« indietro MARIA ANGELA BEDINI, La lingua di Dio, Torino, Einaudi 2003, pp. 145, € 12,00.
La poesia religiosa conosce da sempre il tormento della ricerca della parola, lo sforzo terribile di toccare l’indicibile, risolto per forza di metafore o per vertigine di astrazione. Lo stesso nucleo ispirativo è al centro del bel libro di Maria Angela Bedini, ma con un lieve eppure decisivo spostamento di fuoco, dal dopo al prima, dall’oggetto al mezzo espressivo. La lingua di Dio che dà il titolo al poemetto è infatti il premio di una lotta sfibrante, la meta di una quête lunga un centinaio di pagine e parecchie centinaia di versi, il precipitato di un magma analogico spesso di difficile e probabilmente inutile decrittazione (un esempio: «beviamo le porte per l’osso / dell’inverno scivolato sulla testa»), soverchiante, stordente, rivendicato spavaldamente nell’Epilogo contro tutti i ‘grugniti’ dei recensori («‘Ossimori, insensatezze’, grugnì il recensore ») con ormai matura consapevolezza di scrittore e al contempo con evangelica spietatezza (Neque mittatis margaritas vestras ante porcos). La lingua in cui parla Dio (ma parla, Dio?) è insieme la lingua in cui si parla, o si tenta di parlare, di Dio, superando pericoli, impasse, sacrosante diffidenze (poiché, come ammonisce il Salmista citato in epigrafe alla prima parte, l’empio «Ha d’incanti e tranelli la bocca piena, / cela sotto la lingua distruzioni »; e «che al mio palato la lingua s’impicchi», è lo scongiuro, ancora con le parole del Salmista, che apre la seconda parte). La conquista di questa lingua matura attraverso l’attesa, nell’attraversamento delle stagioni che saranno anche e soprattutto stagioni del cuore ma hanno una loro tangibilissima concretezza, scansa la trappola della memoria, la presa dolciastra del passato, si affaccenda incessantemente, Marta e Maria insieme, tra carta bianca e inchiostro (quanto inchiostro, fogli, matite, quaderni in queste pagine), si puntella provvisoriamente con una personale costellazione di riferimenti culturali (tra Lewis Carroll, Andersen, Dickinson) che diventano fantasmi, voci di un surreale convegno evocate con i loro nomi (Alice, ma anche la regina delle nevi e naturalmente Emily, che scandisce alcuni memorabili versi nella memorabile traduzione di Margherita Guidacci) nel metaletterario Interludio, che separa la prima e la seconda parte del poemetto, e nell’Epilogo; fino, sempre nell’Epilogo, all’approdo prevedibile («Gesù stracciò il nome, s’accovacciò sul palmo della lingua, / il nome lo infilzò dentro il costato »), fino alla litania, al balbettio eroticomistico («Gesù infossato nelle membra, / tuttobello di dolore, / tuttodolente di bellezza »). L’unione con l’amato si compie dunque nel finale annullamento di ogni barriera tra l’io e la parola scritta, disperatamente invocato fin dal principio («mia materia chiamata da un volere / dirigi un desiderio schianta lo specchio / in cui il dentro si depone / uccidi dunque i tuoi fuori»), come anche, forse, nella rinuncia alla intenzionale poeticità della scrittura poetica; dopo che per tante, troppe pagine «in sere capitali allo sgomento / in quelle sere danneggiate / dalla chincaglieria di sguardi / il libro subissava di schiamazzi / la carta impallidiva come un uomo / senza sguardi ma lui restava lui / e io rimango io». Elena Parrini ¬ top of page |
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