« indietro DELLA NIDDAH O RACHELE E LE SUE SORELLE
ALICIA OSTRIKER tradotta da Elisa Biagini
Racconta la Bibbia (in Genesi 31) di come Rachele, prima di allontanarsi dalle terre del padre Labano con il marito Giacobbe e la sorella, avesse deciso di vendicarsi della violenza paterna di anni, dell’arroganza verso le figlie e le schiave, della sua ottusità, decidendo di colpire il vecchio nel suo unico punto debole: i suoi terafim. Questi erano gli idoli protettori (ognuno con un ruolo specifico) presenti in ogni casa di Paddan-aram e dell’intera zona, come pure presenti, nelle tende delle donne, erano le immagini della Dea madre, il cui culto rimarrà a lungo vivo nonostante la rapidissima espansione del monoteismo del dio di Israele. (Si manterrà vivo infatti un mondo alternativo di rituali e preghiere, molto spesso legate alla terra e alla luna e di conseguenza al corpo che con questa muta.) Le donne, relegate ai loro ruoli di cuoche e di madri, ai loro ritmi di lavoro massacranti avevano un’unica pausa: durante la mestruazione. Esistevano infatti (e ancora esistono in molte zone del mondo) delle tende (o capanne o stanze separate a seconda dei diversi paesi) dove le donne potevano isolarsi e trascorrere del tempo raccontandosi storie, scambiando esperienze e conoscenze in un ambiente solo loro. Ma come mai queste donne potevano permettersi questa sorta di vacanza, nel senso di un allontanamento dall’invasivo e dominante mondo maschile? Perché queste, durante la mestruazione, erano impure e quindi pericolosissime per lo spesso precario equilibrio di queste società pastorali: il loro sangue era misterioso perché non frutto di una ferita o isolato, ma ricorrente, una sorta di morte e rinascita mensile che agli occhi maschili sembrava essere caratteristica di un essere dotato di poteri incomprensibili e come tali minacciosi. Una donna mestruata non poteva infatti toccare nulla (e quindi tanto meno cucinare perché rischiava di avvelenare tutti) perché le sue mani apparentemente pulite potevano nascondere delle rimanenze di sangue sotto le unghie (ed è questa una delle prima cose, ancora oggi, della quale accertarsi durante il bagno purificatore post-mestruazione fatto dalle donne ebree osservanti, il Mikveh). Le donne, nell’immaginario maschile, sembravano dunque avere poteri quasi magici (e si pensi alle streghe in tempi successivi), di morte e come tali andavano allontanate e isolate, lasciate ai loro riti segreti, al loro parlare con la natura: ma alla lunga si capì come questa pausa isolata fosse sì positiva per arginare la loro possibile contaminazione, ma fosse anche un’occasione per queste di liberarsi dall’autorità maschile e dalle sue regole, anche se per un breve tempo. Queste donne infatti non provavano vergogna, né si sentivano impure, anzi salutavano con gioia questa parentesi dal duro lavoro ponendosi in una posizione potenzialmente conflittuale con l’autorità maschile perché a questa alternativa e non succube. Si entrò allora nelle tende, si interruppero i canti e le preghiere, si proibì di adorare la Dea madre e si istillò nelle menti delle donne – da allora per sempre sotto controllo – il senso della vergogna, dell’inferiorità. Non si parlò più del sangue, si trovarono mille espressioni diverse che mai lo nominassero davvero, si abbassarono gli occhi, ci si vergognò di andare a comperare gli assorbenti, si inventò la sindrome premestruale. Ma sto andando troppo avanti in questa storia: adesso invece siamo nella tenda con Rachele che si sta ripassando la parte. Guarderà dritto in faccia quel padre prepotente e userà la sua unica arma di donna: il suo sangue, il suo misterioso potere, che spaventa anche al solo nominarlo. In questa breve lirica della Ostriker, parte (come pure gli altri testi qui tradotti) di La nudità dei padri. Visioni e revisioni bibliche – testo fra il saggio, la raccolta poetica e l’autobiografia – sono dunque racchiusi tanti e fondamentali temi, e Rachele è «sorella di lotta» di Sara, Miriam e Hagar, donne sole contro l’oppressivo potere maschile, il cui ruolo nel testo biblico benché fondamentale diventa sempre secondario rispetto ai vari Giacobbe o Mosè o Isacco. Donne che, benché rispettate nel loro fondamentale ruolo di madri, non hanno reale voce in capitolo nelle decisioni del gruppo; donne alle quali è ribadita costantemente la propria impurità a cominciare dal momento del parto: in Levitico 12, 2-5 si dice che se la donna partorirà un maschio sarà impura per sette giorni, ma se partorirà una femmina sarà impura per quattordici giorni, e molti di più saranno naturalmente i giorni nei quali non potrà toccare né entrare nei luoghi santi; donne che sono realtà spaventose perché potenti e come tali devono essere neutralizzate. E proseguendo sempre nel Levitico si legge (25, 26) che ogni cosa dove questa giacerà sarà impura, ogni cosa dove essa si siederà (come nel caso del testo su Rachele), ogni oggetto che essa toccherà: sarà dunque controllata a vista e le sarà costantemente ribadita la sua pericolosità (e naturalmente alla fine della sua fase di impurità questa dovrà fare sacrificio a Dio per tornare nelle Sue grazie). Non molto spesso nella Bibbia le donne parlano in prima persona – e sempre brevemente –, e talvolta sono identificate solo attraverso il loro grado di parentela con un uomo, senza che venga dato loro neppure un nome: nei midrashim della Ostriker, confluiscono le voci di tante donne «silenziate», mille storie che non ci sono mai state raccontate (e anche quando non parlano sono comunque tenute d’occhio: Sara osa sorridere, probabilmente di piacere, alla notizia della propria tardiva gravidanza e Dio la rimprovera subito duramente; Genesi 18, 12-15). L’intento della poetessa americana è infatti, nelle sue parole, « to read a text of power through the eyes of the powerless», e quindi Sara che si tormenta per la propria sterilità ed è gelosa di Hagar che dà per prima un figlio a Abramo, ma che al contempo riconosce la grettezza del marito (riferendosi all’episodio nel quale lui le chiede di passare per sua sorella in modo da ingraziarsi il Faraone, che è anche, fra le altre cose, il primo dialogo diretto uomo-donna della Bibbia; Genesi 12, 12-13) e il fatto che Hagar è una donna come lei che la società impone che le sia rivale e non amica e compagna solidale. Queste donne che sono accettate e tollerate solo per la loro capacità di far figli (e di qui la peggiore maledizione possibile: la sterilità, ‘Aqarut, che significa « morte nella vita » ) sui quali però, appena questi hanno raggiunto l’età adulta, esse non hanno più alcun potere e i loro padri possono pure tentare di ucciderli, come nel caso dell’ ‘Aqedah di Isacco. Il testo che dà voce ad Hagar offre anche un altro piano di lettura: lei e Sara sono divise – anche se si erano fatte promesse diverse, «dimentichiamoci le nostra nazionalità, dimentichiamoci / i ceti sociali[...] / saremo donne insieme» – in quanto una egiziana (e madre dell’antenato degli Arabi, Ismaele che, come Alicia ci ricorda, è infatti colui che nel Corano è quasi sacrificato da Abramo) e una ebrea, una meditazione sull’attuale situazione politica di sempre maggiore separazione e impossibilità di comunicazione tra i due popoli. Neppure alle sorelle di sangue è risparmiata la rivalità utile al gruppo, come nel caso di Lea e Rachele: «Sorella, non era nei nostri piani / lottare per un uomo, e allora perché lo facciamo?». Messe una contro l’altra prima dal padre Labano e poi dal marito Giacobbe che favorisce platealmente Rachele (e già Dio aveva favorito in bellezza Rachele a scapito di Lea, segnando quindi il destino di entrambe; Genesi 29, 16-17), dimenticano la solidarietà dell’infanzia per una lotta per l’attenzione del marito, trascinando in quest’odio anche i propri figli (come si vede nell’episodio della vendita, da parte dei fratelli, di Giuseppe a dei mercanti egiziani; Genesi 37, 27). E infine Miriam, la prima poetessa e artista nonché profetessa, personaggio chiave nella salvezza del tanto amato da Dio, Mosè. Miriam che però parla troppo, che osa dire quello che pensa a Mosè insieme al fratello Aronne, ma che è l’unica ad essere puntita da Dio con l’orrore della lebbra per aver osato tanto. Miriam reclama uno spazio di dialogo con Dio in quanto sorella del prescelto Mosè, qualcosa di mai prima sentito, e Dio, adirato,non solo le manda la malattia ma la fa allontanare dal campo per 7 giorni e dice a Mosè, perché questo glielo riferisca, «Se suo padre le avesse sputato in viso non avrebbe dovuto essere piena di vergogna per 7 giorni?» (Numeri 12, 14). Dio ha rimesso al suo posto la donna che ha osato lamentarsi: che sia monito e esempio per tutte le altre. Ma la Miriam dell’Ostriker non si piega, e canta e coinvolge le donne in un canto gioioso per la fine della schiavitù: è la madre di tutte le poetesse che non si fanno zittire da minacce maschili, la prima di infinite voci di protesta, «che cosa ho se non la voce, per annunziare la libertà».
Alicia Ostriker (New York, 1937) ha pubblicato nove raccolte poetiche (la più recente delle quali è The volcano poems, Pittsburgh Press 2002) e numerosi saggi critici tra cui Stealing the language. The emergence of women’s poetry in America (Boston,1996) e The nakedness of the fathers. Biblical visions and revisions (New runswick, 1994), da cui sono tratti i testi qui presentati. La poetessa insegna Letterature Inglese e Scrittura creativa alla Rutgers University (New Jersey, U.S.A.). Per aiutarmi nella stesura di questo testo, oltre ai due saggi critici della Ostriker sopra citati, ho utilizzato The curse. A cultural history of menstruation (Urbana and Chicago, 1988) di J. Delaney, M.J. Lupton and E. Toth, Le matriarche (Firenze, 2002) di Catherine Chalier, nonché varie edizioni della Bibbia. A questi ho unito appunti e riflessioni raccolti nel tempo su questo argomento. ¬ top of page |
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