« indietro MARIANGELA GUALTIERI, Fuoco centrale, Torino, Einaudi 2003, pp. 138, € 13,50.
È un libro tutto spaccato sulla dicotomia – non ricomposta, non mai ricomponibile – fra terra e cielo, l’autoantologia Fuoco centrale di Mariangela Gualtieri. La separazione è netta, percepita con dolore, non spiegata perché non comprensibile e come tale rinfacciata a un dio che non parla lingua umana ed è distante dalle sofferenze della carne e del pensiero, un dio che non ha sostanza, si direbbe, perché non se ne conosce nome. Così recita, nella sua versione italiana, il Coro delle bestemmiatrici, lamento alto, tirato sull’acuto a partire dalla bassezza terragna e dalla concretezza della sua originaria stesura dialettale: «Signore del cielo e della terra, tu hai molti / nomi e noi neppure uno ne sappiamo. / Signore potentissimo e strano, / noi non capiamo: tu fai le creature e / poi le pianti in asso, te le butti dietro la schiena, / le scarti come bucce nel piatto». L’esito, tuttavia, non è materialista, né leopardiano; sul livello filosofico è privilegiato quello emotivo. Nei versi della Gualtieri c’è infelicità, ma anche aspirazione ad una beatitudine. Terrena, magari, e risolta in una contemplazione della natura e in un desiderio d’amore ampio, raggiante in direzioni plurime e intercreaturale, ma pur sempre beatitudine: «Strambo d’un Signore, / ma che sei buono si vede da quelle bellezze / si vede, tutte quelle cose che hai fatto bene bene, / che poi sarebbero il cielo di notte e di giorno, o l’acqua con la sete, o la casa col giardino e un filo di fumo / che esce dal camino». Ad un tendenziale francescanesimo che al grato stupore per il bello unisce lo sgomento per il dolore, e che, facendosi problematico, deborda in nodi esistenziali, sono congiunti una cosciente mmissione (remissione) d’umiltà – «È poco il poco che so e di questo poco io chiedo perdono. Io chiedo perdono per quello che so» (Monologo del Non so) – ed una ricerca elementare della parola. Parola in quanto nome, identificativo di una carne e di una vita incipienti, «Una volta ero piccola, ero senza parole. Ero piccola e senza parole. Una volta ero molto leggera, pesavo pochi chili. Una volta c’erano solo tre o quattro chili di me, solo pochi chili di me, solo pochi chili avevano il mio nome» (da Ossicine). E parola in quanto elemento, in quanto articolazione elementare, semplificata tanto da essere immediata e infantile, paga di sé e della propria articolazione, della pronuncia dei suoi elementi costitutivi. Sillabe scandite dalla recitazione – Mariangela Gualtieri, drammaturga, ha fondato con Cesare Ronconi il Teatro Valdoca nel 1983 e Fuoco centrale raccoglie poesie scritte per il teatro – e sillabe che declinano una poesia in cui cosa mortale e angelica forma autenticamente si dolgono di non essere conciliabili: «Anche qui c’è un angelo che vuole sorridere per questo mio fare il poeta ma anzi le sillabe io le sento scoccare ballare rider piagnucolar ma sempre in grande bellezza di tutte le bellezze sonore» (Equestre). Alla pronuncia è connesso, intrinseco l’enigma del senso e l’inchiesta – di moralità antica e di fiabesca eco – sul significato primo, sulla scaturigine. Strumento squisito è la percezione autopervasiva – «Io sento il piangere delle cose. / Sento il piangere delle tutte cose» (Lamento di re Anfortas) –; ed è la capacità, anche, intrisa di pietas, di ascoltare fino l’immedesimazione – «Sento tutto nel burrone del senso / sento che tutto mi si nasconde / nel suo spaccato più vero» (Solenne) –, sia pure, essa immedesimazione, votata allo scacco. Gli strumenti della retorica procedono verso il basso: iterazioni, accumuli, volute involuzioni, vocativi ricorrenti, imperativi sospesi tra il fàtico e l’esortativo. Sono ‘gesti’ della retorica, sono teatralizzazione di una parola poetica che per la Gualtieri significa «devozione» e «passione», e che risponde ad un «destino» (cfr. le Note a Parsifal), fuori da ogni freddezza progettuale, tutta calata nella fornace del pathos. Per questo io poetico continuamente chiamantesi al gioco, ‘parlare’ è transitivo, è sempre un ‘parlare qualcosa’. Parlare il testo, il proprio corpo, la voce del proprio sé nel mondo, insieme a tutte le «facce indolorate», segnate da «grave malattia terrestre». E pagando (con) la compromissione piena del proprio io: «Meglio la ferita, te lo dico ora, meglio la ferita che questo vuoto. [...] Che davvero mi indolora stare lontano da la piena sillabazione, che se mi togli le parole credo che poco dopo sono morta».
Cecilia Bello Minciacchi
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