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ERMANNO GUANTINI, Variazioni, con un disegno di Paola Ricci, postfazione di Massimo Sannelli, Verona, Cierre Grafica (Collana «Via Herákleia», n. 20), 2003, pp. 48.

Già dai primi tre versi di questa raccolta d’esordio di Ermanno Guantini (di cui occorre ricordare il recente ebook Pura quiete ritrae, in www.lettoricreativi.com) è dichiarata l’area di senso dell’azione poetica: il tema amoroso: «sfiorare la tua pelle, al gioco / consonante degli amanti ». Non inganni l’aspetto ‘leggero’ dell’incipit. Questa di Guantini è – come suggerisce la densa postfazione di Massimo Sannelli – una delle non rare raccolte di quei poetae novi ai quali ascrivere la costruzione di un vero e proprio trobar clus. (Con coscienza agíto, pur senza programmi o programmazioni à la Oulipo). Il libro spende tutto l’arco delle mutazioni e dei giochi sonori entro quella che diresti davvero area (o alone) di senso, più che tema organizzato in frasi o testualizzato in cifra incisa stabilmente. È l’alternato condensarsi e dissiparsi dell’alone amoroso a sorprendere il lettore, più che una narrazione o una vena epigrammatica. È poi percettibile un doppio e unitario registro di forme, nella ricerca di Guantini. Forse non è un caso che la raccolta si divida in due sezioni: Variazioni, di nove poesie; e la più ampia Senza altri nomi, costituita da tre sequenze rispettivamente di sette, cinque e nove poesie. Ebbene, il doppio registro corrisponde da un lato a retorica e lessico sceltissimi, quasi (parodicamente?) ‘nobili’, con costrutti di sorprendente e voluto e divertito anacronismo (da Novecento ermetico o pre-ermetico: «contenzioso d’imminente / discesa », «collo reclino», «la neve trasmuta la pelle», «un’icona mutila di sensi», «saviezza d’incensi»; bella l’anfibologia «detriti eletti»); e dall’altro a una antiretorica della elencazione, del calembour, dell’infinita assonanza, della vertigine barocca di ritmi: «estimi // industriali. folaghe / si alzano al volo, duri / nella depressione / parco; operai»; o «un’arsura / che sa d’una resa, / dovuta alla rima / delle cose. oggi / arabesca, fina // la tua lagrima» (dove «lagrima» è daccapo arcaismo). Non è immaginabile separare il ‘colto’ «arabesca» dalla trama che ne raccoglie il suono: «resa», «rima», «cose», «fina». Ecco perché il registro stilistico va, allo stesso tempo, definito doppio e unitario: è realizzata senza scosse una coesione e coerenza di ‘alto’ (inversioni e lessici primonovecenteschi) e ‘ricerca’ (meccanismi delle avanguardie del secondo Novecento, e vocabolario tecnico). Per quanto riguarda la inusualità delle tarsie di Guantini («cesure / come assenzi, / estimi »; «tra le mani, pastelli / benservito: / e opache») un autore di ipotizzabile riferimento è forse Milo De Angelis. Mentre per un certo uso e ritmo dell’elencare, e per l’occorrenza del «noi» e di altri fenomeni di ‘creazione di identità’ tramite semantizzazione di singole parti grammaticali (il «che», l’«in»: pensiamo all’incipit di una poesia come quella a p. 29: «che cadon late / fise nel brillio, / atri che ci giocavamo / ben riposti, posti in cieli / e cicli, in cadenze / e pose. // in propositi e nenie; scie / l’occhi chiose. muse») sento particolarmente opportuno pensare all’opera di Giuliano Mesa (in primis I loro scritti, Quasar, Roma 1992), poeta sicuramente letto e apprezzato da Guantini. Ciò detto, è altrettanto necessario sottolineare come la capacità di tarsia che l’autore mette in campo non è pura sommatoria di elementi ‘appresi’ (da un Novecento-orizzonte) bensì identità, stile individuale e individuabile. A riprova, si legga la bella poesia di p. 24 (dall’incipit memorabile: «a suono: nel danno, dicevi»), dove la produzione di senso è affidata alla sapienza delle rime.
Marco Giovenale

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