« indietro GABRIELLA SICA, Scrivere in versi, Metrica e poesia, Milano, il Saggiatore 2003, pp. 233, € 8,50.
Nuova edizione del manuale uscito con Pratiche nel ’99: aumentata nel numero e nella precisione delle informazioni, corredata di una bibliografia abbondante e aggiornata, è soprattutto arricchita con un nuovo, decisivo capitolo «Sul metro nuovo: la poesia all’alba del secolo». Uno strano, piacevolissimo libro di versificazione, scritto per «rendere più umana la metrica» ed effettivamente aperto a una comunicazione quasi confidenziale col lettore, coinvolto in una passione per la poesia come mondo alternativo e riserva estetica che sembra guardare da lontano, forse dall’alto, le tensioni «comunali» che muovono in apparenza lo stagno senza voci. È passato qualche anno, e Gabriella Sica scopre che i vecchi compagni di strada non ci sono più (p. 12) e che «la solidarietà culturale è sempre più un sogno della giovinezza», ma conserva cristallina la convinzione che l’informe sia contrario alla poesia, così come lo sarebbe il virtuosismo filologico (che però, ci permettiamo di chiosare, almeno non pretende di essere poesia). Se è vero che la poesia esiste quando si libera dalla caducità individuando il suo linguaggio, la metrica come scienza del limite potrebbe essere la chiave del suo segreto. E questo libro ce ne indica l’accesso trasformando i segreti della tecnica in colori e passioni, con una leggerezza inconsueta per la materia e un tono quasi diaristico, umanistico in un senso che le picconate delle avanguardie sembravano aver seppellito per sempre e che invece oggi si rivela nuovamente necessario. Sostanza di questa magia e insieme sua contraddizione è la certezza che «originali» significhi ‘legati alle origini’, che la poesia sia scienza eppure non si possa imparare: scienza dunque solo del passato, della poesia degli altri («se fosse per me, più che insegnare la strada della poesia vorrei distogliere da essa», p. 19). Introdotti ai suoi misteri da un’esaltazione ispirata del valore sacrale di quest’arte («può tornare a raccontare l’essere nella sua pienezza»), ci muoviamo per rime e ritmi con una agilità metastorica che sa spostarsi da Iacopone al Tao, dall’amatissimo Petrarca a Sandro Penna. Ma la proiezione sulla storia trascorsaci priva forse della possibilità di una prospettiva progettuale del fatto metrico, legge l’esattezza nel passato anche recente ma rischia di chiuderla in una perfezione irripetibile. Cerchiamo allora le tracce del nuovo nel capitolo integrativo, che parte in certo qual modo dai risultati già esposti nell’antologia La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, pubblicata nel ’95 con Maria Ida Gaeta, e la aggiorna alla luce di quel che hanno prodotto i poeti novissimi, di cui si elencano con ecumenica generosità alcune decine di nomi (cui peraltro potremmo aggiungerne o sostituirne almeno un’altra quindicina). Da allora, dal ’95, sembrano passati secoli di brulichio magmatico nel quale si affaccia, accanto a movimenti più scomposti ma forse più vivi, una chiara tendenza neometrica. La Sica giustamente non se ne dichiara affascinata, ma alla fine il tema di ricerca le impone comunque di leggere in luce metrica, con qualche forzatura, anche segni che non vi dialogano se non per incidenza: Conte filtrerebbe D’Annunzio, Buffoni articolerebbe una «metrica ragionativa e discorsiva» di ascendenza inglese, Carifi tedesca e Magrelli francese. In questo caso il rischio è di confondere le influenze culturali e perfino i modelli di testo con uno schema versificatorio che può invece essere anche allogenetico (Carifi, ad esempio, risente con evidenza di Rilke, Trakl e Celan, ma il suo verso suona assai più pascoliano che germanico). La metrica dell’oggi è una questione complessa, che non si lascia ridurre alla ricerca del sonetto o della terzina. Se si vuol capire la cifra anche tecnica di Zanzotto non ci si deve lasciare ammaliare dall’episodio dell’Ipersonetto: ben altro è il contributo che il grande poeta veneto ha dato alla forma poetica del secondo novecento italiano. Il capitolo rivela qui tutta l’impotenza di una reductio della poesia recente al filtro versificatorio inteso nel senso antico della metrica (per cui si distinguono poeti che riusano anche occasionalmente forme tradizionali e altri che non lo fanno): occorre, e in questo l’umanesimo della Sica ci può fare ulteriormente luce, rimettersi alla ricerca dei criteri nuovi che strutturano la metrica di oggi, del respiro profondo che individua la voce di ogni poeta e la mette in circolo con gli altri. Certi che il verso libero non ha rinunciato alla forma, ma che il ritorno a capo dell’aratro, il suo versus ha sempre un mistero nuovo da scoprire, il segreto che propone un freno alla dissoluzione: se anche, in un tempo di norme individuali e non riconosciute, questa legge non serve più a comunicare, almeno costruisce un’obbedienza che copre, ripara, protegge, la maschera che ripete il volto.
[Francesco Stella]
ARMANDO GNISCI, Una storia diversa, Roma, Meltemi 2001, pp. 119, € 12,39.
Decimo volumetto della collana «Poetiche», propone con feroce chiarezza e insieme con ariosa varietà di toni e di tagli la concezione ideologica della comparatistica propugnata con coraggio e coerenza da Armando Gnisci, che si fonda sull’adozione cosciente di un punto di vista esterno all’oggetto. Il primo capitolo, Una storia diversa, parte da una frase di Kissinger illuminante per chiarezza contro distinzioni più o meno ipocrite («Globalization is only another world for US domination»), per elaborare un invito alla decolonizzazione che faccia perno sulla letteratura, «l’unica forma di comunicazione, democratica, paritaria, plurale, reciprocante e dotata di valore del senso, oggi ancora possibile e che funzioni tra tutte le culture», perché «la letterarietà è l’irriducibile qualità comunicabile dell’umano ». Per sgombrare il campo da affinità improprie Gnisci decostruisce i precedenti di questa posizione, la Weltliteratur goethiana, e illustra gli strumenti a suo avviso più efficaci e aggiornati come la lettura delle «comunità interletterarie» e i «centrismi» di urišin (che grazie a Gnisci conosciamo ora anche in italiano: vd. Semicerchio 26), opponendo alla «global literature» soggetta alla mercificazione la «letteratura dei mondi» della quale qui si propone una sorta di introduzione e di manifesto. Il cortocircuito fra «il programmatico ed eversivo valore anti-imperialista » che Gnisci attribuisce al metodo di decolonizzazione e la sua interpretazione letteraria rischia forse di risultare da una parte troppo ambizioso per una scienza povera come la comparatistica, e d’altra parte riduttivo per chi, come siamo abituati a fare, collochi i risultati di un lavoro scientifico su un piano di alterità rispetto al contingente. Ma la ricostruzione storica dei processi di formazione della coscienza letteraria negli imperi coloniali che Gnisci, basandosi su quest’assunto, espone nella seconda parte di questo primo capitolo è certamente affascinante. Un Intermezzo dialogico conduce al secondo e ultimo capitolo, Arcipelago, che offre uno squarcio di storia prescrittiva a ritroso: dalla perdita di elaborazione culturale dell’Occidente («Abbiamo poco di occidentale a cui far riparo», p. 65) risale alla costruzione dell’identità europea nella «processione» medievale che dall’innesto multiplo di Egitto e Oriente in Atene e di Atene in Roma alla sua assimilazione nel cristianesimo alle rinascenze neoclassiche coagula una forma nel Sacro Romano Impero per poi stravolgerla con l’espansione coloniale. Solo l’adozione di uno stile e di una prassi decolonizzata potrà aprire a una nuova ospitalità non più riducibile alla solidarietà laica o cristiana. In quest’analisi, tesa e impietosa nella sua unilateralità, si propongono anche nuovi utili ferri del mestiere, come la definizione del concetto di sovraidentità, identità plurima e stratificata, deriva della volontà di potenza che ha portato al colonialismo. Questa poetica viene documentata da testi come il discorso del capo indio Guaicaipuro Cuautemoc del marzo 2000 (che candidamente omette di ricordare quanto anche i regni precolombiani si fossero formati grazie alla volontà di potenza e di massacro degli «indios») e un commento a questo discorso da parte dello scrittore brasiliano Julio Cesar Monteiro Martins. Gnisci conclude, cambiando ancora genere, con due Atti di una sorta di confessione dialogata, un’autoinquisizione biografica che mette alla prova la propria coerenza intellettuale, e trova nell’emigrazione alla rovescia di Rimbaud in Africa il modello letterario estremo della modernità europea. Le ultime pagine si concedono un passo apparentemente più diaristico e giornalistico (Seattle/Lilliput), ma anche il breve capitolo discorsivo sulla differenza fra multiculturalismo e intercultura riesce a produrre una proposta nuova, la scelta della transcultura, termine che individua un progetto creativo più che descrivere una situazione o un processo: «la poetica nuova del liberamente umano» che crea il nuovo mediante la cooperazione degli stranieri tra loro. «Come si fa? Come quando una donna o un uomo nel fare il salto triplo cerca di rifare il volo della farfalla». Dopo la guerra in Iraq, questa farfalla assomiglia sempre più all’allodola ottobrina di Cattafi.
[F.S.]
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