« indietro TRADURRE INSIEME DALLO YIDDISH - I
SULLE TRACCE DELLA LINGUA Di Haim Burstin L’esperienza che si vorrebbe qui brevemente presentare ha un suo carattere del tutto particolare e atipico nell’ambito del consueto lavoro di traduzione. E questo da diversi punti di vista che conviene innanzitutto enunciare per definire il campo specifico in cui ci situiamo. Atipica è essenzialmente la lingua che fa oggetto della traduzione, lo yiddish. Si tratta, come è noto, del linguaggio delle comunità ebraiche d’Europa centro-orientale, parlato fino all’ultima guerra mondiale da circa tredici milioni di persone, ma ora praticamente scomparso. Atipica è la personale posizione di chi traduce rispetto a questa lingua. Atipico è l’esperimento che alla traduzione ha dato origine: si tratta infatti, come rivela già il titolo di questo intervento, di un lavoro collettivo svolto da tre traduttori di cui nessuno è di madre lingua yiddish1.
Conviene ricordare, a questo proposito, che coloro i quali parlavano correntemente lo yiddish prima della guerra vivevano in una condizione di effettivo, o quanto meno tendenziale, bilinguismo. Da un lato c’era appunto lo yiddish, lingua della tradizione e della vita familiare, che si accompagnava però alla lingua ufficiale dello stato o della regione in cui ogni individuo si trovava a vivere. In origine però, questa condizione di bilinguismo, negli ambienti intellettuali, non era messa tanto al servizio della traduzione di opere dallo yiddish, la cui letteratura solo dagli ultimi decenni dall’Ottocento aveva conosciuto un suo grande sviluppo; più facilmente ci si dedicava a tradurre in yiddish i tesori della letteratura europea. Questa vasta operazione culturale si situava nel più ampio progetto che si era andato progressivamente definendo attorno alla fine del secolo, rivolto a un’acculturazione delle masse ebraiche d’Europa centrale: quei ceti cioè che, impossibilitati per condizione economica e sociale a intraprendere studi superiori, rimanevano all’oscuro dei tesori della letteratura europea. Si tratta di un vasto progetto pedagogico, legato all’impegno militante dei primi partiti o gruppi di ispirazione socialista nati in ambito ebraico. Oggi la situazione si è paradossalmente e drammaticamente invertita. La lingua yiddish è stata praticamente annientata in seguito allo sterminio da parte della Germania hitleriana degli ebrei d’Europa centro-orientale; curiosamente, infatti, se un’operazione è riuscita nel quadro del disegno di annientamento della popolazione ebraica europea, è proprio sul piano linguistico che essa si situa. Attualmente infatti il numero di individui di lingua madre yiddish si riduce all’esiguo gruppo degli ultimi sopravvissuti: una generazione di settanta-ottantenni, cui solo in pochi casi si aggiungono i figli. Ma anche il numero di quanti parlano correntemente questa lingua, pur non come lingua madre, si è impressionantemente assottigliato. E ciò, malgrado la straordinaria ripresa di interesse che in questi ultimi anni si sta registrando attorno allo yiddish e alla sua cultura in generale. Oggi quindi il problema si pone diversamente ed è divenuto essenzialmente quello di riportare alla luce i tesori della letteratura yiddish e di tradurli per renderli disponibili e sottrarli in tal modo all’oblio. Estinguendosi però, con lo yiddish, anche quella particolare condizione di bilinguismo cui esso naturalmente si associava, il problema del tradurre si complica. In linea di principio non ci sarebbe niente di strano che a tradurre dallo yiddish non siano persone di lingua madre. È quanto accade abitualmente anche nel caso di altre lingue; ad essere comunemente richiesta come lingua madre è semmai quella di destinazione piuttosto che quella di origine. Appare quindi del tutto normale che uno traduca dall’inglese senza essere di lingua madre inglese. Ma tra l’esperienza del tradurre dall’inglese e quella del tradurre dallo yiddish la distanza è profonda, essenzialmente per il fatto che lo statuto dello yiddish è stato bruscamente trasformato, nello spazio di pochissimi anni, da quello di una lingua viva a quello di una lingua morta. Non è il caso di riaprire qui il dibattito su questa tesi che, più che esprimere un giudizio, si limita a un’amara constatazione; malgrado tale argomento possa sembrare smentito dalla straordinaria vitalità che dimostrano i vari circoli di cultura yiddish ancora esistenti e disseminati nel mondo, come pure dalla larga ripresa di interesse che la sua letteratura suscita e dalle prospettive del tutto inattese e talvolta paradossali che ciò comporta, questa definizione di lingua morta ci sembra difficilmente controvertibile. Ai nostri effetti ciò ha una conseguenza immediata: il fatto di non essere di lingua madre, per chi è chiamato a tradurre una lingua non più in vita, significa dover fare a meno di un ancoraggio importante e di una fonte concreta per risolvere i grandi problemi posti da un idioma, come già si è detto, strutturalmente atipico e che solo il bilinguismo era tradizionalmente chiamato a risolvere. Originariamente dialetto tedesco medievale, lo yiddish si fonda, come è noto, su una sorta di plurilinguismo interno che incorpora sistematicamente elementi derivati dall’ebraico e dall’aramaico, oltre che da diverse lingue slave (polacco, lituano, bielorusso, ukraino); numerosi sono tuttavia anche i termini di derivazione latina che compaiono a pieno titolo, come pure, più di recente, quelli di origine anglosassone. Una lingua spugnosa, dunque, che si è rivelata nei secoli in continuo movimento, associata a un progressivo e inarrestabile processo di contaminazione. È proprio questo multilinguismo che mette all’arco dello scrittore yiddish una molteplicità di frecce: egli può esprimere un medesimo concetto con forme e vocaboli diversi, attinti di volta in volta da lingue diverse a seconda del sapore particolare che vuole conferire alla sua frase. Il senso di tale scelta e dell’effetto che si voleva raggiungere era immediatamente chiaro al lettore, allorché questa lingua veniva comunemente e largamente parlata, ma è estremamente difficile oggi da rendere in una traduzione. L’insieme di questi aspetti particolari giustifica oggi approcci diversificati e comunque atipici o inconsueti, tra cui il nostro: quello di affrontare cioè la letteratura yiddish nel quadro di un circolo di lettura. È evidente come la pratica della lettura collettiva sia divenuta un fatto ormai desueto: se uno deve leggere un libro, certamente preferisce leggerlo da solo. Tuttavia la sfida rappresentata oggi dallo yiddish spiega una strategia diversa, fondata sul lavoro d’équipe. Dalla moltiplicazione delle chiavi di lettura, infatti, e dall’ampiezza del bagaglio culturale che si è in grado di mobilitare, dipende spesso la possibilità di ricostruire un testo. Questo, almeno per quanti questa lingua non l’hanno mai parlata correntemente, né dispongono di una fonte originale di riferimento in una situazione in cui, come si è detto, il rapporto tra letteratura e lingua parlata ha subito ormai un ‘corto-circuito’. Si tratta dunque di una procedura d’eccezione che richiama in un certo senso il metodo filologico. I testi infatti, specie se usciti dalla letteratura tardo ottocentesca – come nel caso dei racconti di Sholem Aleykhem – obbligano spesso a un’autentica microesegesi per decodificare parole ed espressioni idiomatiche. Questo tipo di indagine, che si concentra il più delle volte attorno ad espressioni e costruzioni particolari, necessita di una disponibilità ampia di saperi. Quanto più siamo lontani dalla lingua parlata, tanto maggiore è la quantità e la qualità di competenze che è indispensabile convocare per compensare questa distanza. Competenze innanzitutto di tipo linguistico: il tedesco certo, ma anche l’ebraico e in particolare l’ebraico biblico, oltre ovviamente alle lingue slave. Ma per ovviare a un certo numero di difficoltà di interpretazione, decodificazione o traduzione è utile anche poter accedere ad altre lingue in cui lo stesso testo è stato tradotto, per un indispensabile lavoro di collazione. È noto ad esempio come in certi casi sia stato l’autore stesso a tradurre una sua opera dallo yiddish in altra lingua, una volta trovatosi a operare in una realtà molto diversa da quella in cui il libro era stato concepito e prodotto. In casi del genere, ci troviamo a disporre di due versioni d’autore dello stesso testo che spesso non solo non coincidono, ma anche possono divergere. Il caso più conosciuto è quello di Isaac Bashevis Singer che, una volta emigrato negli Stati Uniti, inizia una delicata operazione editoriale, autotraducendo, con la collaborazione di alcuni esperti, i suoi romanzi dallo yiddish all’inglese, ma nello stesso tempo espurgandoli e modificandoli per renderli più accessibili a un pubblico più vasto e ormai molto diverso da quello cui erano originariamente rivolti. Operazioni di questo tipo sottolineano non solo la necessità, nel caso dello yiddish, di adattare un linguaggio e una cultura a un pubblico in grado di condividerli ormai solo parzialmente, ma anche l’intraducibilità stessa di alcune forme, locuzioni e espressioni tipiche. I testi americani di Singer sono spesso ben diversi dall’originale: filtrati e rimaneggiati nella forma, come pure talvolta nella sostanza, per adeguarsi a un pubblico più largo e essenzialmente americano. Questa operazione conferma la presenza nello yiddish di elementi che, se non analizzati, interpretati e riadattati, rischiano di rivelarsi improponibili in altra lingua, specie per quanto riguarda le forme idiomatiche di cui lo yiddish trabocca. Anche di fronte a questo tipo di asperità del testo è possibile rispondere solo a condizione di potenziare e estendere l’arco delle competenze: non più esclusivamente in campo linguistico, ma anche etnologico. La letteratura yiddish incorpora infatti sistematicamente richiami e allusioni a usi e costumi di una collettività ben connotata che produce senza sosta un suo lessico – familiare o comunitario – che va pazientemente decifrato, ricostruito e interpretato. Si tenga conto per giunta che la letteratura yiddish, specie per quanto riguarda alcuni dei suoi principali autori, è in continua relazione con la lingua parlata e con un sistema di riferimenti tipico del linguaggio popolare. Così, leggere insieme nell’ambito di un circolo di lettura, grazie appunto alla somma dei diversi contributi specifici, consente di dilatare le potenzialità ermeneutiche in vista della traduzione. Questo approccio collettivo e in un certo senso amatoriale ci ha concesso inoltre di stabilire con il testo un rapporto molto diverso rispetto a quello consueto del traduttore professionale. Dilatando i tempi di lettura e di analisi, senza inizialmente lo stimolo di una committenza, si è creata una felice condizione per cui è stato possibile tradurre semplicemente per il piacere di farlo. Una tale opportunità ha reso il nostro lavoro più simile all’esercizio filologico che non alla traduzione tipica. Il fatto di poter dedicare all’occorrenza un tempo illimitato alla comprensione di alcune frasi o espressioni è un lusso appunto che può concedersi la filologia, esente da ogni riscontro o tornaconto di mercato. Ma dilatare i tempi a disposizione consente anche una qualità di lettura molto diversa, una lettura che d’abitudine non viene rivolta alla prosa e che ha il potere di far emergere dettagli anche minimi e pur significativi, come accade a chi guarda un quadro con la lente di ingrandimento. Una tale procedura, possibile certo solo per opere brevi, consente di entrare nel testo in maniera quasi esegetica e di appropriarsene a un livello che nessun lettore ordinario riesce abitualmente a fare. Questo sforzo, rivolto in prima istanza a tradurre collettivamente e essenzialmente per il gusto di farlo, oltre a consentirci di moltiplicare le competenze e di dilatare i tempi, ha caratterizzato il nostro lavoro da un altro punto di vista: ha consentito l’incontro di sensibilità individuali diverse attorno a una lingua ricca di una forte carica emozionale. Proprio a causa del suo statuto di lingua annientata, lo yiddish implica infatti per sua natura un coinvolgimento emotivo del tutto particolare e consente, da questo punto di vista, meno ancora di altre lingue, una posizione di neutralità. Il vantaggio che si ricava da un approccio collettivo, dalla convergenza cioè di sensibilità diverse e complementari, non è puramente casuale, ma si misura soprattutto nella condivisione di responsabilità rispetto ad alcune scelte di traduzione. Il multilinguismo che emerge con forza, come si è visto, in ogni testo yiddish, non può essere rimosso senza snaturarne in qualche misura il senso. Il testo rischia però, senza un adattamento, di essere impresentabile e inintelligibile a un pubblico che lo legge in traduzione. Che cosa quindi salvare e che cosa invece sacrificare rispetto all’originale? Tradurre dallo yiddish obbliga molto più che in ogni altra lingua a un continuo, sofferto lavoro di compromesso su questo piano: l’incontro di sensibilità diverse può invece rendere questo compromesso in parte meno arduo. Ciò è vero a maggior ragione se si tiene conto del carattere un po’ ‘sacrale’ di una lingua morta, che in quanto tale non può più protestare contro gli errori dei suoi traduttori. Come ha opportunamente ricordato Rachel Ertel, in un libro dedicato di recente a questo argomento2, lo statuto stesso di sacralità che circonda ormai lo yiddish presso i suoi cultori, e la conseguente reverenza che tale sacralizzazione inevitabilmente comporta, può rischiare in molti casi di paralizzare il traduttore, ridotto in un certo senso al ruolo di conservatore di icone. Nel nostro impegno comune, invece, abbiamo scoperto l’importanza di un costante e appassionato dibattito a più voci, attorno ad ogni frase da tradurre; è questo dibattito infatti che ci ha consentito di creare tra noi quella che potremmo definire una sensibilità media condivisa, in grado di rendere i tagli o i rimaneggiamenti meno arbitrari, meno dolorosi e più ragionati. Tale dibattito è stato guidato dalla consapevolezza comune della responsabilità inerente al compito di rendere questa letteratura accessibile e comprensibile a un largo pubblico, prevenendo tuttavia la cesoia necessariamente più affrettata e burocratica dell’editore. Quanto al piano propriamente emotivo cui si alludeva – come ha osservato Rachel Ertel in un capitolo molto bello del suo libro – tradurre lo yiddish comporta una scissione implicita tra due lingue, quella della morte e quella della vita: tra queste due lingue, l’asimmetria è assoluta. Chi traduce dallo yiddish si aggira appunto tra vita e morte e il suo è anche e soprattutto un paziente lavoro di pietas verso ciò che ormai non c’è più. L’atto di tradurre dallo yiddish – scrive sempre Rachel Ertel – ha di unico il fatto che esso si confonde con la celebrazione di un lutto e con un atto di testimonianza, testimonianza dell’Annientamento3; il traduttore viene quindi a trovarsi al cospetto della lingua annientata ovverosia, potremmo anche dire per allusione, della lingua ‘non salvata’. Da questo punto di vista la lettura e il lavoro corale contribuiscono a ricomporre parzialmente questa scissione, grazie alla tensione a ricreare fra noi un’atmosfera yiddish ormai estinta, che risulta però funzionale all’atto stesso del tradurre. Ciò significa poter convivere con quanto resta di una lingua che ci è stata brutalmente sottratta, con maggiore serenità e, di conseguenza, lavorare sui testi con maggiore disinvoltura. Traducendo insieme – penso di poter dire anche a nome dei miei compagni di lettura e di avventura – il silenzio assordante dei morti può tornare a essere voce: il testo scritto ritrova nella lettura collettiva e nel commento i suoni che gli sono stati strappati. NOTE 1 S. Aleychem, Un consiglio avveduto, a cura di A. L. Callow (trad. di F. Bezza, H. Burstin, A.L. Callow), Milano, Adelphi 2003. 2 R. Ertel, Brasier de mots, Paris, Liana Levi 2003. 3 Ivi, p. 243. ¬ top of page |
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