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SVITARSI LA TESTA
di Maria Sebregondi

 

Vorrei iniziare, in barba a ogni regola, con un riferimento del tutto personale. Contravvenire alla norma elementare di non tediare gli astanti con i fatti propri mi pare non del tutto arbitrario in questo contesto di omaggio a Yves Bonnefoy e di trasmissione di esperienze dal vivo a un giovane uditorio. La mia presenza qui oggi fra i suoi traduttori poggia, infatti, su una sorta di paradosso: se il mio contributo è estremamente esiguo e dunque del tutto marginale rispetto all’opera di Yves Bonnefoy, né commensurabile con l’impegno dei traduttori qui presenti – impegnati a questo riguardo in fatiche ben più significative della mia – esso è invece centrale e fortemente generativo nella mia personale esperienza e nel mio percorso di formazione – non solo come traduttrice letteraria. Contributo esiguo e marginale il mio, avendo tradotto soltanto alcuni capitoli di L’Arrière-pays1 e il breve e particolarissimo Traité du pianiste2. Centrale e fortemente generativo perché l’incontro con Bonnefoy ha segnato incisivamente le mie scelte, in quello strano miscuglio di casi e destini di cui è fatta la vita di ciascuno. Ho incontrato l’opera di Yves Bonnefoy nei primi anni Ottanta e ne sono rimasta folgorata, in particolare da L’Arrière-pays: non ho potuto resistere alla tentazione di sentire come potesse risuonare nella mia lingua quella prosa che subito mi parve straordinaria. Con l’improntitudine della giovinezza, spedii il primo capitolo tradotto a Yves Bonnefoy. E siccome esistono i giorni fortunati, in uno di questi mi arriva una letterina luminosa, che so ancora a memoria, piena di generosi apprezzamenti e preziosi consigli editoriali: il volume non poteva essere da me tradotto integralmente a causa di un impegno, non solo di ordine formale, con Diana Grange-Fiori, fino a quel momento sua unica traduttrice in Italia, ma venivo incoraggiata a pubblicarne un capitolo su rivista, cosa che poi – dopo diverso tempo – avvenne. Quando, passato qualche anno, parve crearsi un’occasione editoriale, Bonnefoy me ne informò prontamente e si adoperò perché mi venisse affidato l’incarico della traduzione. Contrattempi, pastoie, fallimenti di case editrici resero impossibile allora quel progetto e la traduzione di L’Arrière-pays ha continuato il suo erratico percorso mentre io imboccavo altri bivii, incamminandomi per altre strade. Racconto tutto questo per testimoniare dello speciale rapporto che Yves Bonnefoy intrattiene con i suoi traduttori, pur marginali come me: un rapporto fatto di attenzione, cura, straordinaria sensibilità, che si situa all’esatto opposto di quanto accade – salvo eccezioni, naturalmente – nel rapporto con gli editori. Ma anche la complessa vicenda editoriale di questo testo, rimasto a tutt’oggi sigillato alla fruizione italiana, mi pare contenga una sua morale: spesso, il risultato più importante e concreto di una passione e di una fatica è la fortuna di un incontro, la creazione di una rete di parentele e di affetti – come quella che ci unisce qui oggi – che danno continuità e senso all’esercizio del sapere, mentre l’agognata pubblicazione ne è semmai soltanto il prodotto secondario e accidentale. Nel mio percorso formativo e professionale, l’incontro con Yves Bonnefoy segna curiosamente una serie di "prime volte", occupa il posto di ciò che Bobi Bazlen chiamava la primavoltità (Bazlen veramente si riferiva così all’invenzione, alla novità creativa, ma la parola è troppo bella per non essere estesa anche ad altre accezioni): la prima volta di una traduzione letteraria, la prima volta di una recensione3, la prima volta di una scrittura in rapporto all’immagine4, la prima di alcune di quelle esperienze che sono poi diventate – percorrendo strade anche molto lontane dalla poetica di Bonnefoy – delle costanti della mia attività professionale: traduzione, pubblicistica, scrittura legata all’arte e all’architettura. Considero un onore e una grande fortuna che ognuno di questi piccoli battesimi, del tutto irrilevanti se non per me, sia avvenuto nel nome di Bonnefoy: la misteriosa geometria di tutto ciò non smette di sorprendermi e mi pare contenga utili spunti per chi sta iniziando il proprio percorso di studioso.

Del sacro fuoco con cui mi tuffai nella traduzione di L’Arrière-pays ho detto, quanto alle gioie e ai dolori connessi, ci sono oggi contributi ben più importanti e attuali (eh sì, le traduzioni invecchiano) del mio. Mi fermo quindi sulla soglia di questo testo – le soglie, si sa, occupano un posto particolare nell’opera di Bonnefoy, ingannano e accendono ad un tempo, mandano segnali fosforescenti. Parlerò dunque solo del titolo – l’avventura del traduttore comincia da qui – per un piccolo esercizio linguistico sensoriale: L’Arrière-pays, una sola parola (composta e con l’articolo), quattro sillabe, dodici lettere e tre segni grafici (un apostrofo, un accento grave, un trattino). Due le soluzioni proposte dal dizionario per arrière-pays: retroterra e entroterra. La prima, la scarto subito: retroterra, se pur morfologicamente più vicino, è semanticamente più lontano: sul significato letterale prevale quello metaforico che lo avvicina, a mio avviso, più all’inglese background che al francese arrière-pays. La seconda, mi pare di gran lunga migliore: semanticamente più affine, presenta il vantaggio di conservare lo stesso numero di sillabe (Il retroterra ne comporterebbe una in più), l’apostrofo e l’arioso inizio vocalico. Ma, pur in una soluzione semplice (e, se non sbaglio, adottata anche dagli altri traduttori), vale la pena di soffermarsi per coglierne (e goderne – sì, tradurre è un piacere prolungato) le sfumature, le modificazioni che comporta, le perdite, gli acquisti.
Confrontiamo queste due parole: arrière-pays, entroterra, due quadrisillabi accomunati per sonorità solo da quell’accento – diversamente marcato – sulla lunga sillaba èr. Per il resto, abbastanza diverse dal punto di vista della percezione che qualcuno chiama audiotattile e che io preferisco chiamare sinestesica (oltre all’udito e al tatto, anche la vista è coinvolta – sia per l’aspetto figurale della parola, sia per cromoestesia, e perfino il gusto non sfugge a implicazioni, non solo di ordine evocativo): arrière-pays è, almeno alla mia percezione, parola liquida e chiara, con le r uvulari che scorrono sulle vocali a-i-ee, ostacolate appena dalla p, per fermarsi infine sul ricciolo della semiconsonante y; entroterra è parola densa e scura, allitterata al suo interno da quel rincorrersi consonantico di t e di r e incardinate melodicamente sul quartetto vocalico e-o-e-a. Sul piano semantico, nel passaggio da arrière a entro avvengono cambiamenti ancor più importanti: arrière rimanda a un davanti-dietro spaziotemporale, entro a un esterno-interno; il polisemico pays è principalmente una regione, un luogo, l’altrettanto polisemico terra è innanzitutto un elemento primario, come l’acqua, l’aria, il fuoco; arrière-pays è una geografia, una proiezione, entroterra una topologia, una tasca. E ancora, arrière-pays rimanda a una dimensione orizzontale (di orizzonte dietro le spalle), pertiene all’ordine visivo, dello sguardo, entroterra rimanda piuttosto a una dimensione verticale, di profondità avvolgente, pertiene al tattile; l’arrière-pays è un altrove lontano, tessuto di nostalgia, l’entroterra è un altrove primordiale, tessuto d’inconscio. Si tratta ovviamente di differenze tendenziali, volutamente esasperate solo per mettere in evidenza quanto diverso sia, nel passaggio da una lingua a un’altra, il cono d’ombra, la cassa armonica che ogni corrispettivo linguistico porta con sé. E questo non già per aumentare la disperazione del traduttore, quanto piuttosto per accrescerne il piacere: nella traduzione due testi diversi mettono magicamente in comune le rispettive scatole nere, attivando una straordinaria potenza orchestrale.
Con questo stesso tipo di approccio avventuroso ho affrontato molti anni più tardi un piccolo testo giovanile di Bonnefoy, il Traité du pianiste: una partitura in dieci quadri, composto ciascuno da cinque brevi movimenti. È il testo che sigla il distacco di Bonnefoy dall’esperienza surrealista e la fine dell’interesse per la scrittura automatica. La sfida, nel tradurre questo poemetto-pièce dove uno stralunato pianista svolge ripetutamente la sua (im)mortale performance su una scena mutevole, animata da fantasmi grotteschi e grandguignolesche martellate, è stata più che mai quella di riuscire a resistere alla tentazione esplicativa cui pur spingevano le oscurità del caso. Respingere gli assalti della razionalità, affidarsi alla corrente buia delle libere associazioni, condividerla nuotandoci dentro come sotto la pancia di un delfino, lasciandone il più possibile intatto il mistero. Tenere aperto il molteplice, lasciare la lingua insatura, vegliando sulle ambiguità delle concordanze. È un’esperienza simile a quella che ho fatto ancor più recentemente nel tradurre il "rosario ubriaco" della Poésie ron-ron di Francis Picabia5. Del risultato non so, ma di certo l’avventura linguistica surrealista trascina il traduttore in una danza che, nonostante i suoi limiti, non smette di affascinare: costringe a frequentare come non mai le ombre della propria lingua, abitandola – come dice Pontalis – da esiliati6. "Abbiamo la testa rotonda per permettere al pensiero di cambiare direzione" dice Picabia, mentre il pianista di Bonnefoy questa testa addirittura se la svita facendo fare al cervello e alla lingua diverse capriole: da quel momento in poi, dopo aver obbligato il "doppio" nascosto e inquietante a mostrarsi, Bonnefoy decide che il compito della sua scrittura sarà quello di "dissipare la vertigine, separare nelle parole ombra e luce, convincere i fantasmi a non irrigidirsi nel loro rifiuto della vita. Ricominciare contro la notte la rivoluzione che è stata, lungo la storia, l’ostinazione costante dei poeti". E aggiunge: "Qualche mese dopo presi un esemplare del Trattato del pianista, e senza sapere il senso del mio agire (ma il gesto mi colpì e mi restò nella memoria), avvicinando un fiammifero alla carta, feci annerire fino a bucarsi in qualche punto la copertina azzurra. Guardai i bordi di quei buchi allargarsi, la cenere nera sopraffare il colore poi spegnersi. Forse pensavo allora che quell’opuscolo dovesse ad un tempo disfarsi e mantenersi nella scrittura: da lei aspettavo che mi restituisse un giorno le mie personali intimations of immortality – quella speranza dei miei primi anni che vivere e parlare abbiano un senso"7.

NOTE
1 Il primo capitolo fu pubblicato nel 1985 dalla rivista "Arsenale ", diretta da Gianfranco Palmery, numero 3-4, Il Labirinto.
2 Trattato del pianista, Palermo, Rosellina Archinto 2000.
3 In occasione dell’edizione italiana di Pierre écrite.
4 Sul baldacchino berniniano in San Pietro, quel "polo della presenza " narrato da Bonnefoy in Rome 1630.
5 In Picabia, a cura di Elio Grazioli, "Riga", numero 22, Marcos y Marcos 2003.
6 J-B. Pontalis, Encore un métier impossible, in Perdre de vue, Paris, Gallimard 1988.
7 Postfazione, in Trattato del pianista, cit.

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