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MARIO BENEDETTI, Umana gloria, Milano, Mondadori (Lo specchio), 2004, pp. 124, € 9,40.

«O anima! Non sono poesia le lettere che pianto come chiodi, ma il bianco che rimane sulla carta». Queste parole di Paul Claudel possono essere utilizzate come chiave per entrare nei testi raccolti in Umana Gloria. Non si tratta di un’indicazione di forma, quanto di un invito ad accostare con grazia e leggerezza gli innumerevoli silenzi che fanno da contrappunto alle parole, ospitandole e completandole, del libro con cui Mario Benedetti ha finalmente presentato il proprio lavoro al grande pubblico della poesia destando un’attenzione destinata a durare. È sempre possibile cercare echi e reminescenze per inscrivere un autore in griglie determinate e si potranno anche qui rinvenire le tracce di una tradizione che aderisce all’asse Petrarca-Leopardi-Sereni, ma in questo poeta schivo la trama intertestuale si dà più che altro nella modalità del riferimento indiretto, della discreta rielaborazione, sintomo di un’assimilazione profonda più che della necessità di esporre le proprie coordinate culturali. È invece nei silenzi che giace la moltitudine di significati sorgivi che va colta, a metafora della teoria del tempo che viene formandosi nella lettura. Perché il tempo è il tema centrale del libro, e ne è la materia. Dal dolcissimo epicedio di apertura e lungo tutto l’arco delle otto sezioni di cui è composta la raccolta, si articola una ricerca di pienezza intesa come impossibile ricongiungimento tra presente e passato; dicotomia, questa, foriera di altre apparenti contrapposizioni (e in particolare quella geografica tra città e campagna) che hanno il loro equivalente emotivo nella tensione tra una genuina vocazione al desiderio di farsi cantore di ore gaie («Io vorrei tanti colori, sognare una festa, / scrivere di noi solo favole», Le vecchie donne...) e i frantumi di un presente che sembra non accettare interferenze al di fuori di quelle insorgenze memoriali che costituiscono il tessuto connettivo del libro. Ma Benedetti sa che la perdita si articola sempre su un doppio binario, dove all’impossibilità del ritorno a un passato scomparso si affianca quell’altra lacerazione data dalla nostalgia del non provato (Unico sogno); il senso delle cose va quindi cercato nelle storie che esse raccontano, e ciò sembra essere il cuore pulsante che richiede e al contempo provoca l’esplosione di epifanie di Umana gloria. È così che gli oggetti, i fenomeni, la natura stessa, sono sempre colti nelle ripercussioni che hanno sull’uomo: «Il colore delle barche / cerca di costruire le sue ragioni anche per me che soltanto le guardo » (Brest). Ed ecco ricomparire la necessità dell’altro, il senso che si mostra solo nel completamento con ciò che è dato in absentia, e da qui la necessità di saper legger i silenzi. Ma il percorso possibile sin qui accennato non dà ragione della realtà formale della scrittura, la cui componente più caratteristica è quella del pieno raggiungimento di una voce carismatica e riconoscibile, adulta e dimessa, in grado di suonare marce solenni senza alterigia o cadenza marziale: riducendo al minimo il ventaglio terminologico, dilatando il verso fino alla flessibilità della prosa, Benedetti punta sull’incisività del movimento sintattico. Si tratta di una scelta non di comodo, dove la rinuncia alla ricchezza lessicale della lingua poetica – e con essa alle via di fuga conseguenti a una concezione anche impercettibilmente ornamentale della poesia – comporta un rigore compositivo di più difficile mantenimento. Da qui la disomogeneità dei testi, che a tratti pagano un appannamento delle proprie intime ragioni dando l’impressione di un’urgenza eccessivamente diluita. Ciò accade in specie quando l’insistente sovrapposizione tra passato e presente determina una sorta di anchilosi dell’apparato percettivo che può persino impedire di cogliere il reale, continuamente costretto a cedere il passo all’immagine altra, come in un gioco di statue di vetro in cui della figura in primo piano non si cogliessero i lineamenti e si percepisse solamente la forma di ciò che le sta dietro: è la memoria invasiva, il letargo di talpe che fa sì che «si può stare male per un profumo ancora tutto da spiegare» (Giorno di festa). Meglio allora le rare testimonianze di presenza, gli indizi scoperti di una pace possibile, concentrati nella quinta sezione dal significativo titolo Qualcuno guarderà il bene: «si vedono colline, un’allegria da ogni parte. / Si sta come a volte si è pensato di potere stare» (Quadri). L’occorrenza rivelatrice del sintagma che funge da titolo la si ha nell’ultima poesia della sezione Sassi, posti di erbe, resti, dove a Umana gloria si accompagna un povera che è misura della profonda compassione che pervade ogni parola di questo poeta divenendone, da caratteristica esistenziale, la principale cifra stilistica; ancora una volta l’equilibrio si sposta su ciò che manca, sulle parole non (ancora) dette. «Povera umana gloria / quali parole abbiamo ancora per noi?»
Lorenzo Flabb

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15 ottobre 2022
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