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AI

 

Ai, che in giapponese significa ‘amore’, è il secondo nome di Florence Anthony, autrice di sei volumi di poesia (v. la recensione al più recente, Dread, su Semicerchio XVIII, 2003) in cui esplora il monologo drammatico per interpretare personaggi estremi ripresi dalla storia o dalla cronaca, ad esplorare le ragioni del male che hanno inflitto o subito. In una lingua asciutta, spesso ripresa dalla strada, racconta il loro inferno di terrore, storie di vite emarginate che esplodono nella violenza, le zone incomprensibili della psiche umana. Nata in Texas nel 1947, ma vissuta per lo più a Tucson, in Arizona, cresciuta nella religione cattolica, Ai è giapponese da parte di padre, afroamericana, irlandese ed indiana (della tribù dei Choctaw dell’Oklahoma) da parte di madre: un complesso background culturale a cui attinge per costruire i suoi caratteri. Alla sua opera sono andati il National Book Award per Vice: New and Selected Poems (1999), l’American Book Award per Sin (1987) e il Lamont Poetry Award dall’Academy of American Poets per Killing Floors (1978).

Ai è professore d’inglese presso la Oklahoma State University. Presentiamo le prime traduzioni italiane della sua poesia.

 

(Antonella Francini)

 

 

 

 

MORE

 

 

Last night, I dreamed of America.

It was prom night.

She lay down under the spinning globes

at the makeshift bandstand

in her worn-out dress

and too-high heels,

the gardenia

pinned at her waist

was brown and crumbling into itself.

What’s it worth, she cried,

this land of Pilgrim’s pride?

As much as love, I answered. More.

The globes spun.

I never won anything, I said,

I lost time and lovers, years,

but you, purple mountains,

you amber waves of grain, belong to me

as much as I do to you.

She sighed, the band played,

the skin fell away from her bones.

Then the room went black

and I woke.

I want my life back,

the days of too much clarity,

the nights smelling of rage,

but it’s gone.

If I could shift my body

that is too weak now,

I’d lie face down on this hospital bed,

this icy water called Ohio River.

I’d float past all the sad towns,

past all the dreamers onshore

with their hands out.

I’d hold on, I’d hold,

till the awful heaviness

tore from me,

sank to bottom and stayed.

Then I’d stand up

like Lazarus

and walk home across the water.

 

 

 

 

 

 

THE MOTHER’S TALE

 

Once when I was young, Juanito,

there was a ballroom in Lima

where Hernan, your father,

danced with another woman

and I cut him across the cheek

with a pocketknife.

Oh, the pitch of music sometimes,

the smoke and rustle of crinoline.

But what things to remember know

on your wedding day.

I pour a kettle of hot water

into the wooden tub where you are sitting.

I was young, free.

But Juanito, how free is a woman?—-

born with Eve’s sin between her legs,

and inside her,

Lucifer sits on a throne of abalone shells,

his staff with the head of John the Baptist

skewered on it.

And in judgment, son, in judgment he says

that women will bear the fruit of the tree

we wished so much to eat

and that fruit will devour us

generation by generation,

so my son,

you must beat Rosita often.

She must know the weight of a man’s hand,

the bruises that are like the wound of Christ.

Her blood that is black at the heart

must flow until it is red and pure as His.

And she must be pregnant always

if not with child

then with the knowledge

that she is alive because of you.

That you can take her life

more easily than she creates it,

that suffering is her inheritance from you

and through you, from Christ,

who walked on his mother’s body

to be the King of Heaven.

 

 

 

 

 

REUNIONS WITH A GHOST

 

 

The first night God created was too weak;

it fell down on its back,

a woman in a cobalt blue dress.

I was that woman and I didn’t die.

I lived for you,

but you don’t care. You’re drunk again,

turned inward as always.

Nobody has trouble like I do, you tell me,

unzipping your pants

to show me the scar on your thigh,

where the train sliced into you

when you were ten.

You talk about it with wonder and self-contempt,

because you didn’t die

and you think you deserved to.

When I kneel to touch it,

you just stand there

with your eyes closed,

your pants and underwear bunched at you ankles.

I slide my hand up your thigh

to the scar and you shiver

and grab me by the hair.

We kiss, we sink to the floor,

but we never touch it,

we just go on and on tumbling through space

like two bits of stardust that shed no light,

until it’s finished,

our descent, our falling in place.

We sit up. Nothing’s different, nothing.

Is it love, is it friendship

that pins us down,

until we give in,

then rise defeated once more

to reenter the sanctuary of our separate lives?

Sober now, you dress,

then sit watching me

go through the motions of reconstruction—-

reddening cheeks, eyeshadowing eyelids,

sticking bobby pins here and there.

We kiss outside

and you walk off, arm in arm with your demon.

So I’ve come through the ordeal of loving once again,

sane, whole, wise, I think as I watch you,

and when you turn back, I see in your eyes

acceptance, resignation,

certainty that we must collide from time to time.

Yes. Yes, I meant goodbye when I said it.

 

DI PIÙ

a James Wright

 

Ieri notte sognai l’America.

Era una notte di gala.

Stava distesa sotto i globi rotanti

al palco improvvisato della banda

nel suo abito consunto,

e i tacchi troppo alti,

la gardenia

appuntata al petto

era scura e si sbriciolava.

Quanto vale, gridò,

questa terra gloria dei Pellegrini?

Quanto l’amore, risposi. Di più.

I globi ruotavano.

Non ho mai vinto nulla, dissi,

ho perso tempo e amanti, anni,

ma voi, monti purpurei,

voi onde ambrate di grano, mi appartenete

quanto io a voi.

Lei sospirò, la banda suonava,

la pelle le abbandonò le ossa.

Poi la stanza diventò nera

e io mi svegliai.

Rivoglio la mia vita,

i giorni di soverchia chiarezza,

le notti odoranti di rabbia,

ma se n’è andata.

Se potessi spostare il mio corpo

che è troppo debole ora,

mi stenderei a bocconi su questo letto d’ospedale,

quest’acqua gelata chiamata Fiume Ohio.

Scorrerei oltre tutte le città tristi,

oltre tutti i sognatori sulla riva

con le mani tese.

Terrei duro, terrei duro,

finché il peso, finché la terribile pesantezza

non si strappasse da me,

cadesse e rimanesse laggiù in fondo.

Poi mi alzerei

come Lazzaro

e andrei a casa camminando sull’acqua.

 

da Sin (1986)

 

 

 

 

IL RACCONTO DELLA MADRE

 

Una volta, quando ero giovane, Juanito,

c’era una sala da ballo a Lima

dove Hernán, tuo padre,

ballava con un’altra donna

e gli feci un taglio sulla guancia

con un coltello.

O, il tono della musica a volte,

il fumo e il fruscio della crinolina.

Ma cosa mi viene in mente ora

il giorno del tuo matrimonio.

Verso un pentolino d’acqua calda

nella tinozza di legno dove sei seduto.

Ero giovane, libera.

Ma Juanito, una donna quant’è libera? –

Nata col peccato di Eva fra le gambe,

e dentro di sé,

Lucifero siede su un trono di conchiglie,

con la testa di Giovanni Battista infilzata

nel bastone.

E da giudice, figliolo, da giudice dice

che le donne partoriranno il frutto dell’albero

che tanto desiderammo mangiare

e quel frutto ci divorerà

generazione dopo generazione,

perciò, figlio mio,

devi picchiarla spesso Rosita.

Deve conoscere il peso della mano d’un uomo,

i lividi come le ferite di Cristo.

Il suo sangue che è nero al cuore

deve scorrere finché non è rosso e puro come il Suo.

E deve essere sempre pregna

se non d’una creatura

allora della consapevolezza

che è viva grazie a te.

Che tu puoi prenderle la vita

più facilmente di quanto lei la crei,

che sofferenza è l’eredità che avrà da te,

e per tuo tramite, da Cristo,

che camminò sul corpo di sua madre

per essere il Re dei Cieli.

 

 

 

 

 

RIUNIONI CON UN FANTASMA

a Jim

 

La prima notte che Dio creò era troppo debole;

cadde sulla sua schiena,

una donna in abito blu cobalto.

Ero io quella donna e non morii.

Vissi per te,

ma a te che importa. Sei di nuovo ubriaco,

introverso come sempre.

Nessuno è preoccupato come me, mi dici,

aprendo la cerniera dei pantaloni

per mostrarmi la cicatrice sulla coscia,

dove il treno ti fece a fette

quando avevi dieci anni.

Ne parli con stupore e disprezzo di te,

perché non moristi

e pensi che te lo saresti meritato.

Quando m’inginocchio per toccarla,

rimani là in piedi

ad occhi chiusi,

i pantaloni e le mutande ammucchiati alle caviglie.

Faccio scorrere la mano su per la tua coscia

fino alla cicatrice e tremi

e mi afferri per i capelli.

Ci baciamo, cadiamo sul pavimento,

ma senza mai toccarlo,

continuiamo solo a precipitare nello spazio

come due scintille di polvere di stelle che non danno luce,

finché è finito,

la nostra discesa, il nostro ritorno all’ordine.

Ci tiriamo su. Nulla è diverso, nulla.

È l’amore, è l’amicizia

che c’inchioda

finché non ci arrendiamo,

per poi alzarci di nuovo sconfitti

e rientrare nel santuario delle nostre vite separate?

Sobrio ora, ti vesti,

poi ti siedi e mi guardi

ripetere i movimenti della ricostruzione –

il rosso alle labbra, l’ombretto agli occhi,

forcine infilate qua e là.

Fuori ci baciamo

e te ne vai, a braccetto con il tuo demone.

Così ho attraversato ancora una volta il tormento dell’amore,

sano, completo, saggio, penso mentre ti guardo,

e quando ti volti, vedo nei tuoi occhi

accettazione, rassegnazione,

certezza che dobbiamo scontrarci di tanto in tanto.

Sì. Sì, intendevo un arrivederci quando l’ho detto.

 

da Fate (1991)

 

 

 

[Poesie tratte da Vice: New e Selected Poems, di Ai, copyright 1999, by Ai, su concessione dell’Editore W.W. Norton & Company, Inc.]

 

 

 

LULLABY

 

Run my child. Don’t delay

The beast is beating on the door

with rifle butt and fists.

Soon his boots are stomping

on the floor, as if he is cold

and trying to warm his feet.

He hasn’t had a thing to eat for days

and tears bread from your sister’s hand

before he shoots her in the head

and smashes all the dishes.

His mouth full, he chews

as he ascends the stairs

two at a time and finds me

calmly sitting on the bed.

«Waiting for me?» he asks,

as he hurls a stone

that strikes me in the face,

breaking my jaw,

then proceeds to set fire to my body,

after which he walks back downstairs and outside.

The hounds howls as the neighbors

steal what’s left of us.

We’re dead afterall.

Who cares whether or not we suffered

or even that they once called us friends,

because in the end they agree

we got what we deserved for being born.

I hoped you would survive,

but you die anyway beside the road

your body frozen to the earth

until spring,

when your bones are discovered by the hound

who buries them with other bones

he’s collected as he roams the countryside

masterless now and wild.

He’s forgotten he once was companion to a child,

who used to scratch him between ears.

Now that spot is inflamed

and he shakes his head and rubs it against a tree

beside the stream where we picnicked

and he stood on his hind legs,

almost dancing as he begged for scraps

of boiled ham, dark bread and deviled eggs.

Now when he hears the sound of voices,

he growls, covers the bones quickly

and hides beneath the burned-out shell of a car

until they fade

like all the voices that once made us family,

but could not save us from our destiny.

NINNA NANNA

 

Corri bambino mio. Non ti fermare.

La bestia batte alla porta

col calcio del fucile e a pugni.

Sentirai presto il tonfo dei suoi stivali

sul pavimento, come avesse freddo

e cercasse di scaldarsi i piedi.

Non ha mangiato nulla da giorni

e strappa il pane dalla mano di tua sorella

prima di spararle un colpo in testa

e fracassare tutti i piatti.

A bocca piena, mastica

mentre sale le scale

due a due e mi trova

seduta tranquilla sul letto.

«Aspettavi me?» chiede,

mentre lancia un sasso

che mi colpisce in faccia

e mi rompe la mascella,

poi passa ad incendiarmi il corpo,

e dopo scende giù per le scale ed esce.

I cani ululano mentre i vicini

rubano quel che resta di noi.

Siamo morti in fondo.

Che importa se abbiamo sofferto

o che una volta ci chiamavano amici,

perché alla fine sono d’accordo

che abbiamo avuto il dovuto per essere nati.

Speravo che saresti sopravvissuto,

ma muori lo stesso accanto alla strada,

il corpo gelato a terra

fino a primavera,

quando le tue ossa sono scoperte dal cane

che le seppellisce con altre ossa

raccolte vagando per la campagna

senza padrone ora e selvaggio.

Ha dimenticato che un tempo era il compagno d’un bambino,

che l’accarezzava fra le orecchie.

Ora quel punto è infiammato

e scuote la testa e la strofina contro un albero

accanto al ruscello del nostro pic-nic

e lui stava seduto sulle zampe di dietro,

quasi ballando mentre elemosinava avanzi

di prosciutto cotto, pane nero e uova speziate.

Ora quando sente il suono delle voci,

ringhia, copre svelto le ossa

e si nasconde sotto la carcassa bruciata d’un’auto

finché non svaniscono

come tutte le voci che una volta fecero la nostra famiglia,

ma che non hanno saputo salvarci dal nostro destino.

 

da Dread (2003)

 

 

 

[Tratta da Dread: Poems di Ai, copyright 2003 by Ai, su concessione dell’Editore W.W. Norton & Company, Inc.]

 

 

 

[traduzione di Antonella Francini]

 


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