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JOSÉ ÁNGEL VALENTE A QUATTRO MANI:
I FRAMMENTI VERSO LA LINGUA
di Julio Pérez-Ugena

Je viens avant la rumeur des fontaines,
au final du tailleur de pierre.
René Char

L’idea di tradurre insieme con Gianni Scalia Fragmentos de un libro futuro per i Quaderni de "In forma di parole " è nata dopo aver tradotto, sempre a quattro mani, alcune poesie di Valente per il quarto numero del 1999 della rivista, un monografico dedicato agli angeli.
Quando abbiamo letto il libro, volutamente postumo (l’autore è morto il 18 luglio del 2000, e l’edizione spagnola è apparsa nel dicembre di quell’anno)1, ci ha colpito, oltre alla bellezza di alcune poesie, il ruolo centrale che in esso ricopriva la traduzione: fin nel titolo (se pensiamo che una teoria del frammento spiegherebbe, più che una teoria della replica o dell’equivalenza, la natura di quel particolare linguaggio, strappato alla propria matrice, che è proprio della traduzione) l’opera rimanda a essa. Ancora nel titolo è esposta la condizione di ‘resto’ delle poesie che la raccolta contiene. Condizione questa di ogni poesia, ma che forse è più facilmente percepibile nella poesia della poesia, nella poesia tradotta, che entra in una nuova lingua privata non solo delle parole originali in cui è stata scritta, ma anche del fondo della propria lingua e della propria cultura, con gli echi e i silenzi relativi2.
Diario-itinerario, questo libro comprende anche delle citazioni e delle traduzioni che più che affiancare il testo, ne fanno parte – come in altri libri suoi – collocati sullo stesso piano delle poesie. L’irradiazione di questi brani all’interno di una nuova opera è in grado di donarle originalità, ma solo a patto che gli autori scompaiano, che si istauri l’anonimato nella poesia anche nell’esperienza più strettamente biografica. Così troviamo delle versioni di Li Po, di Wang Wei, di Takuboku3, oltre a dei testi scritti dallo stesso Valente che figurano come versioni di un anonimo:

CITTÀ del sud annegata nella pioggia.

Angeli di tristezza
calano i sipari.
Nessuno.
Il nulla.
Improvviso nell’ombra il ricordo acceso dei tuoi seni.

(Anonimo, versione)

L’anonimato a vantaggio della poesia e della lingua è coerente con la scelta di lasciare che sia la morte a mettere la parola fine, come atto supremo della creazione, ultimo anello della catena delle prestazioni creative4. E la trascendenza della morte personale nell’opera o nella memoria è anche evocata nelle elegie di alcuni numi tutelari di Valente: così, nel caso di quella dedicata a Paul Celan e alla moglie Giselle, nella fusione con il loro destino e la loro parola, scrive: "Il giorno in cui questo gioco senza fine con le parole finirà saremo morti" (Memoria di Paul Celan, nella morte di Giselle Celan-Lestrange, fine del 1991). E in quella dedicata a Federico García Lorca scrive: "–Lo uccisero, diceva la donna, ma qui uccisero anche molti altri, tanti, quelli che adesso nessuno più ricorda. –Lui non è più lui, le dissi. È il nome che prende la memoria, non estinguibile, di tutti" (Víznar, 1988). E, infine, nell’elegia a Giordano Bruno, leggiamo: "Ma tu ancora ardi luminoso" (Campo dei Fiori, 1600). È chiaro che non si allude a una soppravvivenza dell’opera come monumento, ma come frammento nella composizione di una lingua più alta, non nostra: il poeta serve il linguaggio, assiste alla generazione dei frammenti e del libro. Tornando al titolo, certamente ispirato – come alcune poesie e l’intero sottofondo dell’opera – al Livre di Mallarmé e a Le livre à venir di 5, non credo che sia possibile definire se è il libro che forma i frammenti (Valente era ammirato della credenza ebraica secondo la quale Dio creò il mondo leggendo o guardando la Torà), oppure se i frammenti generano il libro, come il senso comune consiglierebbe, soprattutto tenendo conto dell’aggettivo "futuro" (che non deve essere interpretato come una indicazione del tempo lineare, ma come un’apertura intrinseca al tempo della poesia)6. La generazione, comunque, non sarebbe conclusa dalla scrittura, e a mio avviso dovrebbe portare nel desiderio dell’autore (dai contorni sempre più ambigui) verso la lingua pura, e cioè verso la possibilità di contenere la morte, di stare anche con la morte e i morti (non solo di essere relativamente alla morte)7. Questo desiderio appare in una lingua volta verso il silenzio, verso una materia non signata, depositaria della memoria universale ("lo spirito è la metafora dell’infinità della materia", ha scritto Valente) nella quale potremmo finalmente ‘stare’, in una totale attualità, liberi dalla lacerazione dell’‘essere’, del senso e del tempo, in uno spazio anteriore a quello frammentato dalla parola umana.
Valente non distingueva nella sua scrittura, come altri poeti della modernità, tra prosa e poesia. La lingua di Fragmentos de un libro futuro, disadorna, bianca, esposta per accogliere in molte poesie i morti (il figlio Antonio,i morti delle guerre, dei massacri, dei campi di sterminio, poeti e filosofi), è esposta anche per accogliere dio, la sua memoria o la sua assenza, o gli uomini vivi:

SOLO la solitudine risuona lunga
uguale a coda o vento.
Vengono
dal vuoto le parole,
ci possiedono nudi nel loro centro arso
e in esso ci disgenerano
per farci nascere.
Ascolta
come nella solitudine sveglia,
inudibile, la pura radice dell’aria.

(Seconda ode alla solitudine, frammento)

Come nella traduzione, momento "disgeneratore" e momento "generatore" del linguaggio si coappartengono. La lingua ci possiede, ci distrugge e ci fa nascere, infinitamente aperta, da questo punto zero (non a caso è questo il titolo che ha dato Valente a un ciclo della sua poesia)8, da questa pura radice dell’aria.
La radice dichiarata del libro che abbiamo tradotto è una poesia di un altro pubblicato nel 1972, dal titolo Treinta y siete fragmentos:

SEPPE,
dopo molto tempo nell’attesa metodica
di chi aspetta un giorno
il secco colpo del caso,
che solo nella sua omissione o nel suo vuoto
l’ultimo frammento sarebbe arrivato a esistere.

(Radice di Frammenti di un libro futuro.
Frammento XXXVII di Trentasette frammenti)

In questa poesia, contro ogni logica, come ha osservato José Manuel Cuesta, "lui" e il frammento designano la stessa entità: solo là, nell’omissione e nel vuoto che formano il frammento, questo (o quello) sarà arrivato e arriverà a esistere come cosa ultima. Cuesta sostiene che l’io non può costituirsi in soggetto elegiaco perché il proprio duello è dapprima la sua spossessione di sé o la sua morte impossibile. Colui al quale e del quale risponde il linguaggio elegiaco della poesia è altro da un io, senza nome proprio, senza morte propria: tu. Nel tempo della sua omissione o del suo vuoto, un libro futuro è la poesia che sarà scritta prima e sarà stata scritta dopo l’ultimo frammento. E nel tempo dell’ultimo frammento, la presenza della poesia è quella di un futuro anteriore che avrà saputo chi dice di aver saputo qualcosa. Tu. Valente, chi scrive, lui stesso, chiunque e nessuno seppe. La sua assenza continua, venuta e da venire. La sua ultima poesia non sarà stata scritta. Ma resta quello che dicono e non dicono le loro parole. La radice del frammento9.
Credo comunque che questa poesia in questo contesto alluda a un’altra esistenza, già senza memoria propria, nell’assenza di ogni segno. "Sólo en la ausencia de todo signo / se posa el dios", ha scritto Valente in una poesia di Al dios del lugar10. La parola frammentaria è legata alla nostra mortalità11, non possiamo parlare la vera lingua o la lingua pura. Nel nono dei dieci asserti astorici sulla Qabbalah, Scholem dice: "Le totalità sono tramandabili solo in modo occulto. Il nome di Dio può essere invocato, ma non pronunciato. Infatti solo ciò che vi è di frammentario in esso rende il linguaggio predicabile. La ‘vera’ lingua non può essere parlata, cosí come l’assolutamente concreto non può venire compiuto"12.
Sempre in una lingua umana, frammentaria, l’ultima poesia del nostro libro recita:

CIMA del canto.
L’usignolo e te
già siete uno.

(Anonimo: versione)

Questa poesia, secondo Andrés Sánchez Robayna13, è la versione di un haiku anonimo. Nelle antologie di haiku che ho consultato non l’ho trovato. Sia che si tratti di un haiku anonimo in una versione di Valente, o di un anonimo scritto da Valente come versione, chiude la sua opera riuscendo, come aveva desiderato, a dire il massimo con il minimo dei mezzi, e anche a far ascoltare, prima che la parola, il silenzio. Molte caratteristiche di questo libro, come il valore dell’anonimia, il distacco al di là dell’oggetto e del soggetto, la sospensione temporale, la sobrietà espressiva, il silenzio, l’incompletezza, la presenza di una stagione (nel nostro caso l’autunno), sono anche caratteristiche tradizionali degli haiku.
Il canto degli uccelli è stato un argomento trattato da Valente a più riprese in saggi come Le condizioni dell’uccello solitario, o Sulla lingua degli uccelli, dove tra l’altro si legge: "si ricordi che forme poetiche come l’haiku hanno, secondo Barthes, come finalità sostanziale non generare o provocare linguaggio, ma sospenderlo"14. Nella poesia, scrive Valente, "si compie la nostalgia della dissoluzione della forma, dove il linguaggio rimane sospeso (un no sé qué que quedan balbuciendo), fermo o abbagliato da quello che in esso si manifesta, e dove, insieme al linguaggio, entrano nella sua dissoluzione o nella sua fana le nozioni di spazio e di tempo o la nozione del sé stesso o dell’io". La lingua poetica – conclude – è stata la lingua originaria del sacro in tutte le tradizioni, e "la parola poetica corrisponderebbe, nelle forme di esperienza estrema [...] a quello che nel Corano si chiama la lingua degli uccelli. ‘E Salomone fu l’erede di Davide e disse: Oh uomini, ci è stata insegnata la lingua degli uccelli e tutte le grazie si sono sparse su di noi’. Lingua nella quale è stata operata la distruzione del senso e la sospensione del tempo: quella dell’uccello inestinguibile della cantiga CIII di Alfonso X il saggio"15, nella quale un monaco che ascolta il suo canto rimane, incurante di tutto, a sentirlo per 300 anni pensando che sia trascorso un momento. Pur nella consapevolezza che la nostra specie non troverà mai il suo regno, c’è una tensione messianica nella poesia di Valente, che credo sia visibile in tante poesie. L’ultima non dice certo la propria morte e possiamo leggerla come la testimonianza di chi crede di aver raggiunto la vetta dell’arte poetica quasi al termine della propria agonia, in una mimesis delle esperienze e delle teorie mistiche della lingua che tanto ha amato. Valente non è stato un mistico. Tuttavia, penso che nella specularità alla "Radice di Fragmentos de un libro futuro" esprima il desiderio per lui-non-più-lui, e quindi per chiunque, per la sua poesia-non-più-sua, di accedere alla lingua pura, dall’ultimo frammento che noi abbiamo potuto leggere e tradurre solamente come tale.

NOTE

1 J. Á. Valente, Fragmentos de un libro futuro, Barcelona, Galaxia Gutemberg-Círculo de Lectores 2000. La nostra traduzione sarà pubblicata entro la fine del 2004 a cura dell’Associazione "In forma di parole" di Bologna. Alcune poesie erano state pubblicate in un volume dal significativo titolo Nadie (Nessuno) nel 1996, e altre in diverse riviste e giornali. Ringrazio Antonella Anedda, Juan Barja, che mi ha permesso di leggere le sue riflessioni inedite sul libro, Julián Jiménez Heffernan, Fabio Scotto, e, ovviamente, Gianni Scalia. Nessuno di loro ha letto la versione finale dell’articolo. I possibili errori, quindi, sono solo miei.
2 Vedi A. Duque Amusco, La muralla oblicua (poesía y traducción), in Franco Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Guerini e Associati, Milano 1989, p. 263. Vedi anche Walter Benjamin, Il compito del traduttore, in Id., Angelus novus, p. 49, dal quale è stato certamente ispirato Duque Amusco.
3 Valente non conosceva il giapponese né il cinese. Ignoro il processo di queste versioni. Molti anni prima aveva pubblicato una versione di alcune poesie di Kavafis, senza conoscere il greco, consultando delle traduzioni e commenti in altre lingue e facendosi aiutare da Elena Vidal e da un’altra persona.
4 Così si esprime Mandel’štam a proposito di Skriabin in un frammento su "Puschkin e Skriabin" scritto nel 1915. Citato da G. Bevilacqua nell’introduzione a Paul Celan, La verità della poesia, Torino, Einaudi 1993, p. XXIX.
5 Vedi M. Blanchot, Il libro a venire, Torino, Einaudi 1965, pp. 224-244.
6 Due citazioni precedono Fragmentos..., una delle quali, di Juan Ramón Jiménez, recita: "Dio del venire, ti sento tra le mie mani". In questo libro Valente riprende temi e motivi di tutta la sua opera, evoca il figlio morto, medita sull’assenza, in una continua rammemorazione. Tanquam centrum circuli, una poesia che narra una discesa alla ricerca di dio, in minuscolo, inizia "La memoria ci apre luminosi / corridoi d’ombra". Credo che la dimensione futura possa interpretarsi, analogamente a quella dell’ebraismo, ma indipendente da ogni dottrina, come la dimensione in cui "ogni secondo [è] la piccola porta attraverso la quale [può] entrare il messia". Vedi W. Benjamin, Sul concetto di storia, trad. it. di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi 1997, pp. 57 e 160-1.
7 "Forse – ha scritto Antonella Anedda – noi non esistiamo che per imparare l’alfabeto dei morti e per raggiungerli non appena saremo in grado di parlare la loro lingua. Forse chi è scomparso è solo assorto e basterebbe una parola non difficile, ma ancora sconosciuta, per farlo voltare verso di noi": A. Anedda, Cosa sono gli anni< em>, Roma, Fazi 1997, citata da V. Bonito, La culla aldilà. Su Giovanni Pascoli, in "Versodove" 11, Bologna 2000, p. 40.
8 Vedi J. Á. Valente, Obra poética, Madrid, Alianza Editorial 1999, I vol.
9 J. M. Cuesta Abad, La raíz del fragmento, in "La alegría de los naufragios" 5 e 6, Madrid 2001, pp. 27-32.
10 J. A. Valente, Al dios del lugar, in Id., Material memoria, Alianza Editorial, Madrid 1995, p. 192.
11 Vedi M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi 1977, pp. 213 e ss.
12 Vedi W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 310.
13 A. Sánchez Robayna, Premio funerario a un diario de vida, "ABC", Madrid, 15.10.2001.
14 J. Á. Valente, Sobre la lengua de los pájaros, in Id., Variaciones sobre el pájaro y la red, Madrid, Tusquets 1991, p. 242.
15 Ivi, pp. 241-3.

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