« indietro L’EMULAZIONE COME MODELLO. A PROPOSITO DI OVIDIO
di Gioachino Chiarini
La mia prima esperienza di traduttore risale all’Orosio della Lorenzo Valla uscito nel 1976. Fui incaricato da Citati di tradurre, oltre al commento tedesco di Lippold, la seconda parte delle Storie contro i Pagani (libri V-VII). Ricordo quest’esperienza perché fu di fatto decisiva. Orosio è un autore difficile, ridondante di retorica votata ad maiorem Dei gloriam, fitto di ogni sorta di figure di pensiero e di suono, vero campionario di rotondità oratorie. Basterebbe l’abilità con cui maneggia – e lo fa di frequente – l’antitesi e soprattutto il poliptoto (una variante complessa del parallelismo), a definirne questa sua sorta tutta devota di complessità formale e sostanziale. La prova, per me alquanto severa, ebbe esito soddisfacente, credo, grazie a mio padre Eugenio. Avendo dedicato tutta la vita a Dante, al suo stile mirabilmente essenziale, aveva maturato lui stesso una scrittura asciutta, concisa, di massima ‘economia’; quando gli passavo i miei tentativi orosiani per sentire che effetto gli facevano, me li restituiva (con mio iniziale sconcerto) poco meno che dimezzati, ridotti all’osso: capii che il mio tradurre era zeppo di perifrasi e di parafrasi, dunque pessimo, privo di ritmo, corretto nella sostanza del pensiero, lontanissimo dalla pia enfasi del testo latino. Dietro questo stimolo, lavorai per giorni dietro i primi cinque paragrafi del I capitolo del libro V, vale a dire dietro all’esordio della parte delle Storie a me assegnata. Questo fu poi il risultato:
So che non pochi resteranno colpiti, d’ora in avanti, dall’infittirsi delle vittorie di Roma fra tanta strage di popoli e città. Anche se, a un attento bilancio, troverebbero che le perdite sono state superiori ai guadagni. Non sono, infatti, di poco peso tante guerre servili, sociali, civili, di schiavi fuggiaschi [fugitivorum: qui la perifrasi è d’obbligo], che suscitarono grandi sventure senza apportare alcun giovamento. Ma voglio ammettere che le cose siano andate realmente come costoro pretendono: «Vi fu mai un’epoca», essi diranno, «più felice di questa, che vide sfilare continui trionfi, memorabili vittorie, ricche prede, processioni solenni, grandi re davanti al carro del vincitore e popoli vinti in lunga schiera?». Risponderemo loro brevemente che, mentr’essi del passato non sanno che parlare a vuoto, noi, su questo stesso passato, abbiamo intrapreso una ricerca obiettiva, tenendo conto del fatto che la storia non è patrimonio esclusivo di una sola città, ma appartiene a tutto il genere umano. Ecco dunque che se Roma vince felicemente, infelicemente è vinto tutto ciò che è al di fuori di Roma. Ma, se è così, qual peso dovremo attribuire a questa goccia di travagliata felicità, cui è legata la fortuna di una città sola, sullo sfondo immane di un’infelicità che accompagna l’annientamento dell’intero universo? Oppure, se si vuole comunque considerarli eventi felici in quanto favorirono l’ascesa di un’unica potenza, perché non giudicarli piuttosto infelicissimi, dal momento che per essi caddero con miserevole strazio regni potentissimi di nazioni grandi e civili? O non parvero forse tali a Cartagine quando, dopo centoventi anni trascorsi nell’orrore ora degli eccidi della guerra ora delle condizioni di pace, e nei quali, ora ribelle ora supplice, passava continuamente dalla pace alla guerra e dalla guerra alla pace, alla fine, mentre i miseri cittadini in preda all’ultima disperazione si gettavano confusamente tra le fiamme, la città fu un unico grande rogo? Cartagine che, ancor oggi, ridotta in poca terra e spoglia delle mura, sconta la sua parte di dolore al racconto di quello che fu (VII 1, 1-5).
La fatica per arrivare ad un risultato decente fu dovuta anche all’adesione immediata, da parte mia, ad un principio ispiratore fondamentale, come ancor oggi credo, dell’atto del tradurre: il principio dell’emulazione. Non può esservi buona traduzione se si aggirano i problemi imposti dal testo anziché affrontarli e, nei limiti del possibile, risolverli. Il rispetto abbastanza fedele di tale principio mi valse poi l’opportunità di tradurre, sempre per la Lorenzo Valla, le Confessioni di Agostino (Milano, 5 voll., 1992-1997). Orosio aveva preso il pensiero dalla Città di Dio, l’empito retorico dalle Confessioni, ma queste ultime, come ben si sa, vanno oltre la retorica. Il flusso liberatorio e intimamente ‘biblico’ di parole, pensieri, sentimenti ora scorre sotto controllo, ora accelera, incalza, straborda e dilaga, mutando via via direzione e struttura sintattica, ritrovando poi a fatica, ma senza che ciò costituisca il minimo problema per l’autore, un punto fermo: la confessione, la testimonianza, il dialogo in forma monologica con Dio per Agostino è fatto di questo, è questo. E, di fronte a questo, la pratica più diffusa tra i traduttori delle Confessioni è quella che rallenta questo flusso, spezzandolo in tratti più brevi, facendo punto e ripartendo ogni volta che la virata rischierebbe di uscire di controllo. La mia traduzione delle Confessioni mira invece tutta alla ‘sovrapposizione’, e di regola non chiude se non dove chiude l’autore. Fornire esempi di ciò sarebbe troppo lungo e mi porterebbe fuori tema. Mi limiterò a questa breve citazione:
Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco, tu eri dentro e io fuori, e lì ti cercavo e, brutto com’ero, mi gettavo sulle bellezze da te create. Eri con me, ma io non ero con te. Da te mi tenevano lontano cose che, se non fossero in te, non sarebbero. Gridasti e chiamasti e spezzasti la mia sordità, balenasti, splendesti e scacciasti la mia cecità, schiudesti il tuo profumo, ne respirai e a te anelo, ne gustai e di te ho fame e sete, mi toccasti, e m’infiammai della tua pace (Conf., X, XXVII 38).
Questa fedeltà anche ‘spaziale’ alle dimensioni e alle scansioni e suddivisioni dell’originale era destinata a misurarsi con qualcosa di assai diverso ma di non meno complicato – anche a dispetto, o forse proprio a causa, della sua inarrivabile fluidità e concisa efficacia: il testo esametrico delle Metamorfosi di Ovidio. Anche questa volta il committente è Citati per la Lorenzo Valla, che mi chiede la versione dei libri dal V al XV. La compianta Ludovica Koch, cui all’inizio era stata affidata l’intera traduzione, aveva fatto in tempo a portare a termine compiutamente il lavoro per i primi quattro libri. Io accettai la difficile successione, ma per entrare meglio dentro il testo mi imposi di tradurre per me anche i libri che non erano toccati a me e che non sarebbero stati accompagnati dalla mia traduzione nella prestigiosa collana. Per mia fortuna, non disponevo della versione della Koch: efficace e riuscita com’è, adesso che ho potuto prenderne visione grazie ad Alessandro Barchiesi, mi accorgo che mi avrebbe condizionato, frenato, costretto a sotterfugi poco genuini per differenziarmi. Invece così, ignorandola, ho potuto costruire la mia traduzione per conto mio. Che comunque ha in comune con quella della Koch la fedeltà al principio della ‘sovrapposizione’: entrambe non hanno preso nemmeno per un attimo in considerazione la possibilità di una soluzione in prosa, entrambe cercano di restare entro i confini del periodo, tendenzialmente, appunto, del verso – un impegno reso gravoso dalla maggiore prolissità intrinseca della lingua italiana rispetto alla brevitas latina. Per reggere il ritmo, che in Ovidio è generalmente accelerato, a dispetto dei molti giochi retorici di cui il suo narrare si compiace, è necessario emulare l’originale. E ciò vale anche quando, ad esempio nel movimento proemiale del poema (con l’invocazione agli dèi), la solennità della circostanza, la lentezza dell’uscita dal silenzio indistinto che precede impongono una maggiore compostezza. Sembra un paradosso, ma Ovidio è veloce anche quando sta fermo.
In nova fert animus mutatas dicere formas corpora. Di, coeptis, nam vos mutastis et illas, aspirate meis primaque ab origine mundi ad mea perpetuum deducite tempora carmen. (I 1-4)
Questa è la ‘lettura’ di Mario Ramous(1):
A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi spinge l’estro. O dei, se vostre sono queste metamorfosi, ispirate il mio disegno, così che il canto dalle origini del mondo si snodi ininterrotto sino ai miei giorni.
La connessione tra argomento e titolo generale del poema è esplicitata («metamorfosi»).
Questa invece la ‘lettura’ della Koch:
A narrare di forme cambiate in corpi stranieri mi spinge l’ingegno: al disegno, dèi, date respiro (siete voi che le avete cambiate) e guidate i miei versi a discendere dal primo principio del mondo di seguito fino ai miei giorni.
Più forte, leggermente meno fedele al testo (in nova corpora > «in corpi stranieri»), ma più ariosa (anche in senso letterale: «al disegno... date respiro», veramente azzeccato) come esige un movimento iniziale, e molto ovidiana nell’accelerazione finale: «a discendere / dal primo principio del mondo di seguito fino ai miei giorni». Io, a mia volta, ho cercato di tenere un tono medio più vicino al testo (e, quanto al contenuto, più vicino al senso del testo):
A dire di forme mutate in corpi diversi l’animo preme. Gonfiate, o dèi, le vele all’impresa e guidate il mio canto dalla nascita prima del mondo – anche questa fu opera vostra – fino ai tempi di oggi.
Dopo questo breve proemio, si passa subito alla nascita del mondo e si respira per un po’ un clima da filosofia naturale che fa pensare a Lucrezio, non molto distante da quello che ritroveremo alla fine del poema nella lezione di Pitagora a Re Numa sulla natura delle cose, la mutazione continua, la metempsicosi (XV 75-478):
Ante mare et terra et, quod tegit omnia, caelum, unus erat toto naturae vultus in orbe, quem dixere Chaos [...]. (I 5-8)
La Koch interpreta (I 5-31):
Prima del mare, dei campi, del cielo a coprire ogni cosa, per l’universo mostrava la natura un’identica faccia, il caos, come l’hanno chiamata: una massa informe e confusa, nient’altro che un torpido peso e dentro, ammucchiati e discordi, i germi di cose sconnesse. Non c’era il Titano a elargire al mondo la luce, né Febe rinnovava la falce crescente; non stava sospesa, la terra, con l’atmosfera a recingerla, per proprio equilibrio, e Anfitrite non aveva disteso le braccia lungo le sponde. C’erano il mare, l’aria e la terra, la terra era instabile, l’onda innavigabile, l’aria senza luce: niente riusciva a serbare la stessa figura e ogni cosa cozzava con l’altra: in un unico corpo combattevano il gelo col caldo, il bagnato con l’arido, il morbido insieme col duro, il greve con l’imponderabile. Questo conflitto appianarono un dio e una natura migliore; prese a staccare le terre dal cielo, e dal mare le terre, divise il limpido cielo dall’atmosfera più fitta. Sbrogliate le cose e strappatele al fosco groviglio, assegnava un posto a ciascuna, stringendole in lacci concordi di pace. Nel cavo del cielo s’accese, senza peso, l’essenza di fuoco facendosi largo nei vertici supremi. A lei subito sotto per leggerezza e per sede sta l’aria; più densa di loro attrasse la terra, schiacciandoli sotto il suo peso, i materiali massicci; l’acqua, versandosi in giro, invase gli estremi confini e chiuse il mondo dei solidi.
Anche qui, la personalità della traduttrice è esaltata dalla secchezza e da una terminologia appena forzata, ma assai poetica anche in questo contesto ‘scientifico’ («Nel cavo del cielo s’accese, senza peso, l’essenza del fuoco»). Ed ecco la mia versione, sempre un po’ meno accesa, più narrata, più anche aderente al modello (I 5-31):
Prima del mare, delle terre e del cielo che tutto ricopre, un unico volto aveva Natura nell’intero universo: lo dissero Caos, massa grezza e indistinta, nient’altro che peso inerte, ammasso confuso di semi discordi di cose male assortite. Nessun Titano ancora donava al mondo la luce, né nuove corna approntava Febe crescendo, né sospesa nell’aria d’intorno stava la terra in perfetto equilibrio, né le braccia Anfitrite aveva proteso ad orlare le lunghe terre emergenti. C’era sì la terra, e il mare, e l’aria, ma instabile era la terra, non navigabile l’onda, priva l’aria di luce: nulla conservava la forma, ogni cosa contrastava le altre, nel medesimo corpo il freddo lottava col caldo, l’umido col secco, il molle col duro, il peso con l’assenza di peso. Un dio, o più benigna natura, sanò i contrasti: separò dal cielo la terra, dalla terra le onde e dall’aria spessa distinse il limpido cielo. E dopo che tali cose ebbe sciolto dalla massa indistinta, assegnò a ciascuna il suo posto legandole in pace concorde. La forza ignea del cielo convesso scaturì e, priva di peso, fissò la sua sede negli spazi più alti: subito sotto si pose, per ordine e peso, l’aria. Di entrambi più densa, la terra attirò gli elementi più grevi e rimase premuta dalla sua stessa mole; l’agile acqua occupò il posto estremo e avvolse il solido mondo.
Nelle Metamorfosi, com’è noto, il cielo ha una sua parte importante, soggetto com’è a continui via vai di personaggi, a volte autorizzati, a volte no. Ai primi appartengono gli dèi, com’è ovvio. E gli dèi sembrano avere un certo senso di responsabilità nei loro spostamenti, specialmente quando si tratta di usare la strada più larga, più importante, più battuta, alla quale si affacciano le ville più o meno lussuose di quelli tra loro che sono più in vista: la Via Lattea. Inorridito dal mostruoso banchetto di Licaone, Giove convoca un concilio nella sua regale dimora: urgono drastici provvedimenti contro la razza umana. Gli dèi maggiori si avviano e si riuniscono. Ma l’episodio necessita di una determinazione spaziale, alla quale il poeta si accinge con un movimento modellato sul ben noto Locus est (caro poi anche a Dante: «Luogo è in Inferno, detto Malebolge»):
Est via sublimis caelo manifesta sereno: Lactea nomen habet, candore notabilis ipso... (I 168 sg.)
La Koch (I 168-180):
Esiste una via nell’empireo, visibile a cielo sereno: si chiama Via Lattea e s’impone per bianco fulgore. È il cammino che fanno gli dèi per recarsi alla regia dimora, alla casa del grande Tonante. A destra e a sinistra, ospitali, spalancano le porte i palazzi dei nobili dèi. Altrove, disperse, le case del popolo; ma i loro penati li hanno messi, i Celesti potenti, sul davanti e nel giro dei lati. Se la battuta non fosse temeraria, non esiterei a definire il quartiere il Palatino del cielo supremo. E dunque, una volta sedutisi gli dèi nel santuario di marmo, e lui sistemato più in alto, appoggiato allo scettro d’avorio, squassò con la testa tre e quattro volte i tremendi capelli facendone sobbalzare la terra, l’oceano, le stelle.
Non mi è del tutto chiara la ragione di questo «sul davanti e nel giro dei lati»: «nel giro dei lati» non è brutto (un tocco descrittivo efficace), ma in Ovidio non c’è. Mario Ramous è più fedele («sul davanti»), pur spiegando cosa significa «suous postere Penates»: «Quelli più illustri/ e potenti hanno invece qui, sul davanti, dimora». Questa la mia versione (I 168-180):
C’è lassù una via che si vede a cielo sereno: Lattea si chiama, dichiarata dal suo stesso candore. Di lì vanno i celesti alla casa del grande Tonante, alla reggia. A destra e a sinistra stanno gli atrii dei nobili dèi, con le porte aperte, sempre affollati; la plebe, sparsa, abita altrove: sul davanti i potenti e famosi inquilini del cielo han posto i loro penati. È questo un luogo che, se le parole non suonassero ardite, oserei definire il Palatino del cielo. Quando i celesti furono assisi nella sala di marmo, lui, Giove, più in alto e appoggiato allo scettro d’avorio, tre quattro volte squassò la terrifica chioma, con cui fa tremare la terra, il mare, le stelle.
Dunque il concilio può avere luogo, nessun incidente stradale funesta la convocazione. Ma non tutti i viandanti del cielo sono così pacificamente rispettosi delle norme stradali. Quel pazzo di Fetonte si lancia senza patente sul cocchio del Sole, e succede un mezzo finimondo (in senso letterale). Della prolungata catastrofe mi limiterò a discutere un segmento. Il carro del Sole, privo di controllo, precipita a sfiorare la terra e il mare: l’acqua riarsa si ritira nel ventre della terra, la superficie del mare si abbassa, i pesci cercano il fondo, i delfini non osano procedere a balzi, le divinità marine si acquattano nelle grotte. L’ultima a rischiare di soffocare è la Terra stessa (leggo direttamente la mia traduzione, II 272-300):
Alfine la Terra nutrice, che prima era avvolta dall’acqua, con le onde del mare e le fonti da ogni parte contratte che s’eran nascoste nelle viscere oscure materne, tutta riarsa levò il volto a fatica, fino al collo, portò una mano alla fronte e, con grande sussulto ogni cosa squassando, si assestò un poco più in basso di quanto soleva e con voce arrochita parlò: «Se così è deciso ed è giusto che sia, perché tardano i fulmini tuoi, o dio sommo? Se di fuoco devo morire, del tuo fuoco io muoia: allevia in tal modo la fine! Posso appena aprire la bocca per dir questo poco» (una vampa la soffocava). «Ecco, guarda i capelli bruciati, e quanta cenere negli occhi, quanta su tutto il viso! Questo è il premio, così ricompensi il mio grembo fecondo, i miei servigi, io che m’affatico e per tutto l’anno patisco ferite dal rastrello, dal vomere adunco, io che procuro le fronde alle bestie, messi e dolci alimenti al genere umano, a voi persino l’incenso? E ammesso ch’io meriti il castigo, che colpa hanno le acque? tuo fratello, che colpa? Perché il mare, che ha in sorte, si abbassa e più e più dal cielo si scosta? E se non ti tocca il mio di destino, né di tuo fratello, abbi almeno pietà del cielo che è tuo! Guardati intorno: i poli fumano entrambi. Se il fuoco li intacca, la vostra reggia crolla! Atlante stesso fatica e con le spalle a stento sorregge l’asse infuocato. Se il mare, se la terra perisce, se la reggia del cielo, si ritorna al caos primordiale. Salvalo dalle fiamme, quel poco ancora che resta, pensa al destino del mondo!»
Ma il ‘pezzo forte’ delle Metamorfosi, in cui pure è descritto il descrivibile e l’indescrivibile, è, appunto, la descrizione delle metamorfosi. E il traduttore è chiamato a risostenere ogni volta la prova. Particolarmente attraente si fa il cimento nei casi in cui, come nell’episodio di Apollo e Dafne, la metamorfosi è preceduta da una fuga e da un inseguimento: la fuga è della ninfa, i virtuosismi metamorfici sono preceduti da una straordinaria prova di leggerezza narrativa. Utilizzo direttamente la mia versione (I 490-567):
Febo è innamorato, ha visto Dafne e vuol farla sua, e quel che vuole spera, ma la speranza lo inganna. Come, colte le spighe, bruciano leste le stoppie, o come s’incendian le siepi se un passante accosta troppo una torcia o la scorda al fare del giorno, così il dio prende fuoco, così nel petto tutto divampa, e spera, e alimenta uno sterile amore. Contempla i capelli che selvaggi le coprono il collo e pensa: ‘Perché non pettinarli?’; vede gli occhi che sfavillano simili a stelle, la boccuccia vede, e mai d’ammirare si sazia; loda le dita, le mani, le braccia, e le spalle nude in gran parte: quel ch’è nascosto, lo immagina ancora migliore. Lei fugge più leggera d’un soffio e non si ferma al richiamo: ‘Ninfa, ti prego, figlia di Peneo, rimani! Non ho cattive intenzioni, rimani! Così dal lupo fugge l’agnella, dal leone la cerva, dall’aquila la colomba con ala atterrita, dal nemico ciascuna: ma io per amore t’inseguo! Me infelice! Ho paura che tu cada distesa e i rovi lascino il segno su quegli arti perfetti e per mia causa tu soffra! Ti affretti per luoghi selvaggi: corri più piano, ti prego, rallenta la fuga! T’inseguirò a mia volta più piano. Ma tu chiediti almeno a chi piaci. Non sono un montanaro, non sono un pastore, né un rozzo custode di mandrie di pecore o buoi. Non sai, sfrontata, non sai da chi fuggi: è solo per questo che fuggi. Io sono il signore di Delfi, di Claro, di Tenedo, di Patara regale: Giove è mio padre. Grazie a me si sa ciò che fu, ciò che è e ciò che sarà; grazie a me il canto s’accorda alla cetra. La mia freccia non sbaglia, ma ancor meno sbaglia la freccia che mi ha colto nel mezzo del cuore indifeso. La medicina è mia invenzione, dovunque nel mondo ho fama di guaritore, il potere delle erbe è tutto in mia mano: ma, ahimè, non c’è erba che guarisca l’amore, la scienza che giova a tutti al suo signore non giova!’ Voleva dire di più, ma la figlia di Peneo fuggendo con piede impaurito, lo lasciò col discorso incompiuto. E sempre bella appariva: i venti le spogliavano il corpo, i soffi leggeri le andavano incontro gonfiando le vesti, un refolo lieve le spingeva indietro i capelli, la fuga la faceva più bella. Ma il giovane dio più oltre non soffre di perdersi in vane lusinghe e, come amore lo sprona, la incalza seguendone l’orme d’appresso. Come quando un cane di Gallia scorge una lepre in aperto campo e l’uno brama correndo la preda, l’altra la vita: lui l’incalza via via più dappresso e già crede d’averla, e col muso proteso la stringe; lei non sa se è già presa, e si salva dai morsi vibrati sfuggendo al muso che quasi la sfiora: così dio e fanciulla, lui più svelto per brama, lei per paura. Ma chi insegue, soccorso dalle ali d’amore, è più svelto, non molla, già è sopra a chi fugge, ansimando le bagna i capelli scomposti sul collo. Lei, perdute le forze, sbiancò, vinta da fuga inesausta, e rivolta alle acque del fiume Peneo «Aiutami, padre!» disse, «Se i fiumi han qualche potere, questa forma, che troppo è piaciuta, muta e distruggi!». Non ha ancora finito e un grave torpore pervade le membra: il tenero petto è rinchiuso in fibra sottile, i capelli s’allungano in fronde, in rami le braccia; i piedi, or ora tanto veloci, s’arrestano in pigre radici, il volto si fa chioma: resta solo il suo antico splendore. Pur così Apollo la ama: appoggiata al tronco la mano, sente il petto che trepida ancor sotto nuova corteccia, e, stretti tra le braccia quei rami come fossero membra, bacia il legno: ma anche il legno si sottrae ai suoi baci. «Poiché», dice il dio, «non puoi esser mia sposa, il mio albero sempre sarai. Sempre di te si orneranno, o alloro, la mia chioma, e la cetra, e la faretra. Tu coi capi Latini sarai quando lieta voce intonerà il trionfo e di lunghi cortei stupirà il Campidoglio. Ai battenti della porta di Augusto fido custode starai, lì sul davanti, a difesa della quercia nel mezzo, e come il mio capo è giovane sempre di intonsi capelli, tu pure sempre godrai dell’onore di fronde perenni!» Così disse. L’alloro annuì coi suoi rami appena formati e sembrò agitare la chioma in segno di assenso.
Inutile ricordare che proprio da queste descrizioni di ninfe scomposte nella corsa, di veli fluttuanti, di capelli agitati dal vento partì Aby Warburg per la sua ricerca sul diffondersi del ‘modo all’antica’ nel primo Rinascimento italiano. Ma è ora di concludere, e vorrei farlo col mito di Narciso (III libro). Non tutto. Ecco la versione del rispecchiamento e dell’autoinnamoramento nelle parole della Koch (III 407-40):
C’era una chiara sorgente, dai limpidi flutti d’argento, mai sfiorata neppure da pastori o da capre sui monti al pascolo, o da altro bestiame, né mai intorbidata da uccelli, da fiere o da rami caduti dagli alberi, cinta d’un’erba nutrita dall’acqua vicina, e di un bosco che sbarra ogni sole, qualsiasi calore. Il ragazzo si getta disteso sull’erba, attratto dal fonte e dal luogo stupendo, spossato dal caldo e più dalla caccia bruciante. Si prova a calmare la sete e cresce una sete diversa. Gli appare un riflesso bellissimo, bevendo, e ne perde la testa: lo coglie l’amore di un’ombra che è spoglia del corpo. La prende per corpo, ma è acqua soltanto. Appare a se stesso un miracolo, e immobile fissa la faccia che è sua, e che somiglia a una statua scolpita nel marmo di Paro. Sdraiato per terra contempla le stelle gemelle degli occhi, i capelli, degni di Bacco, degni di Apollo, le guance infantili, il collo d’avorio, la grazia del volto, il rossore mischiato alla neve, e ammira ogni singolo tratto che rende lui stesso mirabile. Si illude, e vagheggia se stesso; è attratto dall’altro e lo attrae; si cerca, e il se stesso lo cerca: si infiamma del fuoco che ha acceso. Con mille inutili baci ribacia la fonte ingannevole, immerge le braccia nell’acqua per mille volte, e gli pare di stringerle al collo dell’altro, che è lui, ma non giunge a toccarsi. Che cosa abbia visto non sa, ma brucia per quello che ha visto: un unico inganno gli illude e gli attizza lo sguardo. Ingenuo, a che scopo inseguire invano fantasmi fuggevoli? Quello che cerchi non c’è: quello che ami, lo perdi solo a voltarti. Non è che un riflesso, quest’ombra che vedi. Di suo non ha nulla: ti segue e si ferma con te, con te si allontana, se mai riuscirai a allontanarti. Di lì non riesce a distoglierlo né fame né voglia di sonno: sdraiato sull’ombra dell’erba contempla il bellissimo inganno, ma senza appagarsi lo sguardo: per gli occhi gli passa la morte.
E questa è la mia del finale (Narciso, colui che ha respinto la ninfa Eco e mille altre e altri, ora, credendosi respinto, è alla disperazione, III 469-510):
«Il dolore mi toglie le forze, non mi resta più ormai tanto tempo, muoio nel fiore degli anni. Non la morte mi è dura, con la morte lascerò ogni pena: ma è lui che vorrei vivesse più a lungo, il mio amato! Ma ora, due cuori in un’anima sola, entrambi morremo». Disse, e in preda al delirio tornò a fissare lo sguardo, con le lacrime smosse l’acqua, la superficie increspata rimandò un’immagine confusa. Vedendola svanire «Dove scappi?», gridò, «Resta, non lasciarmi, o crudele, io t’amo! Se non vuoi che ti tocchi, almeno ch’io possa guardarti e nutrire così la mia folle passione!» Tra i lamenti, si strappa in alto la veste e il nudo petto percuote con le palme bianche che sembrano marmo. Il petto percosso si tinge di tenue rossore, come, sai, quelle mele che son bianche da una parte, rosse dall’altra, o come l’uva che suole via via arrossire nei suoi grappoli variopinti quando sta maturando. Tornando a vedersi nell’onda nuovamente placata, non regge più lungo ma, come bionda cera si scioglie a timida fiamma o la brina al mattino sotto i raggi d’un tiepido sole, così annientato dalla forza d’amore si scioglie e pian piano è consunto da fiamma nascosta. Già di rossore misto a candore più non v’è ombra, né di tempra, né di forza, né di ciò che or ora piaceva alla vista, e neppure il corpo amato un tempo da Eco. Ma quando lei lo vide, pur adirata al ricordo, assai se ne dolse, e ogni volta che lui infelice «Ahimé» mormorava, a sua volta «Ahimé» di rimando diceva. E quando il giovane si dava dei pugni alle braccia, questo identico suono di colpi lei ripeteva. Lui, fissando l’onda per l’ultima volta, «Ahimé», disse, «fanciullo invano diletto!» e il luogo ripetè queste stesse parole, e al suo «Addio!» «Addio!» Eco rispose. Egli abbassò il capo spossato nel verde dell’erba, la notte chiuse gli occhi incantati a fissare il proprio padrone. E dopo che fu accolto nelle sedi dell’Ade, lì sempre si specchiava nello Stige. Un lamento levaron le sorelle Naiadi offrendo al fratello chiome recise, un lamento levaron le Driadi: al loro, Eco unì il proprio. Già approntavano il rogo, le fiaccole agitate, il feretro: ma il corpo non c’era. Al suo posto trovano un fiore, giallo nel mezzo contornato di petali bianchi.
NOTE
(1) Ovidio, Metamorfosi, Introduzione e traduzione di M. Ramous, Note di L. Biondetti e M. Ramous, I e II, Milano, Garzanti 1995.
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