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PHILIP LARKIN, Collected Poems (ed. by A. Thwaite), The Marvell Press and Faber and Faber, London 2003, £ 10.99.
PHILIP LARKIN, Finestre alte (a.c. di E. Testa), Torino, Einaudi 2002, € 10,00. PHILIP LARKIN, Turbamenti a Willow Gables (a.c. di M. D’Amico), Roma, Nottempo 2003, € 13,00.

Dopo anni in cui è stata fortemente negletta, la poesia di Philip Larkin sta lentamente tornando alla ribalta, e non solo nei paesi anglosassoni, ma anche in Italia, come ora avrò occasione di spiegare. In Inghilterra è uscita, l’anno scorso, una nuova edizione dei Collected Poems che, pur essendo anch’essa curata da Anthony Thwaite, si differenzia dall’altra in quanto è molto più ridotta, contenendo unicamente le quattro raccolte ‘ufficiali’; per cui vengono, così, a mancare molti dei suoi componimenti giovanili (come la struggente elegia An April Sunday Brings the Snow) oppure quelli della maturità che non furono mai raccolti in volume (come l’indispensabile The Winter Palace). Tutto ciò vuol dire che la prossima generazione di lettori lo conoscerà, per forza, in modo piuttosto obliquo e parziale.
L’ultima volta che trattai di Larkin sulle pagine di questa rivista, nel 2001, egli era ormai diventato poco più di un «acquired taste», ovvero ‘un gusto coltivato’, e ben protetto, da quei pochi (come Seamus Heaney e Derek Walcott, all’estero, e Gilberto Sacerdoti e Franco Buffoni, in Italia), che avevano davvero capito tanto la grandiosità quanto la profondità che si celavano dietro le molteplici, ma fragili, maschere assunte da questo poeta (ritenuto, dai più, invece, come un provinciale isolato, e per giunta mortalmente bieco), e che lo hanno difeso da quell’orrida ondata fatta di politically correct al cubo che, dopo la sua morte, l’aveva investito, facendone, nel Regno Unito, la sua vittima più eccellente. Sono sicuro che se fosse vivo, lui si sarebbe davvero estasiato del fatto di esser diventato il primo poét maudit inglese dai lontani tempi – vittoriani! – di Algernon Swinburne. I suoi critici più agguerriti non avevano affatto capito che Larkin, più che essere misogino, era misantropo e che, più di tutti, non accettava se stesso, e quel che era diventato, avendo svenduto i sogni della sua gioventù (lo scrivere romanzi sotto il benevolo sole del Mediterraneo) per quel proverbiale ‘piatto di lenticchie’ (da consumare, preferibilmente, alla mensa di qualche sperduta biblioteca universitaria del Nord più brumoso).
Questo è l’argomento delle sue poesie più laceranti: come Dockery and Son (dalla raccolta Le nozze di Pentecoste, 1964), dove riflette sulla natura attanagliante delle sue nevrosi; mentre nella raccolta Finestre alte (risalente al 1974; e che, finalmente, è stata tradotta in italiano) tale argomento viene ripreso più volte: come, ad esempio, in Condoglianze in bianco maggiore, dove il colore bianco del gin and tonic diventa indice di quella vigliaccheria che è l’assenza di joie de vivre; oppure in Tristi passi, dove ammette, osservando la notte stellata, alle quattro della mattina, che: «la semplice / e vasta unicità di quello sguardo / sono un ricordo della forza e del dolore / della gioventù; non potrà tornare, / ma in qualche parte resta, per gli altri, intatta». Oppure in Vers de Société, anch’essa dall’ambientazione notturna, dove ribadisce che «soltanto i giovani possono essere liberi e soli. / Ormai il tempo è poco per la compagnia e stare seduti accanto a una lampada sempre più spesso / porta non la pace, ma altre cose. / Al di là della luce stanno rimorso e fallimento».
Ma ciò che è peggio, è che Larkin avvisava questa assenza di emozione e di calore non soltanto dentro di sé, ma, sempre di più, nel mondo circostante: ovvero, non solo avvertiva l’erosione dell’Inghilterra della sua giovinezza, ma il fatto che le tradizioni di una volta venivano sostituite dai ‘non-valori’ dell’era del consumismo e dalla totale mercificazione della vita proposta dalla società di massa, da lui prese duramente di mira già a partire dagli anni ’50 (in liriche quali The Large Cool Store). Tale tematica riaffiora anche in Finestre alte, soprattutto in componimenti quali Andare, andare («I bambini urlano e chiedono di più – / più case, più parcheggi, / più spazi per le roulottes, più denaro»); oppure in Omaggio per il governo («I nostri figli non sapranno che è un paese differente. / Adesso quello che possiamo sperare di lasciar loro è il denaro»).
Già in The Less Deceived (1955) aveva denunciato il tramonto definitivo dello spirito comunitario religioso – nella poesia Church Going – e ora, in Finestre alte, nel sonetto Venerdì notte al Royal Station Hotel, arriva a delineare la completa assenza di umanità, lì dove l’unico segno di vita viene dato dalle spettrali luci elettriche che squarciano la Notte: «cupa, la luce scende dagli alti / lampadari a grappoli sulle sedie vuote / che si fronteggiano l’un l’altra [...] / Nei corridoi deserti di scarpe le luci restano accese». Il finale di questa poesia, non a caso, ricorda quello, altrettanto apocalittico, di Dover Beach (1867) di Matthew Arnold, dove si presagiva l’avvento imminente della barbarie). Se tutto questo può far pensare ad un Larkin nostalgico e snob, ebbene, ciò non è affatto vero, perché anche in questa raccolta finale egli ripete parzialmente le lezioni che aveva appreso da Thomas Hardy verso la fine degli anni ’40:’ovvero il cercare di concentrarsi su esperienze ordinarie e familiari, per poi saperne trarre delle poesie che trascendono dal quotidiano per diventare, così, delle gnomiche riflessioni universali sulla condizione umana. È questo l’argomento principale della mia monografia – Negative Indicative: Philip Larkin in the Forties (Pisa, ETS, 2000; la prima ad essere apparsa in Italia), dove evidenzio il passaggio del Larkin giovanile e simbolista verso le sue future posizioni più minimaliste e antimoderniste, dovute, per l’appunto, al suo incontro con il canzoniere di Hardy.
In Finestre alte troviamo questo aspetto, per così dire ‘hardyano’, della sua scrittura in molte liriche, tra cui vanno annoverate Gli alberi (dove il rinnovamento annuale della Natura a Primavera è visto, però, come un preludio all’inevitabile Inverno), oppure Vecchi scemi (che è uno dei suoi massimi capolavori; e dove la vecchiaia ci viene mostrata in tutta la sua cupa disperazione). La raccolta, comunque, si conclude con l’emblematica, e sublime, L’esplosione che pur trattando di un disastro in una miniera, contiene quell’immagine finale di «uova d’allodola intatte» che racchiude in sé un messaggio di speranza.
È curioso, tuttavia, constatare come il Larkin-narratore (quello che in gioventù sognava di diventare un romanziere a tempo pieno), venga tradotto in Italia per la prima volta, non grazie ai suoi romanzi più seri e sperimentali – quali Jill (1946) o Girl in Winter (1947), i cui modelli furono Virginia Woolf e Henry Green – bensì tramite quell’opera giovanile e parodica che è Trouble at Willow Gables scritta nel 1943 (anche se è, a modo suo, un testo frizzante). Ce lo descrive Masolino D’Amico, che ha scrupolosamente curato il volume, nella Postfazione al romanzo: «nacque tutto a Oxford nel 1943, quando Larkin aveva circa ventun anni, e si presenta come opera di un’immaginaria scrittrice per ragazze, Brunette Coleman. [...] Fu questo lo spirito nel quale il giovane Larkin si calò con diabolico camaleontismo, divertendosi moltissimo [...] con lo scrivere un romanzo che rispettava tutti i luoghi comuni del genere, ma con in più una insinuante carica di malizia erotica [...]; è uno scherzo irresistibile ». La casa editrice Nottetempo promette pure di pubblicare il seguito, Michealmas Term at St. Bride’s, dove le eroine del primo romanzo, uscite dal collegio femminile, questa volta affrontano insieme l’altrettanto ardua vita universitaria. In conclusione, segnalo che, sull’onda dell’attuale revival in corso dell’opera di Larkin, dovrebbe presto uscire, entro quest’anno, su Il gallo silvestre (la bella rivista diretta da Antonio Prete), una selezione di alcune delle sue liriche giovanili più memorabili, e tutt’ora inedite in Italia, a cura di Francesco Petrocchi, che si è recentemente laureato a Siena proprio con una brillante tesi sul canzoniere larkiniano. Questo gruppo di poesie (che include le significative This was your place of birth e The Dancer), purtroppo, appartengono – come ho scritto sopra – a quella serie di componimenti che sono stati scartati dalla nuova edizione dei Collected Poems, rendendo, così, la loro traduzione italiana doppiamente preziosa.

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