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ALESSANDRO DI PRIMA, Atlante del padre, Bologna, Book Editore 2003, pp. 96, € 10,50.

 

Sembrano davvero tanti i padri di un testo dal non troppo celato manierismo poetico. Epigrafi e note marginali si spendono non poco, con scrupolo e puntiglio, a tentare di spiegare i perché e i per come di questa scrittura. L’effetto è che la troppo conclamata paternità putativa (Celan, Sereni, Sciascia, Heisenberg...) si tradisce per converso in una «inappartenenza ai luoghi» dove le coordinate tracciate assomigliano talvolta a tanti sfilacciati cordoni ombelicali non recisi. Potrebbe anche essere però che una citazione, ad esempio, di Zygmunt Bauman, da Catania, luogo (o forse non luogo caratterizzante) della geografia dispersa dell’età globale, stia non tanto a ricordare un aneddoto veneziano, compiaciuto e lusinghiero, ma voglia simboleggiare piuttosto, tramite l’incursione del sociologo, l’esperienza vissuta di un’autonomia comunicativa così perfetta, come potrebbe spiegare l’acume ermeneutico dello stesso Bauman, da escludere la possibilità di un dialogo al di fuori di sé. In mezzo a tutto questo referente poetico succedono cose, si snodano storie come quella probabilmente del padre vero e della sua via crucis fra esami clinici, soste in ospedali, ricoveri, malattie, speranze, sconforti, prese d’atto, incomunicabilità quotidiane. Procedendo nella lettura delle tre ripartizioni del libro («Leibeslicht», «via dell’acqua», «nell’ora dell’addio») si viene delineando una mappa, un atlante appunto, di luoghi e spazi percorsi, talvolta toponimi chiamati per nome, dal cui intreccio risulta tracciato un itinerario, un’ipotesi di tragitto casuale come l’esistenza e provvisorio come il pensiero. Presenza ricorrente e fissa all’interno dei versi, non ha pieghe la luce, né fasci né sfumature, viene nominata come un tutto compatto, è solo «luce» o «la luce» e anche quando «residua » non è mai un po’ di luce. Come fosse un solido, visibile e tangibile («luce pietra che si sfalda e trema») è «luce reliquia », icona dell’abbaglio, «luce che inonda e che acceca» come neve riflessa dal sole. Ma è anche «Leibeslicht»,‘luce del corpo’ e dunque sua parte sostanziale, sua componente fisiologica (il tedesco Leib significa corpo, ma anche ventre), antitesi dell’anima, luce che corre di pari passo col pensiero a cui procura amnesie («quest’amnesia di luce in luce che scarnifica ») così come accecamento agli occhi. Pure il pensiero ha una sua consistenza, una sua plasticità («progetta una linea / un luogo per dove») riprodotta nelle «orme», nei calchi-contenitori degli oggetti delle parole «in forma d’acqua che riposa», sebbene «è la lingua comune, la prima stilla / di cecità assoluta».

 

Giuseppe Bertoni

 

ANDREA PONSO, La casa, Brunello (VA), Stampa 2003, pp. 70, € 8,00.

 

«La gabbia degli apici dove / a parlare sbiadisce l’estrema parola...» sono le virgolette entro cui vengono contenuti quasi tutti i testi del libro, in modo tale (nota nella prefazione Maurizio Cucchi), che ne risulta un effetto di testimonianza, per bocca di una voce fuoricampo senza identità che prende la parola in ogni componimento. Potrebbe essere uno stratagemma per alludere a una scrittura già scritta, una scrittura in un certo senso postuma. Sono quattro le sezioni dell’opera («La casa di basilico e frasche, la pesca»; «Chiuse»; «Dorata aria di vita»; «Carestia serale»), vi scorrono componimenti brevi, spesso con assonanze consonanze allitterazioni a creare rime frequenti, dove i versi descrivono spazi minimi, luoghi intricati nel verde, nascondigli intorno alla casa, nel silenzio totale però di qualsiasi presenza umana, per ascoltare i tranelli perfino dei più piccoli deliri quotidiani e comuni. E dunque quella voce che prende la parola è forse l’io staccato da se stesso, uditore e narratore al contempo, ma l’uno indipendente dall’altro. Quando proprio diviene inevitabile il confronto con qualcuno, ecco allora che «tanto vale / [...] competere / con la tempesta – ma da un punto nascosto, per chi non / può sfilare il suo senso con l’ago del vuoto ciarlare », anche se poi «parlare davvero, / diceva, è come addomesticare farfalle...». I muri scrostati, crepati d’intonaco, ricordano quelli senesi, silenziosi e disabitati, del Tozzi di Tre croci. Ma mentre da quelle crepe scappava fuori il mondo, un paesaggio prorompente e vitale, «risalendo oltre queste trafitture» sembra viceversa sparire «intero l’ultimo nodo del guardare ». «Sassi, massi, pietre. Un delirio, un intrico di piante»: una dimensione esistenziale statica, dove solo i rovi, gli arbusti, le siepi si muovono («sale come un’edera il muro»), crescono, formano intrichi «inestricabili» come sintassi. «‘Nel folto di qualche giardino coperto di cardi / [...] chi si nasconde è un grigio conoscitore di faglie / e strapiombi e la lingua che non parla è erba o / sterpaglia incendiata di altri luoghi o stagioni / che lascia da fossi e crepacci bagliori: / minute avvisaglie di vita’». L’anguilla montaliana è ancora lì che tenta di sopravvivere negli stessi botri e forre di un tempo, dopo avere trovato dimora una volta per tutte?

 

Giuseppe Bertoni

 

 

 


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