« indietro ALEJANDRA PIZARNIK, La figlia dell’insonnia, a cura di Claudio Cinti, Milano, Crocetti 2004, pp. 196, € 14,98
Da quando è morta suicida (anche se oggi si dubita che il gesto sia stato volontario) a soli trentasei anni nel 1972, Alejandra Pizarnik, una delle voci più intense e originali del Novecento argentino, non ha smesso di destare interesse, adesioni appassionate e vivaci polemiche. Ne è prova lo studio con cui Claudio Cinti chiude la raccolta antologica da lui curata per i tipi di Crocetti. Cinti sembra respingere la tesi del suicidio, ma la cosa che lo irrita di più è il fatto che la critica letteraria abbia voluto insistentemente sovrapporre la vita dell’autrice e soprattutto la sua fine all’esegesi della sua poetica. Non è accettabile che tutta la sua poesia si possa spiegare come un percorso disegnato che conduce inevitabilmente alla morte cercata. Con attenta conoscenza della vasta bibliografia in proposito, oltre che dell’opera in causa, ma con una tale veemenza da perdere qualche volta quella freddezza di giudizio che in genere si pretende dal critico, Cinti attacca studiosi autorevoli come Guillermo Sucre e scrittori rinomati come César Aira, tra altri, perché secondo lui l’idea del suicidio dovrebbe risultare «opaca», o meglio ancora «gonfia di riflessi inesistenti» in un’autrice che «inscrive con naturalezza e sin dall’inizio il discorso sulla morte, quale elemento del proprio quehacer [daffare, attività, lavoro] nel corpo stesso della poesia» (p. 166). Cinti cita molte dichiarazioni della Pizarnik, rilasciate in diverse interviste, nonché alcuni testi di dichiarata intenzione teorica: «Penna in mano, penna sulla pagina, scrivo per non suicidarmi » (testo senza data raccolto in Prosa Completa, Barcellona, Lumen 2002); oppure: «La poesia non è una carriera, è un destino [...]. Sicché affermo che essere nata donna è una disgrazia, come lo è essere ebrei, essere poveri, essere neri, essere omosessuali, essere poeti, essere argentini, ecc. ecc. È chiaro che l’importante è ciò che facciamo con le nostre disgrazie » (questionario in «Sur», n° 326, Buenos Aires, 1971). E si sarebbe d’accordo con Cinti nel respingere una linea di lettura che egli definisce morbosa, se essa impedisse di vedere la fermezza dell’edificio poetico in questione, la solidità del pensiero filosofico che lo fonda, l’originalità del suo verbo. La presente antologia d’altra parte testimonia con efficacia anche le varianti stilistiche dell’autrice, che sa concentrarsi in brevissime liriche dove spesso la metafora unica segnala la congiunzione drammatica tra il mondo osservato e l’intimità costantemente lacerata; oppure sceglie il poème en prose, o la forma della sentenza, o la forma della confessione. Vediamone alcuni esempi: «Questo lillà si spoglia. / Cade da se stesso / e occulta la sua vecchia ombra. / Morirò pressappoco così» (p. 73); «Ed è sempre il giardino dei lillà dall’altro lato del fiume. Se l’anima domanda se è lontano le si risponderà: dall’altro lato del fiume, non questo ma quello» (p. 77); «E soprattutto guardare con innocenza. Come se nulla fosse, il che è vero» (p. 81); «Parlo come si parla in me. Non la mia voce che si ostina ad assomigliare a una voce umana ma l’altra voce che attesta che non ho smesso di abitare nel bosco» (p. 91). Cinti trova la sua chiave di lettura nella ricerca di una «perfezione poetica» che per la Pizarnik è uguale alla libertà, all’amore e anche alla morte, intesa quest’ultima come spazio dell’assoluto, a contrasto con ciò che vive, che è perennemente incompiuto, e sofferente, quindi alla ricerca di compiutezza, calma, silenzio, assoluto, termini che alla fine si confondono con la morte. O nella morte trovano la propria immagine riflessa. «Scrivere una poesia», dice ancora Alejandra, «è riparare la ferita fondamentale, lo squarcio». E poi: «Desideravo un silenzio perfetto. Per questo parlo». Illuminante l’accostamento alla poetica del boliviano Jaime Saenz (p. 178) e giusti i riferimenti alle letture amiche e complici di coloro che in vita sono stati in effetti molto vicini all’autrice: Olga Orozco, Julio Cortázar, Octavio Paz. Le traduzioni sono precise, talvolta discutibili, ma spesso indovinate nel cercare termini non letterali ma risultato di un indubbio lavoro d’interpretazione. La figlia dell’insonnia è un’opera che lascerà sicuramente traccia nella memoria dei buoni lettori di poesia. Era dovuto questo riconoscimento a un’autrice dello spessore della Pizarnik e proprio perché arriva con un ritardo di qualche decennio (ma non sarebbe purtroppo l’unico caso nel mercato editoriale italiano), un riconoscimento speciale va al curatore nonché all’editore, Nicola Crocetti. [M.L.C.] ¬ top of page |
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