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PIER LUIGI BACCHINI, Cerchi d’acqua, Milano, Garzanti 2003, pp. 118, € 9,50.

Conclusasi la stagione delle libere passeggiate di Scritture vegetali, condotte a erborare e ad appuntarsi in versi lunghi nuove scoperte e inusitati incontri, l’haiku – cerchio d’acqua che per gradi si dilata in moltitudini, ma rimane, comunque, forma chiusa – segna per Bacchini il momento del ritorno in un mondo delimitato, rientro ai giardini del verso breve (dai cui innesti talvolta germogliano con pudore classiche misure endecasillabiche), dove in perfetto rigoglio e tra olezzi sottili spuntano carnose creature dai nomi poco usati. Sophòre dai lunghi corimbi, pallide magnolie, flessili glicini, giacinti giovinetti, tumide peonie, gli emerocalli, terreni fratelli degli infernali asfòdeli, fresche e inodori, le sfere delle ortensie, i gigli, trombe dorate e lampade dei morti, la tifa, fallica spiga eretta, la tuia, tralignante cipresso che spezza le pietre dei sepolcri, quasi a farne uscire ante giudizio i corpi dei risorti... Con l’alternarsi di fioriture e lente cadute di petali avvizziti, il verziere diviene quasi un micro-«sistema solare», dove ai tramonti e ai levamenti degli astri corrispondono le cicliche fasi vegetative delle piante. Sempre la vita appare sorgere come fenice da morte: così il «rugoso, inferto, olmo» rimette le sue gemme, «vecchione» pascoliano che si rinverzica in butti novelli, così da un «gran pianto» traggono linfa i tronchi virenti del «pianoro», mentre il sole, «oltremontano, o gassoso», pietosamente scalda e consola «questa d’erbe famiglia» e di «vivi». Due note chiare e argute, a dirci, dove siamo: in un giardino d’Oriente, tra le piccole aiuole di Cio-Cio-San, la cui ramaglia ischeletrita dai mille tintinni s’intreccia, però, fino a divenire inestricabile trama, con i lillà già dipinti alla maniera di «paravento» di un luogo dannunziano: l’hortulus e le stanze solitarie di Villalilla. L’estenuante cobbola dell’usignolo dell’Innocente, che sembra raggiungere compiutezza nel sorgere del rorido Lucifero, qui si riduce a un doppio timbro musicale: «Timpano / un archetto / – poi la luna», non più che perfetto appunto di scena pucciniana. Resta da osservare lo specioso rapporto dell’essere percettivo per eccellenza, il poeta, e la realtà significata per sensi che lo circonda, motivo metapoetico di alcuni capitoli. Nel minimo sistema dell’haiku anche la scelta del titolo è fondamentale momento diegetico. Bacchini ne sfrutta tutta la posizione di rilievo ad anticipare quanto narrato nel breve giro dei versi, così come a riferire la concatenazione analogica che ha ingenerato la lirica. Persiane estive, si intitola il capitolo di cui sono protagoniste le figlie dell’aria, questo poiché i battenti chiusi (impedimento che ottundendo la vista affina l’udito, divenendo così occasione di poesia) filtrano i suoni dell’estate, quel «seghettato» canto di cicale, a loro volta dette «membrane percussive», che rimanda all’immagine del sistema binario buio-luce creato dalle barre delle imposte. In tutto ciò, a proemio dell’opera, una dichiarazione sulla consapevolezza della propria natura di poeta, consistente nel sentirsi strumento, e non strumentista, tramite cui risuona la voce delle cose. Se un vento continuo scuote la valle e trae dalle fronzute rame arpeggi eolii, anche l’orecchio del poeta, «valva plurimillenaria », rimbomba e propaga la voce potente di questo spirito selvaggio, umile sistro umano, la cui poesia non è frutto d’alto cesello, ma indotta melodia del mondo. Torna al ricordo ancora una pagina dell’Innocente: passò stagione in cui il «rombo che pare che sia in fondo a certe conchiglie sinuose» fu riconosciuto quale «rumore delle proprie vene»; oggi, al contrario, l’unico sentiero percorribile per fare poesia è quello che conduce a farsi ritorto fossile marino, dove riecheggino i suoni degli evi, versi che magari, così spirati, il poeta neppure si prenda la briga di notare, riconosciuto l’atto del ‘significar per verba’ qual unico momento attivo, pure non più dovuto.
Francesca Latini

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