« indietro CARLOS NEJAR, A idade da Noite (poesia 1); A idade da Aurora (poesia 2), Fundação Biblioteca Nacional / Ateliê Editorial, Rio de Janeiro / São Paulo 2002, Volume 1, pp. 462. Volume 2, pp. 509, s.i.p.
Carlos Nejar (Porto Alegre, Rio Grande do Sul, 1939) riunisce in due volumi l’intera produzione poetica inaugurata nel 1960 con Sélesis, e caratterizzata dalla pubblicazione, regolare e costante durante quattro decenni, di testi poetici di eccezionale qualità, che hanno fatto di lui un poeta unanimamente considerato – dalla critica letteraria brasiliana, ma non solo – come una delle voci più importanti della poesia brasiliana posteriore alla generazione di Carlos Drummond de Andrade e João Cabral de Melo Neto. Anche la specialista italiana di letteratura brasiliana, Luciana Stegagno Picchio, ha segnalato il suo nome come quello di « un poeta di grande proiezione nazionale e internazionale, capace di costruire la poesia come si costruisce un edificio » (nel volume História da litereratura brasileira, pubblicato presso l’editore Nova Aguilar nel 1997). In effetti, il dettato poetico di Nejar evoca le ampie estensioni del Pampa del sud del paese, grazie ad un verso che spazia per le amplitudini della poesia epica, indicando al lettore il mistero di ciò che esiste, come un demiurgo che si nasconde dietro il proprio sguardo capace di catturare la genesi quotidiana : «bisogna decifrare / le cose che ti vivono // bisogna conoscere / l’infanzia dei gesti // bisogna abbandonarsi / all’arrivo della Notte // e l’uomo è triste Sélesis / e noi siamo gesti / dimenticati da Dio.//» (frammento tratto da Poema de Sélésis, 1960). D’altro canto, il verso di Carlos Nejar si immerge con cristallina autenticità nella tradizione lirica e, depurato da qualsiasi preziosismo, compone, poesia dopo poesia, anno dopo anno, il grande canto delle cose che esistono, visibili o invisibili, affidandosi con profonda fede all’antica capacità – tutt’ora moderna – della metafora di reinventare il mondo, per proporre una nuova lettura di ciò che, intuito durante «l’età della notte», diventerà segno, incisione rupestre, durante «l’età dell’aurora»:«Conoscerai la speranza, / posteriore alla morte di tutto» (frammento tratto da Canga, 1971) perché «siamo uomini / di un tempo curvato /sotto il peso del sole» (frammento tratto da O campeador e o vento, 1966). In questo senso, il poeta è colui che si presta unicamente a «scrivere il dolore / senza rimuovere il fuoco, / l’antica cenere», ossia, «scrivere / la ferocità delle cose» (frammento di A ferocidade das coisas, del 1980). Come possiamo notare, la poesia di Carlos Nejar mette in scena esplicitamente un profondo senso di fratellanza umana, fratellanza da intendersi meno nella sua accezione cristiana quanto piuttosto nella sua irrinunciabile apertura verso il cosmo, e caratterizzata dall’onnipresenza della natura, ora protettrice, ora minacciosa, come a volerci ricongiungere al valore di quanto esiste di sacro ed imprescindibile nella vita: « rimane la terra, passa l’aratro / e il lavoro è ciò che tramandiamo, / come nome, come eredità; / rimane la terra, la notte trascorre [...] Arriva il sole e scava la terra; / il seme è come una spada» (frammento tratto da O campeador e o vento). La poesia di Nejar ci presenta personaggi quotidiani, che fanno parte dell’immaginario popolare brasiliano, come il postino, il contadino, il mistico, il pittore, il poeta, il musicista, e compongono una specie di saga umana nella quale ad ognuno è riservato il proprio angolo di osservazione della realtà. Il poeta presta quello che ha di più caro, ossia il suo ascolto e la sua commozione, chiamata in causa molto spesso da un grido così doloroso e così meraviglioso quanto quello manifestato dai suoi personaggi. Ecco perché scaturisce dalla lettura di Nejar un messaggio di speranza, come a voler indicare una possibile redenzione umana attraverso la poesia che si fa presente nelle piccole cose, nei minimi riti quotidiani,come nell’inflessione della voce, nel gesto di seminare la terra, o nel pulirsi il viso con dell’acqua fresca. In questo senso, addentrarsi nello spazio poetico di Carlos Nejar è scoprire l’ordo amoris di un grande poeta, la sua visione del mondo ancorata in un sentimento di solidarietà che germoglia direttamente dalla terra brasiliana, come le pietre preziose che vi si trovano e resistono, nonostante anni e anni di spoliazioni. Pietre preziose come i sorrisi della gente, gli incendi degli alberi framboyans, l’incantesimo provocato dalle araucarie o l’eco del vento minuano a sferzare nei campi del Pampa. Come già ebbe modo di notare il critico tedesco Günter Lorenz durante gli anni ottanta, la poesia di Nejar contiene una forza «che rappresenta lo spirito brasiliano, la musicalità e profondità filosofica del Brasile», paragonando – a giusta ragione – il dettato poetico di Nejar con la stessa matrice culturale, continentale, tellurica di Guimarães Rosa del Grande Sertão: veredas, dove si delinea un Canto Generale alla maniera brasiliana con le specificità regionali della sua gente, ossia, passando dai filosofi del Sertão ai trovatori del Nord-Est fino ai gaúchos del sud del paese. Gente comune attraversa le strofe del poeta, ma per mezzo delle parole del poeta, questa stessa gente irradia una dimensione umana universale, trasformata in archetipi umani, come se si trattasse di uno o molti Don Quichotte contemporanei. Un Canto, quello creato dall’opera di Nejar, dove dannazione e redenzione si danno la mano per forgiare un inno alla vita, quasi fosse una sete insaziabile e profondamente umana. Carlos Nejar è membro dell’Accademia Brasiliana di Lettere, è traduttore dell’opera di Jorge Luís Borges e Pablo Neruda, ha fatto parte della giuria del premio Casa de las Américas (Cuba) e del premio Camões (Portogallo) ed ha all’attivo anche diversi titoli come romanziere. Attualmente vive a Guarapari, nella regione costiera che appartiene allo stato brasiliano dello Espírito Santo.
[Prisca Agustoni]
SALGADO MARANHÃO, Sol Sangüíneo, Rio de Janeiro, Imago Editora 2002, pp. 120, s.i.p.
Questo è il quinto libro del poeta e compositore José Salgado Santos, piú noto come Salgado Maranhão, nato nell’omonimo stato del Nord-est brasiliano nel 1953, trasferitosi a Rio de Janeiro nel 1973. La poesia di Salgado Maranhão, che presenta un linguaggio poetico maturo e in costante tensione tra lo slancio umano di ricerca del dialogo e la secchezza di un dettato poetico forgiato dalla lavora della terra e dall’addomesticamento della pietra («nascere è stato addomesticare / le pietre», p. 19), non può essere presentata come una rivelazione poetica nel panorama della letteratura brasiliana contemporanea, dato che l’autore è già stato premiato con riconoscimenti nazionali importanti, come il Premio Jabuti attribuito nel 1999 al suo libro Mural de Ventos, forse il premio più importante del Brasile. Tuttavia, l’opera di Salgado Maranhão rimane una pepita d’oro nascosta sotto la terra, in un paese dove la poesia ha trovato un suolo particolarmente fertile, ma dove molti poeti investono nel miracolo dell’eccessiva esposizone massmediatica per imporsi e costruirsi uno status letterario. In questo senso, Salgado Maranhão nuota controcorrente, rifacendosi ad un’autenticità poetica, un’esigenza espressiva che trascende la fretta di ciò che dev’essere consumato, ma scommette sulla pazienza di ciò che è cucinato a fuoco lento, che passa iniziamente dal vissuto e che richiede coraggio perché si affrontino le domande essenziali : «che mari mi addensano / al mio interno // io che mi costruisco / al margine // io che rinasco / dal limbo // al dolce furore /delle acque?» (p. 60). Questo libro rivela tutta l’originalità del suo stile, del suo percorso estetico e personale, che attinge dalla filosofia orientale l’armonia necessaria per conciliare la convivenza quotidiana della poesia con la vita dicotomizzante e lacerante del mondo occidentale. Per il poeta, la poesia è una pratica contemplativa, che richiede gratuità ed abbandono, affinché si possa percepire che «ciò che muove la leggenda / è il folgorare dell’incendio, / il raggio invincibile / fecondando la pietra» (p. 16). La poesia di Sol Sangüíneo è la forza sottile che dà vertigine allo schelettro delle parole, l’alchimia che rinvia alla condizione umana – mitica e concreta – delle peregrinazioni, della nostra «aratura dell’esilio» (p. 20). In effetti, l’esilio rappresenta una delle condizioni umane più dolorosamente visibili in questo terzo millennio reduce di conflitti etnici, religiosi ed economici, ma paradossalmente questa stessa condizione è sempre stata l’ossatura ontologica dell’umanità e dei poeti che, come Salgado Maranhão, si sono esiliati nella lingua senza perdere di vista la realtà umana e la sua cognizione del dolore, per compiere la lunga odissea esistenziale che scava nei meandri della coscienza, compiendo la circolarità che dal corpo conduce all’anima per infine ricongiungerla e riconciliarla con il corpo del mondo. Ecco perché l’autore si serve dei «rammendi del linguaggio / a svestire ciò che vestono » (p. 26), per scoprire che « la mia terra è il nome / dell’indomabile enigma, / la parola fisica incrostata /nella favola » (p. 27), e per convincersi, alla fine, del fatto che «la mia terra è la mia pelle » (p. 27), ossia, il senso che le cose assumono per noi è intrinsecamente legato al nostro corpo, al nostro essere uomo, donna, bianco o nero (come è il caso di Salgado Maranhão), del Sud o del Nord-est del Brasile, corpo, infine, con il quale dobbiamo rappacificarci, perché egli rappresenta la nostra condizione iniziale e finale d’esistenza. E il poeta ci ripete che «tutte le cose vengono gravide / di fuoco. Di un certo navigare / verso nessun molo» (p. 24), confermando la lacerante coscienza della precarietà umana, con la morte sempre all’orizzonte. Tuttavia, il poeta non si abbandona al nichilismo, al contrario, ci spiega che il fuoco è anche fonte di luce, è il sole sanguineo, ossia, la luce che emana dal corpo sopravissuto alla tentazione della rinuncia, il corpo armato di voce e soffio vitale, perché «quando c’è voce, / è la cicatrice che canta » (p. 34), dato che « per lo meno resta / il verso – arido / minerale che soffia / la sua luce obliqua» (p. 26).
[P.A.]
EBERTH ALVARENGA, Desafins, Belo Horizonte, Scriptum Livros 2002, pp. 64, s.i.p.
La lettura del libro d’esordio di Eberth Alvarenga, poeta nato a Belo Horizonte (stato del Minas Gerais) nel 1953, libro di una fattura grafica raffinata, ci pone di fronte ad una variata gamma di possibilità tematiche. Nel tentativo di esplicitarle, il poeta tratta alcuni temi in superficie, altri in profondità, com’è il caso della tensione tra un tempo ideale (desiderato) e un tempo reale, così come la delicata questione dell’individuo frammentato dalla nostra epoca ‘post-moderna’, e la proiezione di questo stesso individuo nelle cose, nel suo contesto concreto. Evidentemente, questi temi non esauriscono il contenuto del libro, al contrario, sono appena degli indicatori di ulteriori cammini che Eberth Alvarenga potrà eventualmente intraprendere per configurare il contorno della sua voce poetica. Già sin dall’inizio dell’opera, il tempo si presenta come l’asse centrale dell’esistenza umana, nonstante il fatto che la sua cattura – tante volte anelata – si sia rivelata impossibile. Il poeta ne è cosciente e, con un pizzico di nostalgia, contrappone questo tempo ideale (contenuto nella metafora di «un cielo posseduto») ad un tempo di scissione «che dona amori incerti / d’incanti» (Incerteza). Il poeta espande questa percezione per constatare quanto è difficile la ricerca «dei tempi / che non si agendano più / persi, senza ritorno orgoglioso al molo» (Diário). Ciò nonostante, Eberth Alvarenga non accetta passivamente la condizione di prigioniero di Cronos. All’interno di ciò che lo divora, il poeta crea la nomenclatura di un tempo differente, misurabile ed umano, grazie al quale riconosce – ora in un’ottica collettiva – le tensioni che noi stessi, esseri umani, provochiamo. Da un altro punto di vista, questa volta individuale, attraversato dalla coscienza del prezzo che si paga per l’esistenza, il poeta registra la concretezza del tempo che lascia segnali espliciti nel corpo : « Le rughe sono digitali del tempo. / Il tempo le ha digitate / senza fughe » (Rugas). Per quel che riguarda la lacerazione dell’individuo – l’« io scisso nel mezzo », come dichiara il poeta in Dial – è interessante considerarlo come un ritratto di un’altra forma di tensione, ossia quella di un individuo che si vuole plurale ma che, di fronte al fallimento di quest’impresa, deve poter affrontare il proprio sguardo senza servirsi del sotterfugio di maschere che lo proteggano. E, così come Álvaro de Campos – una delle voci poetiche più importanti create da Fernando Pessoa – (che, nell’ansia di « sentire tutto in tutte le maniere » scoprì che quest’impresa era impossibile e si trovò confrontato con se stesso, solo, seduto sull’orlo di una finestra), Eberth Alvarenga desidera poter essere « fratello di tutte le creature » (Anunciata), ma, una volta che il desiderio è reso impossibile, al poeta brasiliano rimane solamente la soluzione – già leopardiana – di accontentarsi della vita « fragile come un pistillo di fiore » (Anunciata). Tuttavia, Eberth Alvarenga non registra il dilaniamento dell’individuo guidato unicamente dal pessimismo, presente in passaggi come «consumata ruggine, / quello che siamo» e «miele putrefatto, / fetido orrore, / quello che siamo» (Loucura). L’ironia gli permette un avvicinamento inusitato a temi cruciali che riguardano la vita ed i relativi limiti imposti all’uomo dalla natura umana, senza che il dettato poetico s’inabissi in un nichilismo che uccide l’individuo e annulla qualsiasi tentativo di comunicazione. Questo rischio è preso in considerazione dall’autore, come possiamo osservare nei prossimi versi citati, ma sarà superato dalla relazione dell’essere umano con le cose, mostrando in questo modo un nuovo percorso esistenziale caratterizzato dalla preservazione del senso della vita : «Le bocche portano con sé / parole e lingue / incostanti, / spiriti sonori / di gole dominanti, / che s’incaricano / di vivere o morire, / in celtico, ebraico, / greco, latino e / in altre lingue / pietrificate / o non ancora nate». Per riassumere, possiamo dire che troviamo, in questo libro d’esordio, una grande ricchezza di provocazioni estetiche che ci stimolano ad interrogare la realtà e ciò che di questa realtà si proietta oltre i nostri limiti individuali e collettivi.
[P.A.]
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