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GERTRUD KOLMAR, Das lyrische Werk, a cura di Regina Nörtemann, Göttingen, Wallstein Verlag 2003, 3 voll., pp. 1232,€ 98,00

Sono dovuti passare sessant’anni dall’uccisione di Gertrud Kolmar nel campo di sterminio di Auschwitz perché tutte le sue poesie fossero raccolte in un’edizione critica impeccabile come quella curata da Regina Nörtemann, che in tre volumi ricostruisce con perizia filologica il percorso lirico di una scrittrice da considerarsi tra le più belle voci poetiche del novecento tedesco.
Già nel 1955 era apparso Das lyrische Werk a cura di Hermann Kasack, che riuniva al postumo Welten (1947) i Gedichte, Preußische Wappen e Die Frau und die Tiere, volumi usciti rispettivamente nel 1917, nel 1934 e nel 1938. Riedita nel 1960, la raccolta era poi stata seguita da Das Wort der Stummen (1978), ciclo scoperto all’inizio degli anni settanta, dai Frühe Gedichte (1980) e da Weibliches Bildnis. Gedichte (1987): tutte edizioni che avevano il merito di offrire al pubblico una poetessa a lungo trascurata nel dopoguerra e rivalutata soprattutto negli anni ottanta grazie a Gert e a Gundel Mattenklott, ma che oltre a essere lacunose perpetuavano una grande confusione nell’attribuzione ora all’uno ora all’altro ciclo poetico delle singole liriche, nella loro successione e finanche nei titoli, che spesso non rispettavano le intenzioni dell’autrice. Regina Nörtemann emenda questa selva di errori filologici, e avvalendosi del lascito diviso tra il Literatur-Archiv di Marbach, il Leo Baeck Institut di New York, il Zentrum Judaicum di Berlino e alcuni lasciti privati, restituisce per la prima volta tutti i cicli nella composizione e nella grafia originarie, con un nutrito apparato di note e varianti e un esaustivo commento. Ne esce un profilo che rende giustizia della complessità di un’autrice che fino ai tardi anni ottanta aveva patito di un duplice oscuramento ideologico, tanto nella Germania occidentale quanto in quella orientale. Nella Repubblica Federale si era infatti consolidata l’immagine di una scrittrice impolitica ispirata dal mondo familiare della casa paterna di Berlino, dalle vicissitudini di un diario intimo e dal rimpianto di una maternità negata, mentre nella Repubblica Democratica, dove Uwe Berger aveva pubblicato in «Sinn und Form» tre liriche di Das Wort der Stummen (1972), la specificità ebraica di molte delle sue poesie creava un certo imbarazzo politico legato ai tesi rapporti tra Berlino Est e lo Stato di Israele. Negli anni novanta, venute meno alcune delle riserve ideologiche che ritardavano un confronto trasparente e complesso con la Kolmar, l’interesse per le sue opere in versi ma anche in prosa, a lungo ai margini della critica letteraria, si fa più che mai vivo, culminando in questa edizione che dedica un ampio commento alla valenza politica delle liriche degli anni trenta.
La poesia di Gertrud Kolmar è dapprima un sensibile esercizio poetico che con levità riattiva la prosodia ottocentesca del Volkslied e della ballata, raccogliendo le suggestioni di Clemens Brentano e Joseph von Eichendorff, ma poi si volge ai toni più personali e diaristici nelle fantasie di un io lirico che sempre cerca il volto di un altro, ora bambino, ora uomo (Frühe Gedichte. 1917-1921). Elementi, questi, che rimangono il basso continuo di una poetica che matura nell’incontro con Rainer Maria Rilke e Paul Valery, e che si volge lentamente, negli anni della Repubblica di Weimar, dall’io al mondo delle cose e delle loro immagini (Das preußische Wappenbuch), o al mondo dei fiori cui Gertrud Kolmar restituisce l’aura e lo stupore violati dal linguaggio della pubblicità, come in Die Rose des Kondors (Gedichte 1927-1937). Con la stessa intensità si volge poi al mondo degli eventi epocali mal risolti e dei loro attori controversi (Robespierre), e infine, tragicamente, al mondo della politica sempre più scellerata del Terzo Reich (Das Wort der Stummen).
Poetessa della lingua tedesca che fu dei romantici, Gertrud Kolmar cerca il suo pubblico nella Germania dell’assimilazione, e lo trova anche grazie al cugino Walter Benjamin, che a partire dal 1928 la introduce alle riviste letterarie più note. Regina Nörtemann ricostruisce le tappe di queste pubblicazioni, e illumina il percorso forzato di una ghettizzazione sempre più stretta della cultura ebraica, relegata di anno in anno in un circuito chiuso di riviste per proscritti. È in questa traiettoria dell’esclusione che Gertrud Kolmar si avvicina alla lingua della sua gente, scrivendo poesie in ebraico di cui non è rimasta alcuna traccia. L’edizione critica parla anche di questo vuoto, di queste parole assenti, le ultime, scritte alla fine di una escalation di violenza che Gertrud Kolmar registra, tutt’altro che impolitica e domestica, in Das Wort der Stummen con i versi di Anno Domini 1933, Im Lager, Wir Juden, Die Gefangenen: brani di un’epopea inumana del «Terzo Reich cristiano- tedesco», da cui la poetessa si ritrae nell’incontro muto e estatico con Der Engel im Walde, nella stessa raccolta. Il bosco che accoglie l’angelo è ancora un bosco tedesco, ma è quello della poesia, oltre la contingenza, oltre la realtà del tempo storico e della sua violenza. Der Engel im Walde ritorna nell’ultimo ciclo, Welten (1937), solo che ora l’angelo è privo di ali, «il suo volto è dolore», e nel suo silenzio non volge lo sguardo ai dolenti.
Una dichiarazione di silenzio è l’ultima poesia della raccolta, che qui compare per la prima volta con il titolo Kunst in apertura al ciclo Welten. La poetessa dalla «penna argentea» traccia le linee dei suoi monti sulla carta bianca che è la sua terra, la sola, ma i monti sono «kahl», spogli, nudi, desolati. Svaniti sono i corpi, gli odori e i colori, tutto tace e tutti la lasciano sola. Soltanto uno, «ein Wartender », uno che aspetta, incoronato da due basilischi in una luce crepuscolare, le si fa incontro: «Ein Wartender, / Dem zwei grüngoldene Basilisken den Kronreif schlangen, / Stand im Dämmer auf, glomm und neigte sich, sie zu grüßen». Che sia la speranza di un incontro che libera, o il timore di una minaccia che annienta, che sia una promessa di amore o un presagio di morte, è in questo paesaggio di desolati monti che Gertrud Kolmar scrive l’ultima delle sue parole in tedesco che giungono fino a noi

Stefania Sbarra

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