

a light breeze

breathed its cold breath

between our hands and arms and shoulders.

It wasn’t a common breeze

it spoke with no-fruits

it ran through blood

and juice

and went indoors.

It entered the city at noon

where the grass was trampled,

then loud

of dissonance

on flopped hats

and bags

and books

on beards & boots.

Rumble of wheels over wobblestone,

wild shrubs beat the cement.

It scales the wall and gate

enters the garden

haunts and dances

reaches to the sea:

Oh my shaky head,

Oh my empty of head –

our neck and yours.

Promise.

It pushes me.

It screws me down.

A Bell!

 

It’s time.

Pl – In principio

una brezza leggera

soffiava il suo freddo alito

attraverso le nostre mani e braccia e spalle.

Non era una brezza comune

parlava con non-frutti

scorreva attraverso il sangue

e il succo

rientrava a casa.

Entrava nella città a mezzogiorno

dove l’erba era calpestata,

poi vociante

di dissonanza

su cappelli calcati

e borse

e libri

su barbe e stivali.

Rombo delle ruote sui ciottoli,

arbusti selvatici battevano il cemento.

Scala il muro e il cancello

entra nel giardino

assedia e balla

fino al mare:

Oh, la mia testa che vacilla,

Oh la mia vuota di testa –

i nostri colli e il tuo.

Promessa.

Mi spinge.

Mi avvita.

Campana.

 

È ora.

 

 

 

 

 

 


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