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LA POESIA DI MARIA PASCOLI
Maria Pascoli è una personalità tanto conosciuta nel folklore pascoliano, quanto poco studiata ed analizzata in se stessa. Tutti conosciamo, e così crediamo di sapere, la storia della piccola, povera zitellina sprovveduta, timorosa di tutto e di tutti, incapace di cavarsela da sola anche per le attività più elementari e necessarie, goffa e malvestita, con patetiche pretese intellettuali, eterna preoccupazione ed assillo del fratello, che solo con la sua presenza e con il suo intervento può garantirne la sicurezza. Questo ritratto stereotipo è stato creato, incrementato e rinforzato da bozzetti fra l’oleografico e l’edificante della figura di Maria, ‘sorella del grande poeta’. Questo stereotipo è chiaramente presente anche in molta della produzione poetica di Giovanni Pascoli, che, si potrebbe dire, ne è senz’altro il più grande e il più convinto propugnatore. Nella critica pascoliana Maria, a seconda dei tempi, oscilla tra omaggi dolciastri per la sua dedizione al fratello (soprattutto durante la vita di Giovanni, quando era ben risaputo che per arrivare a lui bisognava ottenere le buone grazie della sorella), poi, dopo la sua morte, e sempre più di frequente, velati e sempre meno velati rimproveri per il suo ostinato rifiuto di concedere accesso alle carte di Giovanni, di cui lei era unica erede. Per questo è anche stata ritenuta responsabile del vuoto di veri ed approfonditi studi sull’opera pascoliana, che sono invece rifioriti dal 1953, anno della sua morte, quando l’Archivio di Castelvecchio è stato aperto al pubblico. Recentemente poi sono apparsi vari articoletti, di sapore quasi scandalistico, con congetture e domande su quali potessero essere i rapporti fra Giovanni e la sorella, e se si possa pensare che essi fossero incestuosi. Qualunque possa essere l’orientamento ideologico dei critici, però, tutti sono concordi nel giudicare in modo negativo il ruolo di Maria nella vita e anche nell’opera poetica di Giovanni Pascoli1. Non si vuole qui riprendere questo argomento per confutarlo. Lo scopo di questo scritto è di parlare di Maria Pascoli non come sorella di un poeta, la piccola donna che, inevitabilmente, si trova dietro un grande uomo, ma come una donna che si è dedicata per tutta la vita sia al lavoro intellettuale che alla poesia, aspetti che, finora, non sono mai stati presi veramente in considerazione. Maria ha lasciata scritta, anche se inedita, la storia della sua vita in un manoscritto che è poi stato pubblicato dopo la sua morte da Augusto Vicinelli2 . La storia di questo libro presenta aspetti interessanti. Venuto in possesso del manoscritto, cioè dell’unica copia esistente del manoscritto, attraverso i buoni uffici del Vicinelli, l’editore Mondadori lo manda nel 1943 a una tipografia di Torino, che viene completamente distrutta poco dopo in un bombardamento. Voglio sottolineare un fatto a mio avviso importantissimo. Maria è nata nel 1865, questo significa che nel 1943 aveva 78 anni. Ebbene, questa donna di 78 anni che, nel mezzo di una guerra (e che guerra!), perde all’improvviso il lavoro a cui si è dedicata per quasi metà della sua vita, cosa fa? Si lascia prendere dalla disperazione? No, Maria, silenziosamente, coscienziosamente lo riscrive. Non si mette però più in contatto con l’editore, non ritenta la pubblicazione, di fatti, per quel che se ne sa, non ne parla più con nessuno. Alla sua morte, 10 anni dopo (aveva quindi 88 anni), saranno trovate quasi mille pagine manoscritte, che costituiscono appunto, con alcune modifiche, la prima parte di Lungo la vita di Giovanni Pascoli. Anche per la parte mancante, quella che lei non ha avuto il tempo di scrivere o di riscrivere, molto del lavoro di ricerca e di ordinamento del materiale era già stato fatto da Maria ed è stato trovato da Vicinelli, che l’ha utilizzato per la stesura del resto della vita di Pascoli. È chiarissimo che questo libro di memorie, il libro che, presumibilmente, occupa gran parte dei quaranta anni durante i quali Maria sopravvive a Giovanni, è importantissimo per chi lo scrive. Come lei stessa dice più volte, è importante che sia lei a scrivere la storia di Giovanni, lei che è la depositaria della verità e può quindi rettificare le tante cose errate che si son venute dicendo sul fratello. Ma, secondo me, un altro motivo, altrettanto importante, la spingeva a scrivere e a riscrivere la storia, che è la loro storia. Difatti, leggendola risulta evidente al lettore che la biografia di Giovanni Pascoli scritta da Maria è piuttosto anomala. Cioè, mentre è chiaro che nessun biografo è mai totalmente obiettivo e sempre traspare il suo punto di vista, nel caso di Lungo la vita... chi scrive non è solo biografo ma anche, e soprattutto, uno dei due personaggi principali, impegnato attivamente nelle svolte e direzioni che la vita progressivamente prende. Si può quindi dire che la storia di Maria è senz’altro particolarmente tendenziosa, non intendendo però questo aggettivo in senso negativo, volendo dire che in tutta la parte del libro scritta da Maria il suo punto di vista è quello dominante e la sua voce, che non ha nessuna esitazione a dire ripetutamente ‘io’, è chiara ed inequivocabile, accanto a quella di Giovanni. Si è parlato molto, in questi ultimi anni, di autobiografia e soprattutto di autobiografia femminile, evidenziando come le donne siano arrivate più tardi rispetto agli uomini a questo genere letterario. L’autobiografia classica prevedeva un soggetto (prevalentemente maschile) che attraverso la sua storia arrivava a descrivere il compimento di un viaggio di scoperta e di autoconoscenza, e si poneva come protagonista di una storia eccezionale. Le donne, con la loro limitata esperienza della vita, raramente potevano aspirare a porsi in questo ruolo: non c’era niente di eccezionale che avesse luogo nella loro vita fra le pareti domestiche, tanto da giustificare la scrittura di questa storia senza storia. Semmai le donne si dedicavano alla scrittura, molto più ‘femminile’ di un diario, destinato alla lettura privata e non alla pubblicazione. Se la scrittura di Maria è anomala, rispetto al genere letterario ‘biografia’, questo non avviene per insipienza o per ingenuità da parte dell’autrice. A mio avviso, qui ci troviamo davanti a un genere misto, una ‘auto/biografia’. È un fatto, anche questo risaputo, che le donne, nell’impossibilità di scrivere la loro storia (atto ritenuto arrogante e superfluo), la nascondono entro altri generi letterari, come appunto la biografia3. L’unico modo che Maria ha di raccontarsi è raccontando la vita del poeta Giovanni Pascoli. Parte importante del racconto di sé che lei inserisce nel racconto della vita del fratello è il suo ruolo di agente nella organizzazione e riorganizzazione del tanto famoso «nido» pascoliano4. Ma è anche rilevante la parte che dedica al racconto del suo proprio lavoro poetico, che occupa diverse pagine, trascrivendo molte delle sue poesie inedite, pagine che sono poi state espunte dal curatore Vicinelli e che, quindi, non appaiono nella versione pubblicata5. L’opera poetica di Maria, per lei tanto importante e che aveva cercato in un qualche modo di rendere nota attraverso il manoscritto, rimane così ancora quasi sconosciuta. Ma, durante la sua vita, lei aveva pubblicato un certo numero di suoi componimenti, di cui qui si traccerà brevemente l’iter. Fra il 1898 e il 1907 sono state pubblicate sulla rivista fiorentina il «Marzocco» sei poesie di Maria, firmate con lo pseudonimo «Sibylla». Le poesie pubblicate sono le seguenti: L’alba del malato – 9 giugno 1898, 3, Rimpianto –10 luglio 1898, 3, Nostalgia, Alba e tramonto – 30 aprile 1899, 2, Dopo il ritorno –26 novembre 1899, 1, Vento freddo – 3 marzo 1907, 2. Tre di queste poesie, L’alba del malato e Rimpianto, due sonetti, e Dopo il ritorno. A Laura, in strofe saffiche, sono pubblicate anche, con piccole varianti, soprattutto di punteggiatura, nell’appendice ai Canti di Castelvecchio con una breve introduzione di Giovanni. Altre otto poesie sono state pubblicate nel 1905 ne La strenna delle colonie scolastiche estive bolognesi6, una pubblicazione di beneficenza a cui contribuiscono altre due donne. L’ultima poesia di Maria Pascoli che abbia visto la luce è un sonetto da lei inviato alla rivista «Paraviana» nel marzo 1915, ma pubblicato, in forma scorretta, solo nel 19227. Si è lasciato per ultimo il caso più interessante di pubblicazione di una delle poesie di Maria. Si è visto che quando le sue poesie sono apparse su una rivista tipicamente ‘maschile’ come il «Marzocco» esse sono presentate con uno pseudonimo (Sibylla), mentre il suo nome appare in una pubblicazione tipicamente ‘femminile’ come la Strenna (e qui si potrebbe fare tutto un lungo discorso sui problemi delle donne ad affrontare la pubblicità della pubblicazione). Però sulla prima pagina del Marzocco il 10 gennaio 1904 viene pubblicato il seguente testo, firmato Maria Pascoli:

A Gabriele D’Annunzio
Siedo pensosa, o Gabriel. Da canto
m’è il dono vostro. Con la sua corona
di rose, avvolta nel suo niveo manto,
grande ma buona,
la Pania dice: «A te, povera figlia,
molto fu tolto, molto fu negato!
Alla mia neve pallida somiglia
freddo il tuo fato!
Ma roseo come un cirro mio, ti s’alza
oggi un pensier dall’anima. L’Aedo
ch’a me tuttora per l’opposta balza
giungere io vedo,
lo so, t’offerse il dolce pane... Oh stanco
è tuo fratello dal fatale andare!
A lui lo porgi: per te basti il bianco
giglio del mare!»

La pubblicazione di questo testo è la conclusione di tutto un lungo episodio che vale la pena di raccontare. Nell’autunno del 1903, appena finito Alcyone, Gabriele D’Annunzio manda a Maria, il manoscritto dell’ultimo componimento della raccolta, il Commiato, che si chiude appunto con un’immagine di Maria:

Ode, così gli parla. Ed alla suora,
Che vedrai di dolcezza lacrimare,
Dà l’ultimo ch’io colsi in su l’aurora
Giglio del mare. (vv.189-192)8

È vero che il ritratto di Maria è muto, ma il suo esserci dimostra che D’Annunzio l’ha vista (e ricordiamo che i loro incontri non sono stati che brevissimi e non più di due o tre), come certamente non si vede una apriporte o una portacaffè, i soli ruoli che qualcuno si aspetterebbe possa avere avuto nell’incontro di due grandi poeti, e ha anche sentito la forza della sua presenza muta. L’episodio ha poi un ulteriore sviluppo. D’Annunzio manda a Maria, in occasione del Natale dello stesso anno, un panettone. A questo dono lei risponde con la poesia di ringraziamento citata sopra e Gabriele, appena ricevutala, le chiede il permesso di farla pubblicare, definendola una «mirabile odicina». Vicinelli, che riporta tutto l’episodio, inclusa la poesia di Maria, si sente in dovere di dare anche una sua interpretazione di esso e definisce il testo poetico della donna come una «più esile voce di poesia» e, come spiegazione della decisione di D’Annunzio di farlo pubblicare, adduce sottilmente e implicitamente il fatto che Gabriele, «sempre abilmente garbato», volesse probabilmente guadagnarsi le buone grazie di Giovanni, con cui c’erano state, nel tempo, delle tensioni e incomprensioni. Tutta l’ultima parte del Commiato è, come si sa, un grande e potente omaggio a Giovanni Pascoli e alla sua poesia: aveva veramente bisogno D’Annunzio di fare di più se voleva rientrare nelle buone grazie di Giovanni? Non sembra probabile. Inoltre, avrebbe veramente D’Annunzio, sempre così attento a coltivare la sua fama, rischiato il ridicolo sulle pagine della importante rivista fiorentina a cui assiduamente collaborava facendo pubblicare una poesia improponibile, quando un biglietto con poche frasi di garbato, e privato, apprezzamento, sarebbero bastate ad accontentare l’umile zitellina? Anche qui mi sembra che la risposta non possa essere che negativa. Eppure, per i critici, che trovano impossibile accettare il fatto che Maria Pascoli possa avere scritto qualcosa di poeticamente valido, l’ipotesi di un D’Annunzio pubblicamente adulatore del Pascoli, anche a scapito di danneggiare la sua propria reputazione e credibilità, viene ritenuta preferibile. Inoltre Vicinelli dice che Maria risponde a d’Annunzio «quasi echeggiando il Commiato». In effetti la poesia di ringraziamento riproduce esattamente il metro del Commiato, che è una serie di strofe saffiche, dimostrando la perizia versificatoria di Maria, e si chiude con lo stesso sintagma che conclude il Commiato: «giglio del mare». Quindi la chiamerei quasi una sapiente «risposta per le rime», piuttosto che un vago «echeggiamento». Dunque, l’opera poetica di Maria Pascoli che sia stata pubblicata si riduce a meno di una ventina di componimenti, anche tenendo conto della duplice pubblicazione di tre di essi. Nell’Archivio di Castelvecchio, però, fra le sue carte si trova qualche centinaio di poesie inedite. La sua poesia rimane sepolta nel silenzio dello studiolo di Castelvecchio. Ma non dimenticata, come dimostrano tutti i passi di Lungo la vita..., in cui parla delle sue prove poetiche, e le trascrive estesamente in più di un’occasione. È interessante notare che, benché fra le carte di Maria si trovino letteralmente centinaia di poesie scritte su foglietti, relativamente pochi sono i componimenti che si possono definire allo stato di abbozzo: la stragrande maggioranza presenta testi finiti, in bella calligrafia, con nessuna o pochissime correzioni. Quindi, anche se l’opera poetica di Maria rimane allo stato perenne di «foglie sparse», questo non significa affatto che per lei non sia importante. Un tema ricorrente nelle poesie è quello dell’accettazione del ruolo femminile nello svolgimento dei lavori domestici, legato però sempre a una rivendicazione di un altro spazio, autonomo, in cui scrivere e sognare: mai, dunque, in Maria, l’ode alla domesticità e l’inno alla bellezza del lavoro femminile, ma, piuttosto, un assenso alle convenzioni sociali, per poterle poi evadere impunemente. Legato a questo tema è quello dei «figli non nati», che potrebbe, preso alla lettera, significare il rammarico frustrato di una «zitella», ma che, invece, in lei vela il suo rapporto con la poesia, con i suoi versi, che non potranno mai vedere la luce. Questi due temi appaiono, nella forma forse più compiuta, in due delle poesie pubblicate sul «Marzocco» e poi in appendice ai Canti di Castelvecchio: Rimpianto e Dopo il ritorno. A Laura.

Rimpianto9

Anch’io, nei dolci sogni di mia vita,
sognai di voi, che mai non vidi e sento
garrire ne la mia stanza romita,
figli, con voci piccole d’argento.

Oh! per voi certo queste magre dita,
così lodate nel mio buon convento,
la bella veste avrebbero cucita
con bianche trine e lunghi nastri al vento!

Erano sogni; sono: e ne l’eterna
ombra voi resterete, e su voi scende
l’oblio del tempo, o figli miei non nati.

Sogni! ed è vana l’opera materna
e vani i baci; ché nessun mi tende
le sue manine, o figli miei non nati!

Dopo il ritorno. A Laura

Nel cassettone, ch’all’aprirlo rende
Subito odor di spigo e di gaggìa,
Tutta in assetto, tutta liscia splende
La biancheria.

Splendono tutti i mobili che un panno
Intriso d’olio ripulì pian piano;
Splendono i vetri cui deterse il ranno
E la mia mano.

Laura, io riposo: per un poco io l’ago
Lascio ed i ferri, le mie tacite armi;
E siedo e penso; e dal pensier mio vago
Lascio portarmi.

Lascio portarmi a ritrovar la prole
Ch’ebbi, di sogni: gocciole di brina
Antelucana, cui ribevve il sole
Sulla mattina;

A ritrovarli; ed a cantar sommessi
Canti d’amore presso la lor culla;
Canti che sono un triste e pio, com’essi
Furono, nulla.

Ma a questi testi editi si possono aggiungere i seguenti inediti. Per l’accettazione condizionata dei lavori domestici:

Caro Giovannino
Le trine, ahimè! le calze e tutto quanto
opra è di donna, il far continuamente
m’annoia e m’addolora tanto tanto.

Farle però vorrei, ma similmente
vorrei scrivere, leggere e studiare
per dar respiro all’inquieta mente.

Favorir chi mi può lezioni care,
chi prestare mi può benigno aiuto
in questo desiderio, col pagare?

Dolce fratello, non mi dar rifiuto
che in te ho riposto questa gran speranza,
in te felice pien d’ingegno arguto.

A te mi raccomando con fidanza.10

Tranquilla oh! sì, tranquilla al mio lavoro
passerò tutti tutti i dì feriali,
sì che il fratello mio s’abbia un tesoro
di cose belle dentro i canterali.

In nessun’ora chiederò ristoro:
a volo andrà sulle tele nivali
l’ago: poi con un fremito sonoro
a veglia i ferri sbatteranno l’ali.

Ma nelle feste, o Musa, il tuo favore
vorrei pur io che tanto affetto e stima
nutro per te. Ciò che mi sento in cuore

trailo tu col tuo poter divino,
l’adorna tu di graziosa rima
si che non spiaccia al Vate Giovannino.

Per il tema dei «figli non nati» si può leggere il seguente sonetto:

24 maggio 1902

E vi rivedo, o figli, in questa sera
in cui l’anima stanca non ha pace.
Entro da voi, nella stanza, leggiera
dov’è un confuso mormorio loquace.

Voi portate i color di primavera
ne’ bei visetti, e lo sguardo vivace.
Studiate insieme sotto la lumiera
che a voi rivolge i suoi tre occhi e tace.

Io vi do un bacio sulle teste bionde;
voi vi volgete e m’allacciate il collo
con l’esili braccette adolescenti.

E mentre freno nelle più profonde
plaghe del cuor la tenerezza, oh! crollo
del11 sogno vano! oh! in eterno assenti!

Sibylla12

E per il legame fra «figli» e «versi»:

O voi, mie care rime segrete
ardenti come nulla più c’è,
ascose tutte tutte morrete
qui, dentro me.

Ché nel mio cuore col sol d’Aprile
un nero bruco strisciando entrò
e la speranza, cespo gentile,
si divorò.

Per cui, mie care rime segrete
ardenti come nulla più c’è
ignote a tutti, tutte morrete
qui, dentro me.

M. P. 5 Luglio 1896

In questo componimento non può essere più chiara l’analogia fra versi e figli, quando si dice che i versi sono dentro di lei, vivi ma impossibilitati a vedere la luce, illuminati però dalla passione di Maria. La frustrazione, che certamente esiste, deriva dal conflitto fra questa passione sentita con grande forza e le convenzioni e i giudizi del mondo esterno, che inesorabilmente condannano la sua poesia ad esssere «nulla».
Quando, in questa poesia, parla del «nero bruco» che minaccia di distruggere tutta la sua opera poetica, ella si riferisce chiaramente al mo mento drammatico che sta vivendo e di cui lei parla diffusamente in Lungo la vita...: nella primavera e nell’inizio dell’estate del 1896 Giovanni ha tutte le intenzioni di dissolvere il «nido», già minato dal matrimonio della sorella Ida nel 1895, mandando Maria a convivere con lei in Romagna. Solo la ferrea determinazione di Maria la porterà a ristabilire l’unione, poi dimostratasi imperitura, con Giovanni. È chiaro che per lei la possibilità della scrittura poetica esiste solo a fianco di Giovanni e non potrebbe sopravvivere nell’ambiente ‘femminile’ di una convivenza con la sorella.
Un altro tema ricorrente nelle poesie di Maria è quello della natura, una natura, però sempre vista dall’interno, di cui chi scrive non può far parte se non come osservatore distaccato, come se questo volesse significare la sua consapevolezza di essere un’intrusa nel mondo della poesia, in cui non ha veramente diritto di essere completamente e, quindi, può vedere solo attraverso spiragli, come in questi due sonetti alla notte, che formano quasi un dittico:

Notte

Mute nelle profondità supreme
ardono con un lieve tremolio
le stelle d’oro13, e col suo lume pio
la luna cauta scivola14 ché teme.

Teme turbare il silenzio che preme
la terra immersa nel profondo oblio,
mentre sovr’essa l’alito di Dio
scende e trasfonde vita all’uman seme.

Presso la porta d’ogni casa, nero
rincantucciato posa anche il dolore
come un fedele ed orrido mastino.

Erra per tutto un senso di mistero
che sembra quasi empirmi di terrore
sì che t’invoco o garrulo mattino.

Dicembre 1901

Notte15

È notte: io guardo e medito al balcone.
Porte, finestre, tutto è chiuso e tace:
solo una fonte scivolando in pace
mormora sotto un pallido lampione.

Mormora in pace quella sua canzone
e pare quasi nel silenzio audace:
nel dì non s’ode, tanto mai loquace
l’attornia sempre sciame di persone.

Due gatti son signori della piazza
ch’io vedo: un cupo gemito, una zuffa:
ulula un cane di su una terrazza.

In lontananza s’ode un fischio: appare
un treno che laggiù fumido sbuffa
come sgomento del suo vano andare.

Sibylla

E, ancora, un altro componimento scritto «dalla finestra»:

Dalla mia finestra a Castelvecchio

I
Tra il fumo di nebbie leggiere
tra un aureo titinno di voci
cominciano gialle a cadere
le foglie dei pioppi e dei noci.

Nell’aria s’indugiano un poco
cullate dal vento. In suo corso16
sott’esse scivola roco17
il rivo ch’è detto dell’Orso,18

e pare che chiami che chiami
col roco suo ansare. Pian piano
le foglie vi calano a sciami19
e vanno con esso lontano.

Ma dove? ma dove? La belva
che seco vi porta, oh quassù,
qui presso la placida20 selva
non vi ricondurrà mai più.

Un mattino di Settembre 1899

E, per finire questa breve carrellata di poesie inedite di Maria Pascoli, due ultimi testi, composti durante il periodo messinese dei fratelli Pascoli, pieni di nostalgia per il rifugio amatissimo di Castelvecchio, scritti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro:

Da Messina
Via Legnano
Panorami immensi della mente

Se dal balcone spingo l’occhio anelo
ecco, sol vedo case, strade e gente
che va, che va, che va perennemente...
e sul mio capo appena un po’ di cielo.

Ma se nel cuore, dove tutte celo
le dolci visioni della mente,
m’interno, oh tutto io vedo! il mar fremente,
il mar che trema, l’inconcusso gelo

degli alti monti, le verdi criniere
de’ miei facili colli, i fiumi, il piano
ondeggiante del suo novello grano,

la mia villetta rosea nelle sere
aurea nel giorno e nella notte bruna
ridente alla silenziosa luna.

6 febbraio 1898

Da Messina
Primavera sempre?

tu non sai la gioia
scilp de la neve il giorno che dimora
G. P. Myricae
Qui ridi, o cielo, e qui tu scaldi, o sole;
né di stufe si parli o di fiammate;
qui son sempre in fiore le viole,
gli alberi verdi, le genti beate.

Che manca dunque a questo cuor che suole
da queste rive tiepide e incantate
fuggir lontano? che cerca, che vuole
che sosta là, tra le nevi ghiacciate?

Sì sì! Gli manca quel dolce aspettare
che tu sorrida, o ciel, col sole d’oro;
gli manca l’esplorar giorno per giorno

le preziose violette rare
su pei poggetti; gli manca il tesoro
che non è primavera, è il suo ritorno.

19 Febbraio 1898

NOTE
1 Le pagine più interessanti e penetranti su questo argomento sono state scritte da G. Bàrberi Squarotti (Simboli e strutture della poesia del Pascoli, Messina-Firenze, G. D’Anna 1966) e, più recentemente, da C. Garboli (Poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Milano, A. Mondadori 1985), che è poi anche tornato sull’argomento nella prefazione a G. Pascoli, Poesie e prose scelte, Milano, Mondadori 2002.
2 M. Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, memorie curate e integrate da A. Vicinelli, Milano, Mondadori 1961.
3 Sulle strategie autoriali delle donne per arrivare all’autobiografia fra le pieghe di altri generi letterari si veda M. Farnetti, Il Centro della Cattedrale. I ricordi d’infanzia nella scrittura femminile, Mantova, Tre Lune Edizioni 2002.
4 Per un’analisi dettagliata di questo ruolo ‘agente’ di Maria si veda, di chi scrive, Le foglie levi di Sibylla. Maria Pascoli e la scrittura, in corso di pubblicazione.
5So che Cesare Garboli (insieme a Anthony Oldcorn) stava lavorando a un’edizione integrale del manoscritto di Maria e spero che il lavoro procederà anche dopo la prematura morte dello studioso. Dopo più di 50 anni dalla morte di Maria mi auguro che esso possa presto vedere la luce.
6 Anno VIII, gennaio MDCCCCV – Intelletto e carità – Una prosa narrativa della C.ssa Eugenia Codronchi-Argeli – versi della C.ssa Vittoria Aganoor Pompilj e di Maria Pascoli, Bologna, ditta Nicola Zanichelli 1905.
7 [L. VISCHI], Pascoliana [Vengono riportati alcuni componimenti poco noti del Pascoli giovane e un sonetto di Maria Pascoli corretto da G. Pascoli], «Paraviana», agosto 1922, pp. 174-175.
8 G. D’Annunzio, Il Commiato, in Alcyone, Versi d’amore e di gloria, II, (a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini) Milano, Mondadori 1984, pp. 640-41.
9 Nei Canti di Castelvecchio con le seguenti varianti: v. 3 nella; v. 9 nell’eterna.
10Tutti gli indediti si trovano nella Cassetta XLV dell’Archivio di Castelvecchio e sono qui pubblicati con il permesso del Comune di Barga, proprietario dell’Archivio.
11 Segue un mio cassato.
12 Scritto in grande sulla destra del testo.
13 d’oro inserito in interlinea.
14 Corretto su passa timida.
15Questo componimento non è datato, ma, essendo scritto sullo stesso tipo di carta del precedente, si può supporre che essi siano contemporanei. È poi, con minime variazioni, una delle otto poesie pubblicate nella Strenna.
16 Corretto su cullate da piccolo vento:.
17 Corretto su sott’esse con murmure roco.
18 Corretto su serpeggia il Rio d’Orso d’argento.
19 Corretto su discendono in esso gli sciami.
20 Corretto su vostra gran.

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