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HELENO DE OLIVEIRA. Se fosse vera la notte, Roma, Zone Editrice 2003, pp. 136, 10,00.

 

La collana ‘Cittadini della poesia’, diretta da Mia Lecomte, si propone di divulgare «quei poeti migranti per cui la letteratura diventa l’unica patria possibile », e più in particolare, i poeti che vivono in Italia e che assumono come seconda lingua di creazione letteraria l’italiano. In tal senso, questi autori contribuiscono indubbiamente alla messa in discussione, vitale e salutare, delle cristallizzazioni e delle nuove potenzialità che la lingua italiana produce ed è capace di contenere, forzando i limiti del concetto di ‘canone’ linguistico e letterario, un’idealizzazione da sempre frantumata dalla presenza del registro dialettale. Ecco perché l’antologia del poeta brasiliano Heleno Oliveira costituisce uno splendido esempio di come la letteratura gode del privilegio di conferire cittadinanza poetica a coloro che hanno attraversato mari e monti alla ricerca di se stessi e di una notte – anche una sola – ma che fosse vera. Se la condizione del migrante – come fu il caso di Heleno de Oliveira, nato nel 1944 a Santa Clara, in Brasile e morto nel 1995 a Lisbona – implica, il più delle volte, uno sradicamento rispetto alle proprie origini, allo stesso tempo l’assunzione della ‘nuova lingua’ permette un’apertura, uno sdoppiamento che si trasforma, per molti, in una nuova patria linguistica, poetica, esistenziale, come rivelano questi versi di una poesia  dedicata a Firenze, città in cui de Oliveira visse per dodici anni: «Firenze è un mattino di dicembre / dove arrivai urlando dal mio Ade [...] Nessuno attorno a me e io cercavo / tra i palazzi della via vuota / qualche certezza e anche il nome mio / che non avevo e non sapevo più. [...] Mentre la vedo mi muore il lamento / perché mi trovo uno e molteplice / nel suo canto». L’idea della molteplicità – che nella poesia citata è motivo di riscatto e di ‘rasserenazione’ – è infatti una delle torri portanti dell’opera di de Oliveira, in ragione della sua plurale origine culturale e etnica, come plurale ed eterogenea è la cultura della popolazione brasiliana. Figlio mulatto di madre nera e di padre bianco, Heleno lavorò costantemente – nei testi così come nella sua ricerca spirituale, che lo portò ad aderire al movimento dei Focolari – alla ricerca di una conciliazione tra questi poli in tensione, tra serenità e inquietudine, tra incomprensione e pienezza dello spirito e della ragione. I versi scritti da Heleno a partire dal suo arrivo in Italia (nel 1983) sono prova di questa titubanza iniziale, di questa ricerca (riflessiva, spirituale) di una sponda alla quale afferrarsi per non perdersi. E fu l’esperienza italiana a conferirgli quello sguardo di totalità e di respiro umano che cogliamo nella raccolta, principalmente in Galabya, nella quale l’autore, percorrendo l’Egitto, percorre le radici dell’umanità. Qui più che sradicamento, percepiamo la voce di un individuo che è uno con il mondo, che è ‘cittadino del mondo’, perchè riesce a riconoscere, negli altri la propria condizione: «Questo popolo vive nel mio sangue / abita i fiumi dell’anima. // [...] Proprio come la patria / [...] Fondale / scenario su cui vedere». E così come la visione dell’Egitto e della sua civiltà gli permette di ricongiungersi alla sua radice brasiliana («Deserto e Nilo. / Accampamento di kouros e koré. // Mietono come se giocassero / al vento che muore. // Luce insolita / fin sulle strade del Sertão / lunghe dritte piene di morte...»), allo stesso modo le immagini rincorse nel linguaggio poetico, attraverso metafore e ellissi, attraverso rinvii sonori intercalati da pause meditative, gli permettono di ricordarci – come scrive Czeslaw Milosz, citato da Mia Lecomte nella postfazione al libro – che siamo esseri umani, e ce lo ricorda nella nostra lingua, come a volerci dire che è possibile accogliere in noi non solamente il destino della lingua madre, ma anche lo sforzo, il rischio e la vertigine di una lingua ‘madrastra’ che possa fare di noi, esseri umani, «ballerini del caos».

 

Prisca Agustoni


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