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ANCORA SULLA PRESENZA DEI CLASSICI NELLA POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA
di Alessandro Fo

Tu, neh, chi è serio uscire lo fai [...]
a che omìnidi credi?
FRANCO FORTINI,
da Composita solvantur

L’«ancora» di questo titolo vorrebbe avere non tanto il sapore della serialità accademica, quanto quello poetico che, per uno ‘spessore’ autobiografico carico di emozioni, Antonio Delfini seppe dare a un altro avverbio: l’entonces che per caso sentì pronunciare da una bambina basca, e divenne all’istante signore dei suoi ricordi. Infatti ormai questa materia, in cui mi sono un giorno imbattuto come per caso, sta divenendo un mio privilegiato oggetto di studio. E – solo questo ha qui diritto a rilevanza – ciò dipende da una progressiva consapevolezza di quanto a fondo agisca la lezione dei classici sul presente articolarsi della nostra creatività poetica.
Detto diversamente: un tempo, benché classicista e benché aspirante poeta (non privo in quest’ultima veste, di imprinting classicistico), non mi ero accorto, e non avrei sostenuto, che la tradizione dei classici conservasse una sua vitalità produttiva nella nostra odierna poesia. Mi costrinse a rifletterci un compito specificamente affidatomi da Giorgio Manacorda (e, per scarsa familiarità col tema, assunto senza troppo entusiasmo): stilare l’intervento Appunti sulla presenza dei classici nella poesia italiana di fine Novecento per il suo «annuario» Poesia ’961.
A mantenermi allenato venne un’altra ‘dolce violenza’, quella di Mario Petrucciani in vista di un convegno cui molto teneva – e che sarebbe stato un ‘convegno d’addio’: Petrucciani è purtroppo scomparso lo scorso anno –, Il classico nella Roma contemporanea. Mito, modelli, memoria (Roma, 18-20 ottobre 2000), per il quale mi chiese di trattare il tema Virgilio nei poeti e nel racconto (dal secondo Novecento italiano)2.
Ma lungo queste occasioni mi è sembrato, con crescente stupore, di dover registrare che la ricerca si andava orientando non su una pista periferica e sostanzialmente erudita, bensì su di una linea portante; un itinerario che gettava luce su alcune verità troppo trascurate, forse perché sotto gli occhi di tutti: idee, temi e perfino la lingua dei grandi classici antichi restano un punto di riferimento di notevole importanza per il farsi attuale della poesia, tanto in Italia che all’estero; e la cosa – come non mancherò di sottolineare – si ricollega indirettamente a un’altra questione che impegna a fondo oggi i classicisti, e cioè la difesa del patrimonio di cui sono custodi.
PRIMA PARTE
Poesia come risarcimento

1. Chiccus se distiravit stufus: cose vive (oppure no) in lingue morte
Qualche anno fa, durante un incontro sulla cultura umanistica oggi,3 Sergio Staino disegnò una vignetta in cui la figlia chiedeva al suo noto personaggio Bobo «si possono dire cose vive in lingue morte? »; la risposta suonava «sì, al contrario ci riesce solo Liguori». Non lo si crederà, ma, prescindendo dal giornalista in questione, il problema si ripropone per la lirica, quando si consideri un aspetto al contempo impressionante e per alcuni forse discutibile: il fatto che tuttora si scriva in lingue morte, in queste due nostre lingue morte. Per il greco antico, il fenomeno è assai circoscritto: ma proprio a questo incontro interviene l’unico poeta di cui sia a conoscenza che è stato capace di esprimersi in questa lingua. Alludo a Nicola Gardini e alle poesie che si possono leggere nel suo Atlas (Milano, Crocetti 1999). Quanto al latino, la sua vitalità in quanto mezzo espressivo continua ad essere tutt’altro che irrilevante. E si possono dire cose vive in questa lingua morta? Mi vogliano perdonare alcuni nostri poeti, anche di notevole prestigio e giustamente affermati, se non riesco ad avvertire come pienamente vive certe creazioni che si attestano su un taglio oggi piuttosto datato e direi accademizzante. Questo anche se in tale linea si lasciano iscrivere prove quali la traduzione latina della Bufera osata a suo tempo da Fernando Bandini (autore di molte altre prove latine, come Mensis Decembris Sancti Duo, apparsa nella sezione In lingue morte del suo Santi di Dicembre, Milano, Garzanti 1994), magna laus al certamen di Amsterdam del 1964 e apprezzata da Montale al punto da averla accolta nella ristampa mondadoriana del Quaderno di traduzioni:4

La bufera (1943)

Les princes n’ont point d’yeux pour voir ces grand’s merveilles.
Leur mains ne servent plus qu’a nous persécuter...
(Agrippa d’Aubigné: «À Dieu»)

La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,

(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)

il lampo che candisce
alberi e muri e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, –
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa...
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,

mi salutasti – per entrar nel buio.

Nimbus (1964)
Quid patet in nimbo, quae nostrae sortis imago?
Magnoliae rigidis foliis qui effunditur imber
et longi tonitrus et veris saxea grando

(te capit in laribus strepitus crystallinus altae
grandinis – en auri, quo armaria cara nitebant
et vestitorum corio caesura librorum,
tantillum superest quoddam tibi lumen et ardet
sub clausis tacite ceu granum sacchari ocellis)

et candefaciens muros arbustaque fulgur
umbris tam rapide momento temporis afflans
ut videatur eas aeterna incendere luce,
quod simul exiguum tempus simul immortale –
omnia dum fiunt marmor, manna atque ruina –
et tu sub tacito quasi poenam pectore condis
ac mihi te, soror, interius coniungit amore, –
dein durus sonitus, dein sistra et tympana quassa
propter hians barathrum, subeuntis somnia belli
quae nimbo in tremulo sum visus nocte videre,
in numerumque pedes moti, saltatus Hiberus,
iactataeque manus confuse ac molliter ...
Ut cum
ad me respiciens cirrosque a fronte repellens
gestu iussisti, tenebras initura, valere.

Né riesco – e insisto sulla soggettività del rilievo – a percepire come davvero vitali le poesie nel latino assai particolare e comunque ‘moderno’ di Michele Sovente5: mi accade di avvertirvi un residuo incombusto di procedimento intellettualistico, e in ogni caso mi fa velo la loro occasionale indubbia cripticità.
Ma altrove, sempre dal mio punto di vista, il ricorso al latino svetta per vigore, freschezza, funzionalità. E mi sembra di poter affermare che tendenzialmente questo dire cose vive in lingua morta precipiti quando lo strumento linguistico non venga adibito nel solco di una sua presunta sacralità (cosa che spesso approda a brani orbitanti più nell’area di un umanesimo dotto che in quella della autentica fecondità poetica); bensì quando un approccio ironico, fantastico o festoso aggiri ogni sovrastruttura aulica, ripiombandoci nel concreto farsi dell’espressione, nella sua autentica funzionalità rispetto ai contenuti. Quando vi sia, insomma, piena consapevolezza che si sta scrivendo in una lingua ai limiti dell’impossibile, una lingua che non si aspira tanto a perpetuare (limitandosi tutt’al più a qualche pedante aggiornamento lessicale, per iscrivervi realtà un tempo inesistenti), ma in qualche modo a ricreare ed espandere così come se ne ricrea continuamente per espansione l’esito romanzo in cui ci si trova concretamente calati.
Additerei un esempio notevole di quanto intendo dire nell’intelligenza petroniana con cui Sandro Sinigaglia amministra il latino per le istantanee postribolari della sua raccolta Bordellesca 6; un esempio: “«Mantua me genuit/ amores perdidere/ tenet nunc bordellus [...] Nonne longiuscule/ hic nos manebimus? Semper/ me offendunt/ cafones celeres»”. L’attrito fra, di qua, materia scabrosa e bassa in ambiente degradato, e, di là, ingresso a un tempo scanzonato e pomposo della lingua degli avi, genera graziose volute, sorridenti di gioia e tenerezza.
Analogamente segnalerei come assai riuscite le sortite latine di Ernesto Calzavara. Forse l’affetto per il latino non è disgiunto dalla sua formazione di giurista e di avvocato, se si può citare a riscontro il fatto che anche l’opera poetica di un giudice di Corte Costituzionale, Alfonso Malinconico, è – proprio per motivi connessi al diritto – generosamente proclive a riassorbire nel dettato poetico il latino quotidiano di certi snodi giuridici.7 Ma, tornando a Calzavara, Garzanti gli ha appena fatto l’onore di ristampare nella collana economica degli «Elefanti» l’antologia Ombre sui veri (cioè, in trevigiano, «sui vetri»), risalente al 1990 e ora (2001) arricchita da un CD di letture operate – non senza errori e guitterie – da Marco Paolini. Sfogliandola, vi si troveranno almeno tre testi notevoli (dalla raccolta Le ave parole, del 1984) in cui il latino gioca un ruolo di grande rilievo.8
Uno è (pp. 279 ss.) Vis grata puellae, variazione su Ovidio Ars amatoria I 673 s. (vim licet appelles: grata est vis ista puellis/ quod iuvat, invitae saepe dedisse volunt). Gli altri sono qui riprodotti: Homo praesens (pp. 282 ss.) e Chiccus (pp. 276 ss.). Homo praesens è un testo su ‘l’uomo di oggi’. Il latino vi è scelta sarcastica in timbro trattatistico: vi brillano neologismi non già coniati nello spirito pedantesco con cui il ‘latino vivente’ aggiorna il lessico all’era della mazza da baseball (pilamalleus), bensì con criterio maccheronico e, volontariamente o no, parodico di quei goffi aggiornamenti. Il catalogo delle occupazioni umane, con accento su molte di quelle ritenute più qualificanti e gratificanti, esibisce con prosopopea spocchiosi mirabilia e al contempo li incrina con una sorta ghigno.

Homo praesens

HOMO
homo faber homo ludens homo bibens
cum comitibus suis et puellis
solus
aut in urbis agro cum pilam lusoriam calciantibus
inter strepentes ex politicis foris

ubi aliqui turbam submovunt
et casinum faciunt

Homo insomnis pharmacis repletus et verbis
homo totam noctem dormiens
aut operam amori dans
homo per uikendum autocurrens
aut rebus suis providens
aut scioperans
aut in discoteca càrmina saltans
aut in montibus ambulans skians
aut legens
aut ad cinemam et televisionem
attentas aures praebens
buccam oculosque spalancans

Homo in officiis et officinis
assuetus labori ac programma suo
machinarum rumoresque patiens
nisi in campis aut in viis
contra inimicos pugnans
inter strepita et explosiones
omnes et omnia destruens
in impietate sua ferocior

Postea aedes et fora rursum construit
progeniem properat
et in venenoso aere tabaci
rabiem suam respirat
quae ad cancrum affert
et ad plurima corporis animaeque morba
quibus gaudet
pallida mors
Interea multi multa ab islamicis ìnferis
petrolea educunt
Quid prodest homini
benzina sua ?
Homini quem consumationes consumant
HP equitante
donec urbium optimates
in bancarum caveis
et grattacoelorum turribus
secretis schizofrenicis verbis
divitum et pauperum
lenonum puttanarumque
sigilla custodiunt
dum mitrae et pistolae sparant
et in summo coelo
velivoli volant
ascendunt satellites
pecuniae inflationes
et timor belli non Domini et amor sui
anxietates et cupiditates
de die in diem
lente vitam permeant

De manibus sanctorum
in ecclesiis pictis
urbis modulus
prolapsus est
et radiostultitiarum
fesseriarumque pervulgationes
in frigidis calidis inquinatisque aeribus
super muros libros diurnales
super veteris sapientiae
muta sepulcra
graviter altopàrlant

Et hoc tamen
aetatis nostrae
pacem appellant

Dalle mani dei santi, nelle chiese affrescate, è caduto il disegno della città e le divulgazioni di radiostoltezze e fesserie in cieli freddi, caldi e inquinati, permeando ogni spazio libero e utile, gravemente straparlano ad alta voce, sui muti sepolcri dell’antica sapienza. Solenne e suggestiva l’antitesi fra il diffuso chiacchiericcio delle «radiostultitiarum fesseriarumque pervulgationes» e il silenzio dell’antica sapienza, a metà fra soggiacere (per via di un mondo massmediatico che lo impone con il suo asfissiante pressing) e austero, volontario distacco, rassegnata distanza. L’uso del latino raggiunge qui effetti saporitamente grotteschi dove, strumento di descrizione antropologica, l’antico mezzo linguistico riassorbe i nuovi stili di vita, il calcio, il week-end, l’equitazione sugli Horse Power di rombanti motocicli, la discoteca.
Il colpo finale è nell’allusione conclusiva alla nota sententia dell’Agricola di Tacito (30, 26) atque ubi solitudinem faciunt pacem appellant: sotto la sferza di questo commento un’era declina, si brucia nel caustico apoftegma di tacitiana solenne amarezza. Tutto il tessuto latino, graffiante, ma anche sperimentalmente espressionistico, è motivato, quasi creato a partire dal fondo: dall’istanza di allinearsi a quel monito, articolato nella lingua ‘originale’; quella cioè con cui è stato iscritto una volta per sempre con tutte le sue risonanze nella rubrica del mondo.
Un analogo principio governa Chiccus, garbato apologo (risalente al 1979) che sembra germogliare dalla esplicita citazione finale di Orazio (Ars poetica 361 s.: ut pictura poësis: erit quae, si propius stes/ te capiat magis, et quaedam, si longius abstes; collateralmente: Calzavara attinge, per due anime importanti dei suoi versi, la poesia e l’amore, alle due grandi Artes, rispettivamente di Orazio e di Ovidio: per quest’ultimo, nella ricordata poesia Vis grata puellae). E, comeHomo praesens partecipa, seppure in un’atmosfera survoltata e stravolta, del moralismo tacitiano, così Chiccus non sfigurerebbe fra le satire del venosino. Il latino è qui sfruttato con ariosa scherzosità: Calzavara si esempla sui toni del sermo e delinea il bozzetto plurilinguistico (latino- italiano-trevigiano) che ritrae il poeta alla mercé dei critici. Questi sono l’amico Athanasius e il suo gatto Chiccus. Il Gatto, oltre che critico, è anche cacciatore e pescatore e forse si diverte di più quando esercita queste diverse arti nel teatro naturale del mondo. Athanasius è invece contento «sicut Pasqua» solo quando può esercitare la critica, ed è unicamente allora (tunc) che cerca con velocità mentale, ovunque nel mondo, il punto esatto da cui toccarne il tetto con la punta del dito. Conformemente alle diverse inclinazioni, Athanasius fa a pezzi i versi del poeta esprimendosi in un complicato e futile italiano ‘di mestiere’; Chiccus invece – che pure in un primo tempo li covava in veste di «galìna gato»-, molto più sbrigativamente, li lacera a zampate e morsi, estesi anche alla «manus scriptoria » dell’autore

Chiccus9

Erat Chiccus amici mei Athanasii
super versus meos assidens
quietus dormitabat
catus ille.

Inrodolà sue me carte
i me versi no gera che ovi
covai da sta galìna gato.
Da soto el pelo altri versi pulzini
slongava fora el becheto
Chiccus fusas facebat
placidus.

Questa roba non va
dise Athanasio
col so mento autorevole.
Altri suggerirebbero
«più attento esame del materiale segnico
e delle strutture tese alla fusione
di elementi e procedure tecniche
in funzione di supporto per...»

Chiccus se destiravit stufus
gobbam facendo
se leccavit satam et cum ipsa musum
inde unguibus strazzavit folium
cum versibus meis
damnatis.

Non erat tantum poeta et criticus
catus Athanasii sed etiam piscator venator.
In maribus et fluviis delicatas piscium
et cetaceorum cantationes cum gaudio magno
auscultabat
árborum foliarum florumque secretis verbis
et avium petegolezzis
ante eos arripere et manducare
delectabatur
sed tunc solum iucundus Athanasius deventabat
sicut Pasqua
et in aquis in terris quaerebat locum
unde mundi digito tangere tectum.

Come xe che farò ?
E lori:
«Selezionate esperienze di percorsi linguistici su ossature
ridimensionate di oggetti con autonomie esterne
scelte su modelli slittanti
nel tessuto culturale d’una metafisica
non decaduta né permanente
in ogni sua trasmutazione istituzionale
per un recuperato continuum d’identità».

Perinde ac cadaver caput meum cecidit.
Cum cauda sua blandula
Chiccus super tabulam visum meum
primum subdole carezzavit
sed repente cum ungulis et ferinis
denticulis suis
manum meam scriptoriam
usque ad effusionem sanguinis
laceravit et cum illo sanguine
ipsam et alteram pinxit.

Ut pictura poesis,
Horatius ait.

L’aggressione felina alla mano si colora secondo me di simbolo: Chiccus graffia la mano di Calzavara fino all’effusione del sangue e con quel sangue ‘affresca’ (pinxit) quella mano medesima, e anche l’altra. Di fronte a quel ‘quadro’ il poeta ricorre alla citata memoria oraziana, secondo cui come la pittura è (a volte) la poesia. Vale a dire, in questo nuovo contesto – almeno a mio modo di vedere –, che, pure sotto il fuoco dei critici (e fors’anzi di più, proprio per l’aggressione di «lori»), anche la poesia è effusio sanguinis, e sua disseminazione d’attorno, come la pictura cui Chiccus sta attendendo. Una effusio che, per quanto discutibile possa esserne il valore, merita in sé rispetto. Da questo punto di vista si spiega forse meglio il fatto che, se dall’antologia garzantiana si risale all’edizione originale delle Ave parole, si scopre che questo, come gli altri due componimenti in cui il latino figura come strumento prioritario, è collocato nella sezione Versi civili. L’effusio sanguinis di un poeta – sia pure anche solo per metafora – è qualcosa che attiene ai destini di una comunità.

2. Altre invenzioni di restituzione

Lo spazio mi costringe a sorvolare su varie altre modalità con cui la nostra odierna poesia ricostruisce l’antichità. Perché, naturalmente, è questa una delle più suggestive potenze della poesia: che ciò ch’è sprofondato per sempre nel passato possa tornare ai nostri sensi come attuale, nitido, caldo di emozioni. E non mancano oggi in Italia poeti che abbiano la capacità di restituire all’Antichità una simile vita. Penso per esempio alla reinvenzione di schegge di quell’esistenza – vite di oggetti, di mercanti, di soldati stanziati sui confini – che ha segnato la ricerca di Claudio Pasi10. E penso alle liriche di Miro Gabriele sulle città antiche, da poco apparse nella rivista fiorentina «Caffè Michelangiolo»11 e ai sogni di Fernando Acitelli, che stringono in un unico insieme Roma Antica e vita di oggi. Egli non è del resto che un antico romano sbalzato fra stadi, banche, angoli ora sordidi ora romantici di un’Urbe caotica, affogata nel traffico e ingentilita appena da umide, ombrose Chiese barocche12. Dedicherò due sole parole a una tentazione, quella di integrare il frammento. In un flash della memoria che ora mi sembra caricarsi di implicazioni simboliche, rivedo il mio ultimo incontro con Vanni Scheiwiller, nel luglio del ’99 (l’anno il cui ottobre l’avrebbe portato a morte). Mi regalò freschi di stampa due titoli «All’Insegna del Pesce d’oro», entrambi pienamente in sintonia con questo nostro tema: Borderline del latinista e poeta Luca Canali, e Le Muse incollate di Gian Piero Bona.13
L’operazione di quest’ultimo volumetto è semplice e il tocco spesso geniale: di molte voci antiche possediamo solo «cocci sospesi ai confini del nulla» (p. 7); il poeta moderno si prende la libertà d’integrare quei vuoti con escursioni sue, immaginando, inventandosi ciò che al momento è andato perduto. Ancora una volta: non con un intento filologico-restaurativo, ma poetico-dirompente. Così Bona si compiace di personalizzare radicalmente le voci del passato, di tararle sulla propria individualità lirica, appropriandosene fino a non arretrare di fronte all’esplicita menzione del proprio cognome nel ‘seguito’ di un coccio di Alceo. A volte ‘risponde’ al poeta ‘integrato’ come in un dialogo, a volte lo prevarica rovesciando del tutto ciò ch’egli dice. Ma sempre questo singolare recupero documenta l’imprescindibile vitalità e produttività di un archetipo. Chiudo il paragrafo con qualche esempio (in corsivo è la traduzione del testo antico – che, nel suo volumetto, Bona riporta sempre a fronte – in tondo le sue personali variazioni):

Da I cocci di Alceo
Ora bevete tutti, ubbriacatevi,
magari a forza: è morto Mirsilo!
E quando Bona morirà ballate,
abbracciandovi nei solchi, nudi... (p. 71)

da I cocci di Saffo

viviamo...
in un’epoca volgare,
...
ma abbiamo ancora
un ardire dalla voce sottile
...
e delicata
che ci fa dimenticare
ora il talamo infame del mondo (p. 17)

e

come desidero un canto perfetto,
questo buio vincere
voglio con la forza dello stile (p. 15)

da I cocci di Anacreonte

Porta l’acqua, porta il vino,
o ragazzo, a me ghirlande
di bei fiori porta, voglio
con Amore fare a pugni:
disse il pazzo dilettante,
e già il Campione del Mondo
lo stendeva con un fiore
dentro il guanto, al primo assalto (p. 89)


SECONDA PARTE
Prospezioni
In questa seconda parte del mio contributo, vorrei toccare velocemente alcuni aspetti della fortuna di alcuni singoli autori. Di Virgilio, come ho ricordato, mi sono occupato un po’ più diffusamente altrove, e a quel lavoro rinvio, limitandomi qui a pochi cenni. Qualche spunto, fra i moltissimi che si offrirebbero, desidero poi dedicare a Catullo e Orazio, per flettere quindi sulla Tarda Antichità, con Rutilio Namaziano, e tornare a chiudere su Plutarco.

1. Catullo

Fra traduzioni, riscritture, rielaborazioni, sono innumerevoli le variazioni cui hanno dato luogo i carmi di Catullo.14 Tra i mille progetti che forse non riusciranno mai a vedere la luce, coltivo da tempo quello di una specifica silloge di Poeti per Catullo, intesa a raccogliere per lo meno una prima antologia di queste escursioni, disciplinata ‘per singoli carmi’, cioè appuntando in calce ai singoli carmi del liber una o più delle nuove creazioni che ne sono germinate. Per esempio, come resistere alla tentazione di porre a fianco, e direi ‘a fronte’, del carme 4 (quello celeberrimo del phaselus) la delicatissima, raffinata rielaborazione di Sandro Sinigaglia nei suoi Versi dispersi e nugaci. In questa raccolta, uscita «All’insegna del Pesce d’Oro» di Vanni Scheiwiller nel 1990, cioè pochi mesi prima che il poeta morisse,15 si legge un bilancio che, su miti ondine di fonemi («ancoraancor- ancoretta-accorto», con l’ultima parola a inserirsi, per il suo secondo segmento, nell’altra serie «corso-morso»; e ancora la sequenza «giù giù son già»), beccheggia fra Catullo e Rimbaud, dal cui Le Bateau ivre (v. 14) mutua il finale:

Talvolta ancora lungo
il lungolago andando
ancor l’ente analogico
mi sprona: vedo un vecchio
faselo un dì glorioso
all’ancoretta del cantiere
preso pronto al disarmo
e del mio corso vedo
la fine. Tutto tutto
è compiuto giù
giù son già morso e qualcosa
sospiro che non bene
intendo. Mi faccio accorto
scando: plus léger qu’un bouchon
sur les flots j’ai dansé!

In attesa di quel libro solo virtuale, sebbene già fantasticato nella programmata collana «Catullo» delle Edizioni degli Amici, procederò qui a una fulminea campionatura lungo due linee, che a loro volta sono assi portanti del mondo poetico catulliano: gli amori con Lesbia e il lutto per la morte del fratello, attenendomi a qualche affioramento della fortuna, rispettivamente, dei ‘carmi dei baci’ (la coppia 5 e 7) e del carme 101.

I carmi dei baci

Ripeto innanzitutto qui il testo dei carmi, con due traduzioni ciascuno: quella italiana di Enzo Mazza, un poeta che poi scopriremo meglio, e quella in piacentino di Ferdinando Cogni. Quest’ultima, oltre che per la sua intrinseca bellezza, mi torna utile a introdurre una particolare ‘variante’ del tema che stiamo trattando, e cioè quella che identifica in una voce antica ‘il poeta di una vita’: è lo stesso Cogni a chiarire cosa abbia inteso dire, quando scrive:16

Catülu e mé
Sum mia stè mé a tradüs
in piasintái al Catülu.
L’é stè ’l Catülu
tradüsam mé in latái.
che tradurrei così:

Catullo e io

Non sono io che ho tradotto
Catullo in piacentino.
È stato lui, Catullo, che ha tradotto
me, Cogni, in latino.

Ma torniamo ai carmi catulliani di cui si diceva. Ecco testo e traduzioni dei carmi 5 e 7:

Catullo, carme 5
Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

Viviamo e amiamo, Lesbia mia, né mai
ci tocchino i sussurri e le calunnie
dei vecchi arcigni. Possono cadere
e risorgere i soli: quando spenta
sarà per noi la breve luce, avremo
il sonno d’una notte senza fine.
Baciami mille volte e quindi cento,
poi altre mille e subito altre cento,
e mille volte ancora e ancora cento.
Quando molte saranno le migliaia,
ne perderemo il conto frammischiandole,
sì che alcun tristo non ci porti invidia
conoscendo il gran numero dei baci.
(trad. Enzo Mazza, Parma 1962, p. 25)

Catullo, carme 5
(traduzione di Ferdinando Cogni)

Vivúm, la me Lesbia, e fum l’amur,
e il ciàciar tüt di vec muralista
dumg’al valur d’un sòd.
I suj i van e i végnan:
nói, una vòta andè cla poca lüz,
um da dorm’una not sáisa fái.
Dam mil basái, po sáit,
po ètar mil, po ètar sáit,
po mil e mil ancúra, po sáit.
Po, quand n’arúm fat bòta mièra,
ingarbujúmia d’an savíja,
che queldói c’ag vól mèl al na ga stría,
saví ch’j’én tant. (p. 19)

Catullo, carme 7

Quaeris quot mihi basiationes
tuae, Lesbia, sint satis superque.
Quam magnus numerus Libyssae arenae
lasarpiciferis iacet Cyrenis,
oraclum Iovis inter aestuosi
et Batti veteris sacrum sepulcrum,
aut quam sidera multa, cum tacet nox,
furtivos hominum vident amores,
tam te basia multa basiare
vesano satis et super Catullo est,
quae nec pernumerare curiosi
possint nec mala fascinare lingua

Catullo, carme 7
(traduzione di Enzo Mazza)

Tu chiedi, Lesbia, quanti dei tuoi baci
possano farmi sazio e più che sazio.
Quanti granelli hanno le arene libiche
dove Cirene sta ricca di silfio,
tra l’oracolo torrido di Giove
e il sacro avello dell’antico Batto;
o quante stelle guardano i furtivi
amori degli uomini, quando tace
la notte: tanti baci sazierebbero
il tuo folle Catullo, e così il numero
non potrebbe saperne l’invidioso,
né un malvagio incantesimo gettarvi.

Catullo, carme 7
(traduzione di Ferdinando Cogni)
Lesbia, ‘t ma dmand quanta di to basái
sarísia basta sasièm e vansèna.
’Ma j’én il sàbi ’c s’a slerga a Cirene,
’c prudüsa ’l silfiu,
tra l’uràcul ad Giove infughè
e ’l sant sepulcar dal Bàtu antíg;
o i stól a rüd, quand tèsa la not,
i vòdn’il còpi cuciè inda scür;
tsé tant basái basè da té
n’à sé e n’in vansa ’l Catülu mat:
tant che i cüriús in ga pósan fè ’l cóit
e una linguàsa trèg al maloc.

I due carmi catulliani dei baci divennero subito famosissimi. Già nel I secolo d.C. erano diventati un punto di riferimento proverbiale. Marziale li ricorda espressamente in due occasioni. In uno scherzoso componimento sulla festa dei Saturnali sollecita da un suo giovane coppiere, di nome Dindimo, «baci, ma come quelli di cui parla Catullo» (da nunc basia sed Catulliana: epigr. XI 6, 14). In precedenza – sempre in un contesto omoerotico maschile che già di per sé distorce in senso ironico le coordinate del testo catulliano cui egli allude (epigr. VI 34) – aveva variato il motivo catulliano dell’infinità dei baci; per concludere però cercando di superare lo stesso Catullo. Marziale infatti gioca su tutti quegli aggettivi numerali che comunque ricorrono nei suoi due carmi, e va al di là del semplicene sciamus («per non sapere quanti sono») di Catullo, sviluppandolo nell’asserto secondo cui al vero amante, che cerca l’innumerevole, non passa nemmeno per la testa di stabilirne un numero per quanto vago (vv. 6-7): Nolo quot arguto dedit exorata Catullo/ Lesbia: pauca cupit qui numerare potest; «e non ne voglio tanti quanti ne diede, da lui pregata, Lesbia al melodioso Catullo: ne vuole pochi, chi li può contare». E qui la storia si complica: infatti nel Rinascimento francese, Joachim Du Bellay (1522-1560), animatore insieme a Pierre de Ronsard della scuola poetica della Pléiade, radicalizzò lo scherzo di Marziale trasformandolo (probabilmente con una sua scherzosa mala fede nata da gusto del paradosso) in autentici ‘versi d’accusa’ contro Catullo:

i desideri di Catullo non sono poi gran cosa,
il loro senso non può esser che modesto
dato che riusciva anche a contarli.

La notizia si legge nella Storia del bacio pubblicata dallo studioso danese Kristoffer Nyrop nel 1897, e da poco tradotta in italiano17, nei paraggi del dogma «il molto baciare rischia di rivelarsi pericoloso; esiste un solo rimedio: ‘devi curare le ferite con baci freschi’».
In entrambe le poesie di Catullo i due amanti felici vengono raffigurati come al centro di mille occhi che li osservano. La più parte di questi occhi sono malevoli, sono gli sguardi invidiosi di coloro che o frugano nella gioia spensierata della coppia per trarne materia di pettegolezzo, o addirittura si ripropongono di bloccarne la ‘scandalosa’ felicità con un maleficio incentrato sul numero dei baci. Ma nella seconda di queste poesie, che costituisce un’elaborazione più preziosa e letterariamente raffinata degli stessi motivi che animano la prima, a questi sguardi si aggiunge quello più distaccato e in qualche modo complice delle stelle che dalla loro alta postazione (e nella loro qualità quasi divina: «elle sono dee» annota Giovanni Pascoli, nella sua antologia commentata della poesia latina Lyra, Livorno 1895) di necessità scorgono, nei silenzi notturni, le furtive avventure degli amanti.
Il quadro che, pure nell’essenzialità, ne risulta, configura una prospettiva che Cogni, nella sua autoidentificazione catulliana, ha sentito come paradigmatica della più autentica poesia d’amore. Il poeta piacentino la impugna anzi come arma polemica per contapporre l’amore catulliano a quello di una sorta di ‘amante a tavolino’, quale, a suo modo di vedere, si coglierebbe nel canzoniere di Petrarca:18

Petrarca

Un amúr
c’as nüdrìsa ’d suspìr !
Che lavùr !
E ’l ga fa só un palàsi, un cansunér
piín ad ciàciar,
vargugnùs!
’L Catülu l’é l’amúr!
Lü l’é matt,
lü ’l na vól mill e mill
ad basái
da la sò Lesbia.
E anca ’d pó,
’me la sàbia
dal desért ad la Libia,
e ’me i stóll ad la nott silensiùsa,
coi murùs ch’i stann scùs inda scür...
Chist j’én amúr!

Petrarca
Un amore
che si nutre di sospiri!
Che lavoro!
E vi fa sopra un palazzo, un canzoniere
pieno di chiacchiere,
vergognoso!
Catullo è l’amore!
Lui è matto,
lui ne vuole mille e mille
di baci
dalla sua Lesbia.
E anche di più,
come la sabbia
del deserto della Libia,
e come le stelle della notte silenziosa,
con gli amanti che stanno nascosti nell’oscuro...
Questi sono amori!

Alla luce di testi come questo, le due poesiole dei baci dichiarano pienamente vinta quella che fu la scommessa di Catullo: scrivere per sé e per i suoi amici, ma lasciare una traccia (di vita, di freschezza) anche presso i lettori lontani, separati nel suo presente dalla geografia, e nel futuro dal tempo. Scorrendo distrattamente un insieme anche relativamente ristretto di scritti, come può essere quello della poesia italiana contemporanea, se ne raccolgono ulteriori prove. Renzo Paris, un poeta abruzzese, nato nel ’44 e attivo a Roma, si raffigura nel suo Album di famiglia (Parma, Guanda 1990) mentre, aspettando una telefonata della donna che ama, rilegge «Properzio, Catullo,/ e a quanti piacque scrivere/ del loro amore» (p. 36); e più oltre (p. 55), scrivendo egli stesso dei suoi amori, si riallaccia direttamente ai nostri due componimenti: «abbracciami, baciami, mi dici/ e ti abbraccio e ti bacio e poi/ ancora baciami»... Anche qui un gioioso e sensuale fiorire alle esperienze, mentre (p. 82) «i giorni vanno e la luce / è breve. Rinchiuso nella vita // scorro a gocciole».
Ancora più diretta è Patrizia Valduga, nella sua raccolta di poesie – ad alta temperatura erotica – Cento quartine e altre storie d’amore (Torino, Einaudi 1997), la cui composizione numero 5 (e sottolineo 5) inizia appunto «Baciami; dammi cento baci, e mille».
Esiste tuttavia un altro modo di accostarsi a questi due minuscoli ma – come si può apprezzare anche solo in questo cursorio panorama – immensi carmi. Uno dei tratti che maggiormente colpiscono nel carme 5 di Catullo è la contrapposizione fra il continuo ‘riproporsi’ dei giorni (i soles) nei cicli della natura e la ‘singolarità lineare’ del segmento di vita di cui consiste ogni avventura umana. Questa dolente contrapposizione non è, naturalmente, esclusiva di Catullo fra i poeti antichi; viene, per esempio, più ampiamente sviluppata da una celebre ode di Orazio (Carmina IV 7), rivolta all’amico Torquato. E tuttavia, forse per il particolare contesto in cui è formulata, essa finisce per ricondursi proprio al carme 5 come al suo testo archetipico.
Nella sua più recente raccolta, Stella di guardia, Mario Graziano Parri, muovendo lungo la spiaggia alla foce dell’Ombrone, torna con il pensiero alla moglie scomparsa e combina in una doppia epigrafe il poeta tardolatino che sfiorò quel non ignobile flumen, cioè Rutilio Namaziano, con l’altro che fermò nei suoi endecasillabi, a un tempo, la felicità dell’amore e la sua dimensione precaria. Ecco come si presenta il testo:19

Poesia Quarta
IN QUESTA NEBULOSA FRA ACQUA E TERRA

nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Carm. V 5-6

Tangimus Umbronem; non est ignobile flumen
quod tuto trepidas excipit ore rates:
tam facilis pronis semper patet alveus undis,
in pontum quotiens saeva procella ruit.
De reditu suo I 337-340

Sul fronte furioso e grigio dove la tempesta strappa
le viscere ai gabbiani, fra acqua e terra
stremate s’ammassano
ripide ossa contratte da quali mai
luoghi, da quale sfinimento del passato. Poco prima
che fluisca nell’inabbracciabile rumore del mare
questo fiume che cacciatori e poeti chiamano
Ombrone, sul pontile là di fradice assi dove venivamo
intanto che la ginestra esplodeva al monte
una vedova figura di donna come un sigillo
ossidato guadagna l’eternità. Non c’era
necessità di tanto accanimento
per privarci della speranza: bastava dirci
che la morte è
soltanto un immolarsi al silenzio.
novembre ’96

Lungo questo approccio si giunge a una testimonianza particolarmente toccante della fortuna di questi carmi ‘dei baci’, una poesia di Primo Levi, scritta il 7 febbraio ’46 sulla base di un ricordo risalente al campo di smistamento di prigionieri destinati alla deportazione che si trovava a Fossoli, nei pressi di Carpi:20 Il tramonto di Fossoli

Io so cosa vuol dire non tornare.
A traverso il filo spinato
ho visto il sole scendere e morire;
ho sentito lacerarmi la carne
le parole del vecchio poeta:
«Possono i soli cadere e tornare:
a noi, quando la breve luce è spenta,
una notte infinita è da dormire».

Fuori da una poesia di natura direttamente sensuale, il richiamo alla vita che sempre pulsa sotto la superficie dei versi catulliani si lascia cogliere addirittura in un campo di prigionia.

Il lutto per la morte del fratello

Passando all’altro grande e fortunato tema catulliano, il dolore per la morte del fratello, ecco testo e traduzioni (di Enzo Mazza e Ferdinando Cogni) del carme 101:

Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem,
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,
heu miser indigne frater adempte mihi;
nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale.

Per molte genti e molte acque marine,
vengo, fratello, a questo pietoso rito,
per renderti l’estremo dono di morte
e dire vane parole al muto cenere,
poiché la sorte proprio te m’ha tolto,
ahi, misero fratello, crudelmente.
Ora le offerte funebri che reco,
mesto dono, seguendo l’antico uso dei padri,
ricevi colme di fraterno pianto,
e a te sempre ave, fratello, e addio.
(Mazza, p. 303)

Pasè tèr e mèr, mèr e tèr,
écun ché a sta péna d’ufísi, fradél,
a fèt l’ültim presáit ad la mort
e dí gnint a la sónar müta,
zà che ’l dastái al ta m’à purtè via,
al ta m’à purtè via, pòr fradél, c’ l’èva mia.
Dés tó chisti, a l’üsansa di vèc,
trist righèj a una tomba:
cétia, bòta bagn dil me lacrim,
e par sáipar adiu, fradél.
(Cogni, p. 57)

Nella raccolta del 1982 Il franco cacciatore, Giorgio Caproni inseriva una poesia risalente al 1978 (e già pubblicata in rivista nel 1980), recante a titolo un emistichio del carme 101 di Catullo (v. 10): Atque in perpetuum frater. In nota, aggiunge: «Sono versi dedicati a mio fratello Pier Francesco, morto il 12 febbraio 1978 e sepolto in una gelida mattina di neve nel cimitero di San Siro a Genova-Struppa». E, in una lettera a Luigi Surdich datata 20 agosto 1986, riconosce esplicitamente che «è quasi la traduzione del celebre carme di Catullo, ripreso anche dal Foscolo »21.
Come in Catullo, riscontriamo in questa lirica un cenno iniziale alla propria dislocazione, toni sobriamente storditi, congedo senza appello (per scarsa prospezione metafisica). Splendidamente vi si intrecciano il bianco della neve e il nero della fossa, materializzando, sul piano delle immagini, un teatro di costernazione che costituisce l’adeguata cornice in cui segnalare il disincantato adempimento dei riti funebri d’uso:

Atque in perpetuum, frater

Quanto inverno, quanta
neve ho attraversato, Piero,
per venirti a trovare.

Cosa mi ha accolto?

Il gelo
della tua morte, e tutta
tutta quella neve bianca
di febbraio – il nero
della tua fossa.

Ho anch’io
detto le mie preghiere
di rito.

Ma solo,
Piero, per dirti addio
e addio per sempre, io
che in te avevo il solo e il vero
amico, fratello mio.

Il verso catulliano che qui Caproni aveva mutuato a titolo si completa con le parole ave atque vale. Non è un caso che le ritroviamo tradotte in un altro, successivo congedo fraterno di Caproni: sono le parole su cui si conclude il Tombeau per Marcella, scritto nel 1987, alla morte della sorella, e poi confluito nella raccolta postuma Res amissa:22
Tombeau per Marcella
Vedi come te ne sei andata
anche tu, Marcella...
in un soffio... Di me
tanto più giovane... Tu,
la mia sola sorella...

Ti sei alzata per prendere,
di là, uno scialle...
Non sei più ritornata...
La morte, di sorpresa,
ti ha colpito alle spalle...

Ora sono rimasto l’ultimo
della famiglia. E credimi,
Marcella mia, credimi,
tu quasi una mia figlia,
io mi vergogno, credimi,
d’essere ancora in vita...

come una colpa. E in un canto,
senza farmi vedere,
più di una notte ah se ho pianto
più per me che per te, Marcella...

Ma a che vale il lamento?
La legge è la separazione. E a stento
mi conforto pensando
che un giorno porterà pur via
anche me, il vento...

Saremo pari, allora.
In tutto. Tu. Piero. Io.
Pari nel più buio e assoluto
buio: nell’oblio...

Addio, Marcella. Addio.
Ti mando, anche se non l’udrai mai,
il mio «estremo» saluto.

Quel medesimo catulliano ave atque vale viene a connotare un altro gravissimo lutto in una delle tante splendide poesie dell’altissimo canzoniere di Enzo Mazza. A questo poeta appartato, che una forma di scontroso e ferito riserbo ha mantenuto lontano da più visibili occasioni editoriali, ho già dedicato alcuni interventi, cui mi permetto di rinviare per maggiori dettagli23. Lo abbiamo incontrato nelle pagine precedenti come fine traduttore di Catullo (Parma, Guanda 1962), un’impresa che risale agli anni lontani della serenità arroccata nel pacato fluire dei giorni, scanditi dal lavoro (l’insegnamento) e dalle vicende del nucleo familiare. Poi, il 6 settembre del 1981, il primogenito Fabio, passeggero su un motorino, perde la vita in un incidente stradale. Da allora, Mazza, ritiratosi con la moglie Elena e il secondogenito Gianluca in un casale nei pressi di Chiusi, investe la maggior parte del tempo in una scrittura che si propone di recuperare, e salvare, qualcosa di ciò che egli sa, nei fatti, irrecuperabilmente perduto. Ne è germinata una sorta di canzoniere perpetuo, ossessivamente (ma meravigliosamente) polarizzato su quel tema dominante, scandito in molteplici tappe, parzialmente sistemate in raccolta, ma per gran parte ancora inedite, tendendo ormai a prevalere, negli anni tardi dell’anziano poeta, la stanchezza, la sfiducia e l’abbandono. Leggeremo più oltre qualche altro suo testo, a proposito di Virgilio. Qui si ricordi, in margine a Catullo 101, la ‘fuga’ di voci a lutto che, in tessere di mosaico, affianca al poeta veronese Foscolo e Carducci24.

Addio, mi viene spesso
alle labbra, ave atque vale,
e il cenere muto e quella
gentil voce di pianto.
Parole d’altri e mie,
brevi consunte nuove,
che mi velano gli occhi e non consolano
chi m’era accanto.

Ancora al carme 101 di Catullo attinge il titolo una complessa e assai densa poesia che Andrea Zanzotto scrive «nel ricordo del mio caro fratello Ettore, scomparso più giovane di me, nel 1990»: Adempte mihi. Il testo – di cui ho citato una delle note a pié di pagina –, reca in calce la data 1993-95 e, articolato in due sezioni, compare già nel «Meridiano» Le poesie e prose scelte, come uno degli Inediti che (p. 864) «non ancora coordinati, costituiscono in certo modo un seguito di Meteo» e prefigurano la successiva raccolta Sovrimpressioni, in cui viene definitivamente sistemato25. A proposito di quest’ultima silloge va ricordato quanto vi precisa lo stesso Zanzotto: «il titolo Sovrimpressioni va letto in relazione al ritorno di ricordi e tracce scritturali e, insieme, a sensi di soffocamento, di minaccia e forse di invasività da tatuaggio» (p. 133). Traccia scritturale (e forse invasività) si precisano qui come ‘vento’ catulliano (più oltre vedremo invece un caso di memoria oraziana). Adempte mihi è un testo articolato in due momenti. Il primo si snoda all’insegna della cenere, la muta cinis di Catullo 101, 4. Ci sembra di osservare un paesaggio ammantato di neve, la neve dell’inverno che si ritira. Ma a ben guardare vi si tratta proprio della cenere muta che è nostro destino. Siamo di fronte a un’evocazione della morte, di un «sistema cinereo» per cui cenere è il fratello, cenere si insinua ovunque (parallela a «neve» e a «incanutire»), cenere sarà il locutore stesso, nello stadio futuro, successivo al suo essere canuto. Questa prima fase di tardo inverno, di freddo, d’immagini raggelanti ricorda il gelo e il bianco che sposano Catullo all’inverno nell’Atque in perpetuum, frater di Caproni. In Zanzotto ne è culmine il quasi lugubre saluto («un saluto trr trr trr») che, lavorando sulle consonanti di Ettore, le muta in un tremito da assideramento, in un ritmo algido, quasi uno stridor dentium nella bocca/occhio che lo vede/ saluta. E, sommandosi, in una fuga carica di sconforto, precarietà a precarietà, anche il «sistema cinereo » cui si è ridotti dopo la morte è insidiato dal vento, agente in grado di disperdere gli ultimi resti, sebbene anche forza foriera di ricordi: così che non sapresti se l’immagine affiorata ai pensieri presenti Ettore «insicuro nel vento» per un suo tratto di carattere qui trasfiguratosi in musica (un «‘la’ di diapason » della memoria), o invece perché tale insicurezza si attaglia a chi è già ombra e cenere, qualora si accampi nel vento. Alternativa a quel mesto saluto di tremanti, abbozzate consonanti, resta «aprire a una lata immortale doglianza, per te, del Tutto», che in parte coincide con quanto il locutore viene abbozzando nell’«unghia di lume», l’area della luce della lampada, che si dilata subito nell’apertura sul paesaggio invernale (le nevi), una volta di più allegorico di una canizie soggettiva che da neve invernale inclina a svariare nella cenere.
Nella seconda parte, cambia radicalmente scenario, secondo una dislocazione che, come si constatava già a proposito di Caproni, è tratto distintivo dell’archetipo catulliano (101, 1: multas per gentes et multa per aequora vectus), e sulla quale s’insiste difficilmente per caso: «Forse movendo in poco lembo di spazi/ ad altre terre in/ questo soffocante dover essere». Inversamente, rispetto a Catullo, la dislocazione non appare subito funzionale a una ricerca di contiguità con il defunto, ma forse più a una ricerca di medicazione alla ferita e al fato di chi resta, ‘condannato’ a un’esistenza in vita che gli risulta dolorosa. Ma anche questo viaggio appare ben poco aperto alla speranza, se concepito come un derivare al largo, forse verso ghiacci polari, nel futuro che al fratello Ettore è precluso.
Siamo tuttavia in Aprile, sui colli d’Este, a casa dell’amico Marco M., tra colli non «proni ai diluvi », ma – quasi anagrammaticamente – folti di «olivi ». Qui, spostatosi dalle sue sedi, lontano da pervadenze di cenere/neve, Zanzotto si trova in contatto con altra pervadenza – che riscuote il suo assenso («acconsentiamo») –: quella della primavera, del verde, della natura in germoglio. Allora – lontani dall’inverno e forse perché in primavera, in un aprile per un attimo sottratto all’ossessivo inseguirsi di euforie e depressioni, tutto rinasce – prende corpo la sensazione di un incontro, di uno schiudersi di un’altra possibilità di vita. L’esperienza è appena abbozzata e prospettata in chiave dubitativa, sotto l’egida dell’interrogazione iniziale: fasciata (com’è forse necessario) di enigma. È un incontro fra «ombre», «pur se in lingue tra loro orribilmente ignare»: con quel prezioso spazio bianco fra «lingue» e «tra loro», che allegorizza l’incolmabile iato. Torna il Leitmotiv della cenere come segno di ciò che è bruciato nel passato («è tutto un brusire di incinerati fuochi/paesaggi »): l’incontro sembrerebbe, nell’indeterminazione che governa la cronaca, trapunto di schegge di dialoghi, osservazioni, ricordi, in un indistinto che richiama la montaliana Voce venuta con le folaghe. Alla fine, i destini delle due diverse ombre sembrano collimare, forse per il piacere di un Dio lontano, con le coordinate (coordinate d’ordine, di conformità a regole) dei giochi infantili:

Adempte mihi26 (da Tonin)

È forse questo ricadere di ceneri
appena velanti ma infiltrate
ad ogni ammanco
ad ogni angolo stipite stigma di ammanco
nel vuoto dell’inverno che si ritira –
è questo instante, fitto, liscio commento di ceneri
a ciò che cenere non è ma sarà certamente,
commento soffocato come LA «la» di diapason
tintinnio mille volte vibrante ma
insordito dal sotto, LA diapason
di incredibili deficit di fisiche e menti
di piedi e di mani
diapason «la» in cui pare
di volersi ancora
riconoscere in altri arti, altri concepimenti di lingua,
è questo sistema cinereo di
appena soffiati squilibri
che mi riporta, fratello, a crollar giù col
col tendine che si strappa,
nel LA in cui solo ti percepisco
quale uno una figura che di sfuggita
gira l’angolo del cortile, di una
oh quanto nostra, nell’essere ignota, stradina
quasi di soppiatto sventata sottratta
Col tuo modesto soprabito al vento ti colgo, insicuro
nel vento, ti scuote esso via polveri e ceneri,
siccitoso maligno ti socchiude preclude agli sguardi
e, eh sì, posso posso atteggiare
la lingua la gola e i denti/occhi a un saluto trr trr trr
o aprire a una lata immortale doglianza, per te, del Tutto,
abbozzata nell’unghia di lume di nevi ormai lungi canuto

II

Sopra i colli di Este (Da Marco)
Forse movendo in poco lembo di spazi
ad altre terre in
questo soffocante dover essere,
situarmi nel futuro non tuo
sempre più al largo o all’addiaccio –
fratello, oggi col piede rivolto a più
soleggiati e scabri colli che i nostri
proni da sempre ai diluvi,
tra olivi con stupore, entrambi ombre, ci rinveniamo
individuiamo altre, altre svolte,
tra sulfurei, sepolti dèi
disseminati in frotte,
tra erose ma pur delicate
pervadenze e insinuazioni del verde,
tra seriche stasi e secche, tra sorreggenti veri?

Ed è tutto un confabulio-saltellio di
paesaggi nel modesto, non distimico, per un attimo, aprile
dal nostro sogno ad occhi bene allenati sgranato –
Ed è tutto un brusire di incinerati fuochi/paesaggi

«A noi venite» «non importa»
«non fa nulla» di limite in tramite discorrenti –
ma di voi sepolte/insepolte
tracce o mappe di furie
è giusto questo rincorrersi nel futuro?

Il caro fratello ed io senza dire affermiamo, affermiamo
e acconsentiamo al fiorire febbrile dei dossi
Pur se in lingue tra loro orribilmente ignare
«Deh paesaggi» «Non importa» «Non fa nulla»
La stradina verso mai narrati olivi ci guida, no ci disperde
«Quali, quali» «Sì venite» «Non fa nulla»
(ansimiamo a cancellare a riprendere cose a volo
a mettere in serbo a disacconsentire a
far incrociare come stecchini o ad immettere
come in giri di vitree palline
i nostri cammini-destini)
(1993-1995)

Tornando, per tirare un po’ le fila, al caso, cui si accennava per Ferdinando Cogni, di una autoidentificazione generale con il mondo di un singolo poeta, giova accennare qui alle liriche rivolte da Elio Andriuoli al ricordo di alcuni singoli autori latini. Si tratta come di momenti d’immedesimazione lirica, che scorrono sul palcoscenico di un libro. La raccolta in questione è Epifanie, e la sezione Leggendo antichi poeti procede come all’estrazione in versi di una radice quadrata del loro legato.27
Ecco cosa scrive di Catullo:

Catullo

Dolce bene, Catullo, oggi il tuo canto,
nel meriggio autunnale, ed il tuo affanno
per la fanciulla che tanto ti piacque
e da cui avesti gioia e dolore: il sale
da sempre della vita.

Li ridico
lentamente, i tuoi versi. Un grigio cielo
ha sconfitto la gloria dell’estate.
«Passer, deliciae meae puellae...». Vola
la mente altrove: al fresco peristilio
di una casa lontana, ad un giardino,
a penisole d’oro, alla lusinga
di due occhi ridenti, a un chiaro nome.

S’è fatto tardi. In alto il giorno muore.
Com’è lieve la ruota del destino
per un sogno che facile t’avvinca!

2. Virgilio

Gli esuli, i profughi e il motivo del padre sulle spalle
Riallacciandomi alla fine del precedente paragrafo, riporto la poesia che Elio Andriuoli dedica a Virgilio:

Virgilio

La divina dolcezza e l’armonia
e lo scorrere limpido del verso
sempre mi affascinarono. Parole
ripeteva la mente; e le parole
erano tue, di sempre (e la saggezza
malinconica un poco e un poco altera).
«Arma virumque cano...». Si fa sera
sopra pagine eterne. Io sono desto.
Lenta sale la nebbia. Ritornare
a quale patria? Dove ritrovare
l’esistenza smarrita se non resta
alla fuga dei giorni spazio? Il piede
esita sopra un baratro. La fede
del tuo eroe non abbiamo; e non c’è porto
che ci raccolga dopo la tempesta,
né una voce che in noi dissipi il dubbio
per ciò che non sappiamo, né regina
che innamorata ci raccolga, sorta
per noi da un lungo sonno, né una dea
che ci drizzi alla meta che cerchiamo
e che un sogno purissimo già crea
per la promessa di un’età futura.

Virgilio figura qui come un archetipo per i temi del viaggio, degli esuli in cerca di una patria, della carenza di gioia lungo l’itinerario della vita, anche se Enea poté per un breve momento trarre beneficio dalle consolazioni di Didone. Sono tutti motivi assai vitali nella fortuna contemporanea del mantovano. E il discorso richiederebbe assai più ampio trattato; mi permetterò di rinviare, in linea di massima, al mio ricordato intervento su Virgilio nei poeti e nel racconto, ritessendo, in parte, alcune trame su cui là mi sono già diffuso.
In tema di esuli, non mi sembra fuori luogo riproporre qui una folgorante strofetta di Tiziano Rossi. In Gente di corsa (Garzanti 2000), Tiziano Rossi ritrae in veloci quartine svariati personaggi del nostro presente, individui colti nella quotidianità, ‘uomini non illustri’, che in quei quattro versi lasciano un minuscolo monumento di sé (basamento ne è il titolo, che, posto fra parentesi, sempre collima con i loro nome e cognome, ora variamente compressi in iniziali, ora arricchiti invece da un qualche «signor » o «prof.»). Fra gli altri, l’«extracomunitario» (p. 93):

(Nader A.)

Detto immigrato: sopra questo ovest
(strano catrame, bagnato impiantito)
fumando sigaretta guardingo si trapianta,
ignoto Enea, che mica lo si canta.

L’Enea che invece è stato cantato ha, fin da tempi pre-virgiliani, una sua specifica icona nel momento in cui l’eroe si carica sulle spalle il vecchio padre. L’immagine di questo episodio si è una volta per sempre depositata nella nostra memoria culturale di occidentali, in una caratteristica ed assai intensa combinazione di pathos e di pietas.
A questa ‘icona’ dell’Eneide si lasciano ricondurre varie storie, alcune di natura più privata, altre di più ampia risonanza. Fra le prime, metterei la lettura epico-affettiva che Maurizio Meschia, un poeta attivo a Milano (dov’è nato nel ’52), offre di un suo momento di vita con il padre29.
Fra le seconde, svetta il poemetto di Giorgio Caproni Il passaggio d’Enea (del 1954, articolato nei tre tempi 1. Didascalia, 2. Versi, 3. Epilogo). Nella Nota che chiudeva, nel 1968, Il «Terzo libro» e altre cose, Caproni scriveva: «[...] l’idea del poemetto mi nacque guardando il classico monumentino ad Enea che, col padre sulle spalle e il figlioletto per la mano, stranamente e curiosamente, dopo varie peregrinazioni, a Genova è finito in Piazza Bandiera presso l’Annunziata, una delle piazze più bombardate della città»30. L’episodio cui Caproni fa riferimento con queste poche parole è in realtà uno di quegli eventi che intervengono, come casualmente, a segnare profondamente l’esperienza di un uomo e a condizionare irrevocabilmente l’intera sua lettura delle proprie esperienze. Lo dimostra il ricorso quasi ossessivo con cui si ripete, fra mille ritocchi, il racconto di quel memorabile incontro, da una prima prosa risalente al ’48, fino agli ultimi anni della sua vita. Della ventina di occasioni in cui il poeta torna sul tema, trascrivo qui un passo del 1979, rifluito nell’antologia tematica Genova di tutta la vita (1983):31

È quindi naturale che, come la mia persona, anche la mia poesia sia fatta, in discreta misura, di Genova. Non avrei mai scritto Il passaggio , per esempio, se non avessi incontrato, in piazza Bandiera, Enea in persona. Credo che Genova sia l’unica città del mondo ad avere eretto un monumento a Enea. A Enea secondo la figurazione più scolastica, col vecchio Anchise in spalla e il figlioletto Ascanio per la mano. Nulla d’eccezionale dal punto di vista artistico. Si tratta d’un modesto fontanile, opera del Baratta, del quale si servivano le bisagnine per lavare gli ortaggi. [...] Nulla di artisticamente eccezionale, ripeto. Ma eccezionale è il fatto che giustappunto Enea, scampato dall’incendio di Troia, sia andato a finire proprio in una delle piazze più bombardate d’Italia. In quel povero Enea vidi chiaro il simbolo dell’uomo della mia generazione, solo in piena guerra a cercar di sostenere sulle spalle un passato (una tradizione) crollante da tutte le parti, e a cercar di portare a salvamento un futuro ancora così incerto da non reggersi ritto, più bisognoso di guida che capace di far da guida...

La tradizionale iconografia di Enea si leva dunque, per forza di simbolo, a una dimensione epocale, che vediamo poi riproporsi in termini particolarmente nitidi nel Passaggio d’Enea, e in particolare all’inizio della stanza IV dei Versi:.

Nel pulsare del sangue del tuo Enea
solo nella catastrofe, cui sgalla
il piede ossuto la rossa fumea
bassa che arrazza il lido – Enea che in spalla
un passato che crolla tenta invano
di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo
ch’è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi ritto. Nell’avvampo
funebre d’una fuga su una rena
che scotta ancora di sangue, che scampo
può mai esserti il mare (la falena
verde dei fari bianchi) se con lui
senti di soprassalto che nel punto,
d’estrema solitudine, sei giunto
più esatto e incerto dei nostri anni bui?

Il primo e il terzo componimento del micropoemetto valgono a meglio innestare quell’antico frammento di cultura sulla duplice contingenza della civiltà moderna e di una singola esperienza percettiva dell’individuo Caproni che investe quello spunto di una trasfigurazione onirica: frusciare e luci di automobili che penetrano nella stanza della casa cantoniera muovono, lungo le pareti, il soffitto e il cuore, il fantastico filmato di quell’antico, diverso passaggio. Ma non va dimenticato che, sempre sull’alta sintonia dei simboli, l’icona di Enea con padre e figlio, che – sebbene in compagnia, e anzi proprio perché così accompagnato – s’installa al vertice della solitudine, sviluppa anche qui i consueti armonici della proiezione a un viaggio e alla conseguente conquista di una nuova patria, quelli più propri al suo essere – come scrisse Brodskij – «sempre in partenza»32.
Particolarmente nella V stanza dei Versi (p. 156):

Nel punto in cui, trascinando il fanale
rosso del suo calcagno, Enea un pontile
cerca che al lancinante occhio via mare
possa offrire altro suolo – possa offrire
al suo cuore di vedovo (di padre,
di figlio – al cuore dell’ottenebrato
principe d’Aquitania), oltre le magre
da chiunque non vuol piegarsi. E,
con l’alba già spuntata a cancellare
sul soffitto quel transito, non è
certo un risveglio la luce che appare
timida sulla calce – il tremolio
scialbo del giorno in erba, in cui già un sole
che stenta a alzarsi allontana anche in cuore
di quei motori il perduto ronzio.
Ma aggiungo un particolare che mi sembra a lungo sfuggito: la conclusione dell’Epilogo porta a sovrapporsi a quella di Enea l’immagine di un altro eroe virgiliano singolarmente fortunato lungo il nostro Novecento: Palinuro33.

Ecco gli ultimi versi:

Avevo raggiunto la rena,
ma senza avere più lena.
Forse era il peso, nei panni,
dell’acqua dei miei anni.

La curiosa espressione finale mi sembra spiegarsi unicamente alla luce del verso virgiliano in cui Palinuro narra appunto il suo faticoso aggrapparsi alla riva, appesantito dai panni madidi d’acqua (Aen. VI 359 madida cum veste gravatum).

Ungaretti e la Terra Promessa

Il rilievo di Palinuro nella saga di un Enea in cerca di una nuova terra ci conduce direttamente a una delle massime ‘riscritture’ di questo materiale virgiliano: quella di Giuseppe Ungaretti, con il poema incompiuto La Terra Promessa (19501, 19542), la sua proiezione a un «paese innocente» e il rilievo che in essa viene ad assumere la figura-simbolo del timoniere – il «pilota innocente» (Petrucciani) è definito appunto insons da Verg. Aen. V 841 –, con ogni altra deriva che intorno al suo personaggio germoglia. Il tema è stato ampiamente e autorevolmente studiato, soprattutto da Mario Petrucciani; data la rilevante complessità dell’argomento può tuttavia tornare utile, qui di seguito, una breve sintesi della problematica34.
Per Ungaretti la convergenza con il mondo di Virgilio si articolò in un processo lungo e diluito nel tempo. Vi ebbero parte, accanto alle letture, le concrete esperienze di vita. Innanzitutto il soggiorno a Roma dai primi anni Venti: «vivendo a Roma, nel Lazio, come non potevano non diventarmi famigliari i miti, gli antichi miti? Li incontravo ovunque e continuamente »35.
. E quindi i viaggi, specialmente quello nel Meridione del ’32. Scorrendo gli studi che si sono più a fondo interessati del tema, sembrerebbe di poter dire che, come Caproni incontrerà Enea «in persona » in Piazza Bandiera a Genova, così Ungaretti abbia innanzitutto incontrato Palinuro. Ci si riconduce usualmente alla sua prosa di viaggio La pesca miracolosa, datata 5 maggio 193236.
.Ungaretti vi descrive la sua visita a Capo Palinuro, e v’inserisce – oltre a vari importanti cenni al «fedele nocchiere d’Enea» (p. 151) – il rapido resoconto di come accidentalmente una sera fosse rimasta impigliata nelle reti di alcuni pescatori di alici un’antica testa di Apollo che, veduta al museo di Salerno, «ha nel suo sorriso indulgente e fremente, non so quale canto di giovinezza risuscitata».
A queste emozioni la critica37 riallaccia le più remote radici di quell’ampio progetto, di faticosa gestazione e destinato a rimanere incompiuto, che sarà il poemetto La Terra Promessa, i cui primi abbozzi risalgono al 1935, e che conoscerà una prima edizione nel 1950 e una seconda nel 1954. In esso, personaggi e episodi dell’Eneide conoscono una risemantizzazione simbolica che punta su alcuni concetti cardine della poetica ungarettiana quali il rilievo dell’innocenza e quello della memoria. Il tutto con una grande libertà ricreativa, che approda ad alcune fondamentali dichiarazioni programmatiche, sebbene poi non sia sempre agevole rintracciarne la riformulazione nei complessi ‘frammenti’ superstiti di questo enigmatico torso. Il principio di fondo è enunciato da Ungaretti medesimo: «sono fatti che si trovano descritti nell’Eneide, con alcunché d’aggiunto della mia invenzione, poesia volendo che ogni uomo a suo talento la ravvivi col sale della propria anima».38
Secondo questo «alcunché d’aggiunto», sussiste, nel dominio dell’esistenza, una opposizione fra la precarietà, propria di questo mondo, e una stabilità collocata altrove, in una terra promessa che coincide per forza di cose con l’aldilà. In questo quadro di riferimento, il viaggio degli Eneadi verso una meta designata dal Fato assume per Ungaretti due significati: viaggio nella memoria (per salvare ciò che si può di questa vita) e viaggio verso un’altissima meta (proiezione a una salvezza definitiva).
Sul primo fronte, se l’esistenza è teatro di transeunte e di oblio, e tutto ciò che più vi risplende, perfino la Bellezza stessa nelle sue più alte espressioni, è posto in scacco dalla disgregazione e dalla dimenticanza – ovvero, in un’unica parola, dalla «morte» –, solo la memoria può agire da antidoto a questa dinamica e fare sì che ciò che è stato vivo resti vivo per sempre (Ungaretti Saggi p. 462; cfr. 750).
Sull’altro, il viaggio diviene il simbolo di un’eterna ricerca di una meta edenica, quête che si connota anche religiosamente in chiave cristiana. Così, l’Italia cui deve giungere Enea si sovrappone alla Terra che è «promessa» al popolo d’Israele nell’Antico Testamento, nonché a quella vita eterna celeste che il Cristo ha indicato come meta di salvazione ai suoi seguaci. E, per raggiungere questa meta «innocente », occorrono splendidi eroi di bellezza (Enea) e d’innocenza (Palinuro, pilota insons).
Su tutto ciò disponiamo di significative testimonianze di Ungaretti stesso riportate da Leone Piccioni nel saggio Le origini della «Terra Promessa» (in Ungaretti Poesie, pp. 428 ss.):

Gli scritti di prosa del 1931-1932 e le poesie di quel periodo [... (ne segue un elenco)] indicano bene come mi sia avviato alla Terra Promessa. Tutta la mia attività poetica, dal 1919, si svolgeva in quel senso: un senso più obbiettivo che non fosse quello dell’Allegria, e cioè una proiezione e una contemplazione dei sentimenti negli oggetti, un tentare di elevare a idee e miti la propria esperienza biografica [...].
La bellezza perenne (ma inesorabilmente legata al perire, alle immagini, alle vicende terrene, alla storia, e quindi solo illusoriamente perenne – e lo dirà Palinuro) prese nella mia mente aspetto di Enea. Enea è bellezza, giovinezza, ingenuità in cerca sempre di Terra Promessa, ove fa sorridere e incantare nella bellezza contemplata e fuggente, la propria. Ma non è il mito di Narciso: è unione animatrice di vita della memoria, della fantasia e della speculazione: di vita della mente; è unione feconda anche di vita carnale nel lungo susseguirsi delle generazioni [...].
Molti fatti della mia vita e di quella della mia Nazione, sono andati necessariamente ampliando nella stesura il progetto primitivo della Terra Promessa. Esso, in ogni caso, anche oggi, dovrebbe svolgersi al punto in cui, toccata Enea la Terra Promessa, le raffigurazioni della precedente sua esperienza si desterebbero ad attestargli, nella memoria, di come andrebbe a finire l’attuale, e via di seguito tutte, sino a quando non sia dato agli umani, consumati i secoli, di conoscere la Terra Promessa vera.
Sul piano della poesia intesa alla conservazione delle immagini di vita, e dunque recante forte accento sul motivo della memoria, assumono grande rilievo le figure di Enea e di Didone. Enea innanzitutto in quanto – come scrive Ungaretti stesso – ipostasi della Bellezza stessa, cioè del primo degli oggetti transeunti da sottrarre alla dissipazione. Ma poi anche come araldo e simbolo di una memoria storica, di scavo nella memoria propria e della sua stirpe: soprattutto per via della sua catabasi del VI libro39
. Didone, invece, in quanto punto di vista collocato al di là della consumazione di un’esperienza: di là dal distacco da Enea, di là dal distacco dalla vita medesima. La sua voce-memoria interamente volta al passato si articola così in periodi ipotetici, trova il suo ‘modo’ verbale nel condizionale, che Petrucciani40
ha prestigiosamente definito «una struggente orchestrazione favolosa dell’impossibile». Per questo Didone – che in maniera più compiuta incarna l’innamorato attaccamento alla vita e alle sue parvenze, e dunque rappresenta anche la sensualità e l’eros – si candida meglio d’ogni altro personaggio virgiliano al ruolo di chi è su una soglia, di chi sta nel punto esatto in cui la vita sfuma nel nulla, la bellezza cede alla morte. In lei si rappresenta allo stadio apicale e quintessenziale la condizione ‘naturale’ dell’uomo, la precarietà indissolubilmente legata alla nostalgia, al desiderio vano che ciò ch’è stato ritorni. Asseriva Ungaretti (nella citata testimonianza riferita da Piccioni, p. 430):

Didone veniva a rappresentare l’esperienza di chi, nel tardo autunno, stia per varcarlo; l’ora in cui il vivere stia per farsi deserto: l’ora della persona dalla quale stia per separarsi, tremendo, orribile, l’ultimo fremito della gioventù. Didone è l’esperienza della natura di contro a quella morale (Palinuro).

Già, perché non dobbiamo dimenticare che, accanto al tema della memoria come resistenza alla morte, spicca in grande rilievo il taglio metafisico dell’operazione, la proiezione alla terra promessa che – per vie mitico-simboliche – allinea in Ungaretti la materia eneadica a una sorta di cerca del Graal.
In questo contesto, più ancora di Enea, svetta in Ungaretti Palinuro, e per più di una valida ragione. Ogni cerca del Graal richiede il suo «puro» protagonista. Il Perceval di turno («der reine Tör» per esprimersi con Wagner: «il puro folle» incarnato dal suo Parsifal), è qui appunto il nocchiero di Enea. Come ricordavamo, è lo stesso Virgilio a qualificarlo come insons, tratto che lo porta direttamente in collisione con il mito ungarettiano dell’«innocenza». Inoltre, una delle sue caratteristiche principali è la fedeltà al proprio compito, la sua lotta contro le forze che glielo vorrebbero fare abbandonare. Sarà dunque Palinuro il personaggio più adatto a incarnare, con le citate parole di Ungaretti, l’esperienza morale e la tensione di questa esperienza morale a quel «paese innocente » che è la Terra Promessa cui aspiriamo. Naturalmente l’esperienza etica non sarà sufficiente, perché Palinuro è come tutti soggetto alle leggi di quest’esistenza e dunque votato a sconfitta, a tragedia, nonostante la sua innocenza: così avviene nel mondo (e del resto la vicenda stessa di Cristo ne è la più alta conferma). In calce alla celebre canzone sestina (Ungaretti Poesie pp. 250 s.) Recitativo di Palinuro è lo stesso poeta a annotare (Poesie p. 566):

L’Eneide è sempre presente nella Terra Promessa, e con i luoghi che furono suoi. Lo scoglio di Palinuro, quasi davanti a Elea, dopo Pesto, è quello scoglio ingigantito nel quale la disperata fedeltà di Palinuro ha trovato forma per i secoli. È la mia, una narrazione, un componimento di tono narrativo. Va, al timone della sua nave, Palinuro in mezzo al furore scatenato dall’impresa cui partecipa, l’impresa folle di raggiungere un luogo armonioso, felice, di pace: un paese innocente, dicevo una volta.

E d’altronde anche Palinuro, figura maggiormente impegnata sul fronte della proiezione metafisica, verrà riassorbito nell’altra grande corrente assiologica della Terra Promessa e, proprio in forza di quella sua fedeltà ai compiti su cui insiste Virgilio, si farà al contempo simbolo in Ungaretti di fedeltà alla vita per come si conserva nella memoria; e anzi allegoria della vita che sconfigge (o almeno tiene in scacco) la morte tramite la potenza del ricordo41.
Il patrimonio poetico trasmessoci da Virgilio diveniva dunque, per asserzione dello stesso autore, il centro focale dell’intera sua operazione artistica per com’egli l’avvertiva nei suoi ultimi anni: e lo diveniva – una volta di più – con immensa forza propositiva, con incommensurabile spinta a nuove creazioni. Fino dal ’43, del resto, Ungaretti ne aveva presa piena consapevolezza, scrivendo: «Virgilio ci accompagna non più come un emblema, ma come uno dei fatti della nostra vita».42

Enzo Mazza e gli dei crudeli

Molte altre voci, di poeti famosi e di poeti meno conosciuti, andrebbero ora qui inseguite, fra cui quelle di Saba e Bertolucci, Sinigaglia, Erba, Montale e di nuovo Zanzotto. Rinviando ancora una volta per spunti e indicazioni bibliografiche a Virgilio nei poeti,44 non vorrei rinunciare a tornare anche in questo paragrafo a richiamare l’attenzione sulle poesie di Enzo Mazza, di cui già si scriveva più sopra, a proposito di Catullo (vd. nota 23 e contesto).
Nel II libro dell’Eneide (vv. 588 ss.) si legge un altro episodio cruciale del legato virgiliano: quello degli dèi che sconvolgono il mondo, invisibili a tutti se non all’eroe favorito dalla divina madre Venere. Questa crudeltà degli dèi, capricciosamente indifferente anche alle sorti dei più fulgidi eroi e delle più prestigiose creazioni dell’uomo (il primo fra gli dèi distruttori che Venere addita a Enea è proprio quel Nettuno che aveva contribuito alla costruzione delle mura di Troia) è una possente allegoria dell’ineluttabilità del male preteso dai superiori destini. E trova una sua specifica funzionalizzazione lungo le nove altissime raccolte in memoria del figlio Fabio su cui, dal 1981, Enzo Mazza ha fermato il proprio tempo, non dedicandosi ad altro più che a questo canzoniere, edito parte in proprio, parte per quella sorta di collana e casa editrice a un tempo che è la Biblioteca Cominiana da lui curata insieme a Bino Rebellato. Anche perché la crudeltà di una Sorte chissà da Chi (e chissà quanto responsabilmente) governata viene a convergere con il ‘tono’ più caratteristicamente virgiliano: l’intenerita commiserazione dei personaggi travolti dai disegni provvidenziali, si chiamino essi Creùsa o Didone, o portino invece meno celebri nomi di oscuri eroi caduti in guerra, a Troia come nel Lazio.
E la storia di Fabio tanto più tende a farsi storia di un eroe virgiliano schiacciato dagli dèi crudeli, quanto più ossessivo ritorna in Enzo Mazza il ricordo del figlio intento, sotto la sua guida, proprio a Virgilio. Ecco una lirica da Poesie per Fabio (Biblioteca Cominiana 1987, pp. 145 s.), in cui colpisce e ferisce l’insistenza sul verbo «piegare», culminante nel doloroso finale: piegato dal dolore, il padre ripiega nella memoria e assimila se stesso, ‘ripiegato’ su Fabio, a un foglietto piegato su cui sia stato scritto dagli dei o dal Fato il destino di Fabio:

Quante volte lo vedesti
piegare l’erba, allungarsi
a respingere il cuoio del pallone
a mani aperte o con la punta
del piede, a rilanciarlo
altissimo seguendone con l’occhio
la traiettoria, e quante
volte l’hai visto ripiegato,
stanco, sul letto, ma per poco,
e poi di nuovo
flettere il busto nella corsa,
piegarsi quasi a una fettuccia
irraggiungibile. Amo
piegarmi su di lui piegato
sullo scrittoio a leggere
di Cassandra, di Enea, di eroi
che non so come immaginava
rilucenti nei versi che più tardi
scandire avrebbe saputo.
Lui stesso aveva in sé
i corrucci, l’orgoglio
che spengono gli dèi con un cenno,
gelosi forse che gli eroi respirino
oltre la giovinezza.
Ne aveva il tratto inalienabile
e il sorriso, l’incauta
fiducia. E quante volte
mi ha piegato il dolermene
senza conforto di carezza,
su di lui ripiegato
come un foglietto in cui tutto
del suo destino era scritto.

Con ancora maggiore precisione lo spunto ricorre in una poesia successiva: Nella calante oscurità (Tibergraph Editrice, 1988), n. 76 (pp. 67 s.), in cui Mazza rievoca le tenerezze che ingentilivano un tempo le sere di letture comuni, destando immagini di sogno (cristallizzate nella parola «effigi» per una convergenza fonica con il nome esposto in rima «Virgilio» – nonché con il sostantivo rimasto impronunciato: «figlio»). Nel disincantato understatement caratteristico di Mazza, l’alloro dei poeti è segno di vana aspirazione, di piccola cosa, ambizione minuscola, sotto il peso di quel destino che assimila Fabio ai giovani eroi travolti dell’Eneide:

Non sono bravo a far versi,
anche se afferma l’opposto
un amico pietoso, perché
non fanno essi i pioli
della fragile scala: non avrei
l’agilità d’un indigeno
per toccarne la cima. Non oso
quasi più far versi: i soli
che intenerivano, un tempo,
le mie sere, le effigi
a cui mi piegavano. Tu
volgevi in prosa Virgilio,
a intendere cominciavi
gli dèi, le loro
finzioni, gli eroi
pugnaci, irrequieti,
sovrastati dal fato, l’alloro
che cingeva i poeti.

Alla luce del poi, Mazza sembra quasi lamentare che Virgilio, studiato insieme a Fabio, non abbia saputo loro aprire interamente gli occhi perché cogliessero la trama divina che loro si apparecchiava. E, ora che ne è irrevocabilmente separato, il padre rinuncerebbe volentieri a pose professorie che talvolta tendevano a dividerli (ibid. n. 11, pp. 15-16):

[...]
mi basta che tu venga
come quando correva
il tuo ultimo anno.
Non ci sarà più traccia
di malintesi, non ti citerò
un esametro.
[...]

Ciò non impedisce però che, fra le infinite e sempre incredibilmente nuove fantasie che Enzo Mazza ricama attorno al nuovo stato del figlio, ne ricorrano di esemplate su modelli antichi, ormai costretti in una sua fruizione di monade, destituiti di ogni possibile eventuale fomite d’incomprensione. Ecco affiorare allora un altro spunto fra i più indelebili del poeta mantovano – quantunque nella tradizione occidentale egli ne condivida il monopolio con Catullo –, e cioè quello del fiore reciso, che in Virgilio occorre per Eurialo (Eneide IX 433 ss.): Nella calante oscurità (Tibergraph Editrice, 1988), n. 69 (p. 64):

Ti vedo ripiegato sulla mamma
senza toccarla, o fiore virgiliano
su cui passò il gran carro,
lacrime fisse come perle in cielo,
o fiore che non sogna,
dolendosene, lei, te ripiegato
sul ciglio d’ogni strada,
addormentato, forse,
in una luce che non regge acume.
3. Orazio La lirica di Andriuoli dedicata a Orazio così ne stila un evocativo profilo:44

Il bonario sorriso e la saggezza
furono il vivo emblema dei tuoi giorni,
su cui alto levasti il canto. A me,
ora, tardo tuo postero, che leggo
scandendo i versi che un dì cesellasti,
il miele me ne giunge che fa dolce,
nella sua rete d’ombre, questa sera
in cui tra rosse nubi il sole muore.

Una sorta di sintesi di temi salienti della lirica oraziana, poggiata su una profonda conoscenza che si è espressa in famosi, specifici saggi, si legge nella defilata – e dunque poco conosciuta –, ma significativa produzione in versi di uno dei maggiori latinisti italiani di oggi, Alfonso Traina.45

La lirica Orazio vede apostrofato il poeta stesso («lirica come dialogo», per esprimersi con una formula di un altro importante latinista, Antonio La Penna). Il piccolo ‘centone’ allusivo di luoghi di Orazio lirico riformula il tessuto di riferimenti in ‘manifesto’ di poetica oraziana:

Odi l’urto di zoccoli sui duri
selciati della storia; vedi imperi
sui quali oscilla senza fine il sole:
fuggi l’eterno. Tu lo sai: l’eterno
maschera il nulla.
Canti le donne, canti il breve gioco
della bellezza che ci sfiora e passa
– un nodo biondo, un crepitio di risa
nell’ombra, il lampo di una spalla nuda –:
fuggi l’amore. Tu lo sai: l’amore
vuole il domani.
Fuggi il domani, che sull’oggi allunga
ombra di morte. A chi non ha futuro,
l’oggi è l’eterno.
Vano è fuggire, tu lo sai, se l’ansia
segue i tuoi passi, come l’ombra il corpo.
Chiudi lo spazio in un cantuccio, e vivi.
Fuori, l’estate sfoglia le sue rose;
tu non le cogli: il mirto è sempre verde.
Fuori, l’inverno impietra le foreste;
tu bevi, al fuoco, con gli amici, e spicchi,
uno alla volta, gli acini di vita.

Le evanescenti figurine femminili delle odi di Orazio possono valere come modelli della memoria e unità di misura dei ricordi, per esempio in questa delicata poesia dell’ultima silloge di un poeta dai toni spesso oraziani come Paolo Lanaro:46

Epigrafe

Come la Cloe di Orazio,
non volle prendersi quel che capitava.
Si nascondeva nella sua veste di cotone,
in cui smoriva un girotondo d’api.
Passarono molti inverni e a scuola
era freddo, non si poteva chiacchierare.
Nei corridoi rimbombavano gli sciacquoni.
Le stelle disegnate sul diario
parevano lunghe stecche di ombrelli.
E stelle avrà abbracciato nel suo sfinimento,
toccando il cielo in cima a un pilone di ferro,
incantata dal fuoco dei giaggioli.

Guardando brevemente alla fortuna del sermo, fra le ‘riscritture’ del ricordato Sovrimpressioni, Andrea Zanzotto ne include una che muove dalla celebre satira oraziana ‘del seccatore’ (pp. 102 s.; cfr. Hor. Sat. I 9, 1-2):

Totus in illis

Ibam forte via Sacra... nescio quid meditans
nugarum, totus in illis...
(Orazio)

Così, in quelle che belle
e quasi tenere ventose
erano le attenzioni
che cancellavano d’intorno
al punto vero tutte l’altre cose,

mi cancellavo
come Orazio in via Sacra,
perivo di limpida vita
nella freschezza assorbente
di una piccola idea quasi dea
che m’isolava dal tutto
anche se per un solo minuto.

Ora, totus in illis
torno ai pensieri di ieri
quali frammenti di diamanti-misteri
imprigionati come in un’apnea.
Intorno è un senza-niente
che nessun baratro eguaglia
un’assenza che rende
ogni contesto festuca e frattaglia
e langue dell’affiorare
come atto stesso dell’evaporare.

«Totus in illis-illa» rovesciato
come vuota bouteille-à-la-mer
solo a se stessa indirizzata
e sgomenta di sé –
palpito-smalto
già di perente ere
dove niente è più alto
che d’una ustrina47 lo spento braciere.
Totus-totus
in illa insula immotus.

Colpisce, in questo testo, la torsione pessimistica che viene a subire la bonarietà oraziana, piegando al drammatico. L’accensione è il ricordo di un momento felice in cui le «tenere ventose» di un attimo, di una chissà quale «piccola idea» divenuta «quasi dea» (la parola iscritta è più «piccola» di quella in cui si inscrive, ma più miracolosamente potente) isolarono la voce narrante «dal tutto», lo sottrassero al divenire in un minuscolo eden di vita felice, che cancella ogni cosa e vede anche il poeta cancellato «come Orazio in via Sacra».
In un momento successivo (l’«ora» della terza strofa) la voce ricerca un totus in illis di secondo grado, tornando a quelle fascinazioni. Al contempo però prende corpo, affiora alla registrazione della poesia e dunque dell’occhio che la legge, ciò che sta intorno all’io assorto nei ricordi: attorno c’è il nulla, il vuoto, un «senza» che è anche un «niente» (questo il senso del trattino che fa da ponte fra le due parole: «un senza-niente»). Questo vuoto «che nessun baratro eguaglia» – probabilmente il nulla dello sconforto, della depressione – scava attorno a quel momento felice una condizione di insularità che si fa improvvisamente drammatica. L’io lirico, un tempo assorto e felicemente ‘isolato’ nel suo ricordo, diviene improvvisamente un’isola sospesa al centro di quel vuoto, e al contempo una bottiglia con un messaggio per sé medesimo, «solo a se stessa indirizzata/ e sgomenta di sé», affidata non si sa con quali prospettive o speranze a quel mare-abisso-baratro. E direi che proprio a tale abisso, per libera associazione logica, vada ‘appoggiato’ il successivo e smaltato palpitare, che risulta dalla spietata combustione del passato, sì che questo specifico mare si farebbe, con sinistra sovrapposizione di immagini opposte, anche fuoco, forno crematorio. Insensibilmente, dalla svagata trasognatezza oraziana di partenza, si approda all’attonita, terrorizzata paralisi che serra l’intera ‘insularità’ del soggetto in un immobile, tacito panico, cui la formulazione in latino viene a conferire un più di monumentalità.

Uno dei vertici della fortuna poetica dei classici oggi è l’ode oraziana del carpe diem (I 11). Tornerà utile averne riproposto il testo, cui desidero qui accompagnare la traduzione rielaborativa di una fra le più limpide e suggestive voci femminili della nostra attuale poesia, Clara Monterossi, (e la sua operazione di «traduzioni/tradimenti e fantasie» meriterebbe ben più ampio specifico spazio in questo cursorio paragrafo).48

Hor. Carm. I 11

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati.
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.

L’attimo fuggente

Non domandare – poiché non è lecito –
qual termine ci è dato;
lasciale a Babilonia le sue cabale,
Leucònoe, e accetta sempre di patire
quello ch’è destinato.

Siano molti gli inverni, o sia anche l’ultimo
quello che ora si sfianca
sugli opposti scogli che il Tirreno
da costa a costa accampa:

da saggia, filtra i vini; e decantandoli
dal loro fondo greve,
fa’ sì che da insondabili distanze
ogni illusione sia riconducibile
al giro d’un bicchiere.

Ma già mentre ti parlo il tempo ìnvido
ci sfugge via di mano:
cogli l’istante e disperatamente
non credere al domani!

Di questo celebre componimento propongo innanzitutto una variazione ‘straniera’. È l’unica qui presa in considerazione, e la inserisco per una sorta di promemoria militante: perché cioè si colga una volta di più (e ‘una buona volta’, anche se li si vorrebbero pensionare – «rottamare», anzi –, come antiquato ciarpame), che i classici sono un punto di riferimento mondiale e trans-temporale, la «nostra» letteratura nel senso più vero, mentalmente abbracciando, con «nostra», se non tutta l’umanità in genere, per lo meno l’Europa e l’Occidente. Si tratta di un «borborigmo» di Valery Larbaud, appunto intitolato al noto sintagma: 49

Carpe diem…
Cueille ce triste jour d’hiver sur la mer grise,
d’un gris doux, la terre est bleue et le ciel bas
semble tout à la fois désespéré et tendre;
et vois la salle de la petite auberge
si gaie et si bruyante en été, les dimanches,
et où nous sommes seuls aujourd’hui, venus
de Naples, non pour voir Baïes et l’entrée des Enfers
mais pour nous souvenir mélancoliquement.

Cueille ce triste jour d’hiver sur la mer grise,
mon amie, ô ma bonne amie, ma camarade!
Je crois qu’il est pareil au jour
où Horace composa l’ode à Leuconoé.
C’était aussi l’hiver, alors, comme l’hiver
qui maintenant brise sur les rochers adverses la mer
Tyrrhénienne, un jour où l’on voudrait
écarter le souci et faire d’humbles besognes,
être sage au milieu de la nature grave,
et parler lentement en regardant la mer…

Cueille ce triste jour d’hiver sur la mer grise…
Te souviens-tu de Marienlyst? (Oh, sur quel rivage,
et en quelle saison sommes-nous? je ne sais).
On y va d’Elseneur, en été, sur des pelouses
pâles; il y a le tombeau d’Hamlet et un hôtel
éclairé à l’électricité, avec tout le confort moderne.
C’était l’été du Nord, lumineux, doux voilé.
Souviens-toi: on voyait la côte suédoise, en face,
bleue, comme ce profil lointain de l’Italie.
Oh! aimes-tu ce jour autant que moi je l’aime?

Cueille ce triste jour d’hiver sur la mer grise…
Oh! que n’ai-je passé ma vie à Elseneur!
Le petit port danois est tranquille, près de la gare,
comme le port définitif des existences.
Vivre danoisement dans la douceur danoise
de cette ville où est un château avec des dômes en bronze
vert-de-grisés; vivre dans l’innocence, oui,
de n’importe quelle petit ville, quelque part,
où tout le monde serait pensif et silencieux,
et où l’on attendrait paisiblement la mort.

Cueille ce triste jour d’hiver sur la mer grise,
et laisse-moi cacher mes yeux dans tes mains fraîches;
j’ai besoin de douceur et de paix, ô ma soeur.
Sois mon jeune héros, ma Pallas protectrice,
sois mon certain refuge et ma petite ville;
ce soir, mi Socorro, je suis une humble femme
qui ne sait plus qu’être inquiète et être aimée.

Carpe diem…

Cogli questo triste giorno d’inverno sul mare grigio,
di un grigio dolce, la terra è azzurra e il cielo basso
sembra ad un tempo disperato e tenero;
guarda la sala della locanda
così allegra e chiassosa nelle domeniche d’estate,
dove oggi siamo soli, venuti
da Napoli, non per vedere Baia e l’entrata degli Inferi,
ma per abbandonarci ai ricordi, malinconicamente.

Cogli questo triste giorno d’inverno sul mare grigio,
amica mia, o mia buona amica, mia compagna!
Credo sia simile al giorno
in cui Orazio compose l’ode per Leuconoe.
Era inverno allora come l’inverno
che oggi frange sugli scogli avversi
il Tirreno, un giorno in cui si vorrebbe
dimenticare ogni cura e rivolgersi a umili lavori,
esser buono in mezzo alla natura austera
e parlare lentamente guardando il mare…

Cogli questo triste giorno d’inverno sul mare grigio…
Ti ricordi di Marienlyst? (Oh, su quale riva,
in quale stagione siamo? Non saprei).
Si arriva da Elsenor, in estate, su prati
pallidi; c’è la tomba di Amleto e un hôtel
illuminato ad elettricità, con ogni confort moderno.
Era l’estate del Nord, luminosa, dai toni teneri e spenti.
Ricordi: si vedeva, di fronte, la costa svedese,
azzurrina, come questo lontano profilo dell’Italia.
Oh! ti è caro questo giorno quanto è caro a me?

Cogli questo triste giorno d’inverno sul mare grigio…
Oh! perché non ho passato la mia vita a Elsenor?
Il porticciolo danese, vicino alla stazione, è tranquillo,
come il definitivo porto dell’esistenza.
Vivere danesemente nella dolcezza danese
di questa città, dov’è un castello con cupole di bronzo
verderame; sì, vivere nell’innocenza
di una piccola città qualsiasi, in qualche posto
dove la gente sia quieta e pensosa,
dove poter attendere con serenità la morte.

Cogli questo triste giorno d’inverno sul mare grigio,
e lasciami nascondere gli occhi nelle tue fresche mani;
sii il mio giovane paladino, la mia Pallade protettrice,
sii il mio rifugio sicuro, la mia cittadella;
stasera, mi Socorro, non sono che un’umile donna
smarrita, che chiede solo d’esser amata.

referto si potrebbe qui produrre della nostra recente poesia.50 Uno dei casi forse più interessanti, per la sua dimensione di enigma e per l’acutezza della mossa brillante che lo sostiene, è quello di un breve testo di Franco Fortini su cui ha richiamato l’attenzione Leopoldo Gamberale, nel suo già ricordato (a nota 4), ricchissimo intervento a proposito di queste nostre tematiche. Nell’ultima raccolta da Fortini pubblicata, Composita solvantur (Einaudi 1994), figura una sezione intitolata Appendice di light verses e imitazioni, lungo la quale (a p. 77) si incontra il testo che qui segue:

Orazio al bordello basco

Tu, neh, chi è serio uscire lo fai. Che mucchi, che tibie
fini, di dèe, a un drink, Leucònoe, che al Babylone
tendevi i numeri! Meglio qui checche arrapàte
(sia plurinsieme sia in tribù: hippies tre?); l’ultima
che in coppia di seta debilita, pomìcia, da fare
un treno... Lo sai? Vini e liquori e il pazzo in breve
spelonca rese il cesso. Tum, occhio, tum! Fugge livida
l’E.T.A. Corpodìo, a che omìnidi credi? È là il poster.

L’aggancio con l’ode I 11 risulta di primo acchito evidente, come basterebbe a segnalare anche il solo nome di Leuconoe. Meno chiaro risulta, invece, a un primo impatto, il senso della composizione. Lo ha bene illustrato Gamberale quando, nel corso della sua ricordata relazione, invitò i presenti a leggere in parallelo il testo latino di Orazio e la sua riscrittura italiana: Fortini ha qui ‘inventato’ una variazione in forma di traduzione fonica: «Tu, neh, chi è serio uscire lo fai» è l’equivalente acustico di Tu ne quaesieris, scire nefas e così via, per ciascun segmento di Orazio, con «l’E.T.A.» per aetas a determinare il colore basco, e Babylonios a generare un equivoco locale, clandestino rifugio di separatisti pronti alla fuga, e teatro alcoolico di un forsennato eros. Così che a Leuconoe, intenta a allontanare le persone serie, si potrà rivolgere un carpe diem tramutato in corposa interiezione introduttiva alla domanda cruciale: «a che omìnidi credi?».

4. Rutilio Namaziano

Fra tanti classici, sia consentito a un esploratore di poeti tardolatini aggiungere qualche riga sulla fortuna di un poeta d’età romanobarbarica: Rutilio Namaziano, l’aristocratico gallo-romano, assurto nella capitale ai fastigi della Prefettura urbana, che, dopo il passaggio dei Visigoti, si vide costretto a lasciare Roma, sua città d’elezione, per fare ritorno nei suoi possedimenti della Gallia Narbonese, e presiedervi alle ricostruzioni. Di questo viaggio, condotto (forse nel 417) navigando d’inverno, sotto costa e a piccole tappe, con una flottiglia d’imbarcazioni leggere, Rutilio ci ha, com’è noto, lasciato un diario poetico in distici elegiaci, frammentario, cui si assegna il titolo, forse non d’autore, De reditu suo. Del suo attuale Fortleben (che, potendo allargare il discorso, risulterebbe non così circoscritto come forse si immaginerebbe) mi limiterò a segnalare una sola occorrenza, quella che riguarda un giovane poeta di timbri e toni assai particolari, attivo in Friuli: Pierluigi Cappello51 La prima sezione del suo La misura dell’erba, intitolata Il settimo cielo, è dedicata a poesie che hanno a che vedere con la lettura, la scrittura, il viaggio letterario. Una sorta di trittico si apre con la lirica «Abbiamo letto millenni quaerendo/ invenietis » e si sviluppa in due acrostici, non evidenziati da maiuscole o grassetti – proprio perché sia compito del lettore quaerere molto fino ad invenire –, e tuttavia recanti a titolo la scritta in acrostico, che in ambo i casi è un nome di poeta: si susseguono così Namaziano e Umberto Saba. L’orizzonte di riferimento è quello di un’interpretazione letteraria del ‘viaggio’, secondo cui l’itinerario è anche mobilità nelle esperienze dell’arte, e financo proiezione metafisica, cioè avventura in direzione di qualcosa che ci attende nell’aldilà (si trovi attinto o meno, come primizia, nel gesto dell’esplorazione letteraria). In questo quadro, Umberto Saba è il poeta che resta, con nostalgia e quasi ansia del partire; Rutilio Namaziano è il poeta che parte e vorrebbe restare:

Namaziano

Non le barche, le scapole dei servi
amare al peso del trasloco, o l’alba
marina di Roma; lui magister
alzò su di sé lo sguardo, divenne
zona viva tra il suo respiro e l’altro
il filo e la sostanza del poeta;
allora non fu partenza il congedo:
nero, in mezzo, lo scalpito del mare
oltre l’indice teso del pontile.

Al tempo di Rutilio Namaziano, un addio come il suo non era semplice «partenza», con implicito ritorno, o almeno facoltà di non difficile ritorno, e in ogni caso di contatti mediatici; bensì espulsione, «congedo» definitivo, irremeabile. L’indice teso del pontile che lo allontana gli addita il largo, l’iter, il distacco. Rutilio è simbolo di uno strappo, della lacerazione che interviene – irriducibile, irrecuperabile – a separarci da quanto ci è più caro. In questo congedo senza ritorno (che ha riflessi drammatici nella singola esperienza personale di Pierluigi Cappello) «Namaziano» è il poeta e funzionario (l’ex magister officiorum trova qui il suo titolo abbreviato e virato a segnacolo di diverso magistero), che posa il proprio sguardo su se stesso, sulla propria esperienza e sul proprio dolore, e così facendo lievita a «cosa viva» fra la propria persona («il suo respiro») e ciò che n’è al di fuori («l’altro»: sintesi di tutto il mondo esterno, comprensivo di quella specie di io sdoppiato che è necessario per costituirsi a oggetto di lirica). E proprio in questo diviene poeta («il filo e la sostanza del poeta»: dove filo e sostanza sono una sorta di endiadi, come se si leggesse di scheletro e muscoli) e finisce per consegnare la sua vicenda ai posteri come un simbolo.
Stasi contro mobilità è un’antitesi che segna nel profondo della viva carne e del più vivo dolore la condizione esistenziale – ed insieme la poesia –52 di Pierluigi Cappello, vittima a 16 anni di un gravissimo incidente di moto. Per questo il curatore di L’isola disorientata, in epigrafe alla nota di presentazione, instaura con lui una sorta di tenzone, accostando all’acrostico NAMAZIANO il nuovo acrostico RUTILIO. In esso il poeta tardolatino che, proprio in forza di quell’aver levato lo sguardo su di sé, è divenuto una sorta di assetto dell’anima, funge a sua volta da indice teso; e addita un poeta-Prometeo incatenato a una sua isola, cui unico viaggio resta la pratica della poesia53. Contemporaneamente, questo Rutilio Namaziano in qualche modo introduce a un’altra idea che domina il mondo poetico di Pierluigi Cappello: quella della difficoltà (anche su un piano più generale, prescindendo dalla sventura che ha patito) di rapportarsi sensualmente con il mondo. Il Prometeo incatenato al suo male si riduce quasi a solo sguardo, disperando di poterne valicare un giorno i limiti di sostanziale passività. Nell’attesa, precipitano stilemi di osservazione, e, più ancora – con una deriva quasi serenatrice – di contemplazione del mondo, nel suo articolarsi a una certa distanza, di là da una finestra o dalle volute di una sigaretta fumata all’aperto: cieli, azzurro, nuvole, ed il verde incanto della flora, per come, al di qua di una siepe, è addomesticato dal giardino.54

5. Per chiudere

Nonostante spiri contro i classici un vento insistente e maligno che li vorrebbe, forse in quanto invecchiati di un ulteriore «millennio», prontamente liquidare – «tu, neh, chi è serio, uscire lo fai» –, la primavera «millecentoecentouno» (vd. nota 55) registra ancora pendolari che, in treni fitti della più varia umanità, non solo trovano conforto nella lettura, ma osano, per colmo di eccentricità, sceglierla fra gli antichi autori. È quanto risulta dalla poesia che segue, testimonianza di un professore-pendolare sulle Ferrovie Nord lungo l’hinterland milanese. Il testo, scritto da Luca Della Bianca55 si presta ad essere inteso come una pagina ostile alla componente multietnica della nostra attuale società. Lo preciso, in quanto è questa un’obiezione concreta che fu sollevata – da Alessandro Barchiesi – nel corso della discussione che seguì a una sintesi di questo mio intervento durante il piccolo convegno aretino per cui è stato scritto, e di cui qui si pubblicano gli atti. Non saprei precisare se l’autore l’abbia composto con simili sentimenti d’insofferenza. Personalmente, ed è per questo che oso qui proporlo, tendo a una lettura diversa. Mi sembra che vi prevalga l’intenzione di stilare uno spaccato realistico di vita, venato di una indignatio alla Giovenale, ma non tanto polarizzata sulla questione dell’immigrazione, bensì in generale sullo ‘stile di vita’ che ci circonda, fatto di arrangiati commerci e faticose incombenze per far fronte all’«esistenza in vita», con colonna sonora di estraneo (ora in quanto ‘straniero’, ora per greve scompostezza) rumore di fondo, nonché «zigar di cellulari/ che spargono ciance su oscene quisquilie/ con finali ciao-ciao ripetuti da oche», lungo il costante, desolante teatro di un ambiente degradato. È contro questo che, per antitesi e quasi per antidoto, «l’uomo dei libri legge Plutarco»:

Plutarco sui treni delle Nord

Nell’alba di islamiche facce o balcaniche,
tra studentesco turpiloquio e gli accenti tribali
di afri mercanti dei suk cisalpini,
in transumanze di quotidiani forzati
già incattiviti dall’oggi al principio,
o nel vespertino zigar di cellulari
che spargono ciance su oscene quisquilie
con finali ciao-ciao ripetuti da oche
– scorre intanto l’infinito disastro,
l’ecumene imbrattata da Unni bestiali –,
nello sfacelo dell’immondo Duemila
l’uomo dei libri legge Plutarco:
si schiude un barbaglio di civiltà
accanto al parco delle Groane.

NOTE
1 Roma, Castelvecchi 1997, pp. 63-81 (da ora citato come Appunti).
2Gli atti sono ora pubblicati dall’Istituto Nazionale di Studi Romani (vd. nota 34); vi farò riferimento con l’abbreviazione Virgilio nei poeti (vi figura nel vol. I, pp. 181-239).
3 L’umanesimo è una malattia? Un secolo, due culture, Siena, Auditorium del centro didattico delle Scotte, mercoledì 18 dicembre 1996, ore 16.30; erano previsti interventi di Franco Battiato, Luciano Berio, Luigi Berlinguer, Maurizio Bettini, Carlo Azeglio Ciampi, Giulio Giorello, Scevola Mariotti, Beniamino Placido, Eugenio Scalfari, Manlio Sgalambro, Sergio Staino, Antonio Tabucchi, Piero Tosi, Marcello Veneziani.
4Eugenio Montale, Quaderno di traduzioni, Milano, Edizioni della Meridiana 1948, ristampato presso Mondadori nel 1975: vd. Eugenio Montale, L’opera in versi, edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, «I Millenni» Einaudi 1980, p. 1154; ne ha trattato di recente Leopoldo Gamberale nel suo intervento Roma tibi subito motibus ibit amor. Il viaggio nella letteratura latina prima e dopo di sé, a un corso di aggiornamento IRRSAE tenutosi a Falerna, il 17 marzo 2001.
5 Per specula aenigmatis, Milano, Garzanti 1990; Cumae, Venezia, Marsilio 1998 e ora Carbones, Milano, Garzanti 2002.
6 In La Camena gurgandina, ora nell’esemplare integrale delle Poesie a cura di Silvia Longhi e Paola Italia, Milano, Garzanti 1997, pp. 93 ss.
7 Alludo soprattutto al suo recente – e latino fin dal titolo – Dies ad quem, Castel Maggiore-Bologna, Book 2000, che in parte rifonde prove precedenti. Il mondo poetico di questa raccolta è prevalentemente quello di cause e scartoffie, ma vi affiorano molti frammenti di classici (Esiodo, Sallustio, Stazio, Cassiodoro, Massimiano). Particolarmente notevole Orfeo, riscrittura della catabasi virgiliana nelle Georgiche, ambientata nell’Ade di un Archivio battuto dai gemiti di ‘casi’ che vorrebbero riemergere (p. 96), «nomi imploranti/ una vita ancora».
8 Ernesto Calzavara è nato a Treviso nel 1907 e si è spento nel 1999. Il titolo Le ave parole vale «le parole-api», ma non escluderei che vi si debba avvertire, in sovrapposizione, una programmata evocazione delle ‘parole degli avi’; analogamente, l’altro titolo appena ricordato, Ombre sui veri, mi sembra intenzionalmente avvalersi dell’ambiguità cui dà luogo. Scritti in prosa di Calzavara, alcune poesie e una bella fotografia sono reperibili nel prezioso librino edito «All’insegna del Pesce d’Oro» di Vanni Scheiwiller, Rio terrà dei pensieri, Milano 1996.
9 Dalla raccolta Le ave parole, Garzanti 1984, sezione Versi civili.
10 Claudio Pasi è nato a Molinella, in provincia di Bologna, nel 1958. La sua principale raccolta è al momento La casa che brucia, Castel Maggiore-Bologna, Book 1993, che guarda costantemente all’antichità, polarizzando l’attenzione sui personaggi minori e anonimi. Apprezzabili venature virgiliane si possono riscontrare nella sua serie di poesie latine (in esametri) sul tema di un viaggio (Periplo, con nove disegni di Luca Caccioni, Modena, Galleria Rossana Ferri, 1994), presentate in versione italiana in una pubblicazione collettiva (catalogo della mostra Il viaggio, Savignano sul Panaro-Modena 1998, senza numeri di pagine), con una considerevole nota di poetica (in cui si riconduce, fra gli altri, a Virgilio, specialmente il Virgilio didascalico). Ho brevemente ricordato la sua produzione anche in Appunti pp. 76 s.
11 Miro Gabriele, quarantenne, vive e lavora a Roma; per un suo breve profilo si veda appunto «Caffè Michelangiolo» (Pagliai Polistampa) anno VI n. 2, maggio-agosto 2001 (pp. 24-28), p. 28.
12 Vd. Pregî della Prospettiva, Montebelluna, Amadeus 1996; I coniugi Arnolfini, Milano, ES 2001. Acitelli interpreta in chiave ‘classica’ anche le gesta dei campioni del calcio: vd. vari componimenti del suo La solitudine dell’ala destra, Storia poetica del calcio mondiale, Torino, Einaudi 1998 e ora il saggio sportivo Francesco Totti, Il tribuno di Porta Latina, Arezzo, Limina 2002.
13 Gian Piero Bona (Carignano, Torino, 1926) riflette sulla sua operazione in una pagina assai suggestiva (la n. 7), intitolata Ragione di un incontro, che varrà la pena di riportare: «È possibile dar forma e ricreare un vuoto? Mi dissi un giorno incontrando questi frammenti: cocci sospesi ai confini del nulla, che mi hanno infestato, spostato e trafitto.
Ecco, un sempre conosciuto, rimasto muto che improvvisamente mi parla.
Come potevo restare senza versi da offrire a reciproco scambio nell’incontro «amoroso»? Dovevo far nascere qualcosa, nominando questo vuoto.
L’anello che lega il veduto al non-veduto è il piede che tocca una terra sconosciuta e ti fa cambiare il modo di vivere la situazione. Così ho «incollato» il saputo all’insaputo.
Così da questo incontro è nata una nuova situazione poetica, una verità che parla, che cerca di nominare i versi mancanti, che sfida l’impossibilità del vuoto rendendolo possibile, che lo mette in azione e ne modifica la realtà creandone un’altra».
Un’operazione affine era stata già tentata da Giovanni Barricelli (Benevento, 17 aprile 1922), per esempio in Poemi alla deriva. Ultimi frammenti ricostruiti, Napoli, Istituto Grafico Editoriale Italiano 1996 (ne segnalo alcuni altri titoli che però non ho potuto vedere: Da Archiloco a Saffo, Napoli 1993; Oudenì kòsmo, Napoli 1991; Le voci della Pieria, Napoli 1993).
14 A proposito di traduzioni, figurando fra esse quelle celeberrime di Salvatore Quasimodo, cade qui opportuna l’occasione per segnalare un recentissimo strumento, prezioso per chi si occupi di questi temi: Salvatore Quasimodo e gli autori classici, Catalogo delle traduzioni di scrittori greci e latini conservate nel fondo manoscritti, a cura di Ilaria Rizzini, Pavia, Università degli Studi (Centro di Ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei) e Regione Lombardia-Direzione Generale Cultura, marzo 2002, con ampio e ricco saggio introduttivo. Ricordo anche, per il suo speciale interesse, la recensione che alle traduzioni di Quasimodo dedicò Carlo Emilio Gadda, il quale poi la ripropose fra i saggi scelti nel suo I viaggi la morte (la prosa, intitolata Catullo-Quasimodo, si legge ora in Saggi giornali favole I, a cura di Liliana Orlando, Clelia Martignoni, Dante Isella, Milano, Garzanti 1991, pp. 898-903). Giustamente, le poesie di Catullo – e in particolare i carmi dei baci – sono sovente al centro di iniziative didattiche tese a porre a confronto molte differenti traduzioni. Segnalo per esempio (ringraziando per l’indicazione gli amici professori Lucia Rigolon e Andrea Rodighiero), G. Sega-O. Tappi, La traduzione dal latino. Metodi e strumenti. Testi di versione, Firenze, La Nuova Italia 1993, pp. 44-55; S. Japoce-E. Staraz, La traduzione contrastiva: teoria e prassi, Padova, CEDAM 1995, particolarmente pp. 27-81.
15 Ora nella ricordata integrale; la poesia che qui ci riguarda vi figura a p. 261.
16 Si tratta di un testo tratto dalla raccolta inedita, del 1997, Una pasión. Ferdinando Cogni, nato nel 1919, vive a Piacenza ed è, oltre che pittore, autore di poesie in italiano e in piacentino. Nella sua produzione spicca la traduzione piacentina di Catullo (con l’eccezione dei carmina docta e di pochi altri componimenti), pubblicata da Vanni Scheiwiller (Li éran bái chilà zóg, versioni da Catullo di Ferdinando Cogni piacentino, Milano, «All’Insegna del Pesce d’Oro») nel 1976, e in seguito arricchita, per iniziativa dell’autore, da un’audiocassetta e infine da un CD, comprendenti sue recitazioni dell’intera traduzione e di varie altre poesie. Ora l’edizione definitiva di queste traduzioni, accompagnata per la prima volta da testo latino e da traduzioni italiane (quelle dell’altro grande poeta Enzo Mazza, che tradusse tutto Catullo per Guanda nel 1962), è stata pubblicata nella collana «Catullo» delle Edizioni degli Amici, un nuovo marchio del giovane apprendista editore Alessandro Marignani (Santa Lucia, Sargiano 24 – 52100 Arezzo; edizioni_amici@hotmail.com). In un recente video curato da Roberto Dassoni, per la VBM Comunicazione di Piacenza (info@vbm-comunicazione.it), e intitolato ‘G vó dj’ann pr’ advintè giùan (Ci vogliono anni per diventare giovane), si può scorgere Cogni declamare le sue ‘identificazioni’ catulliane su sfondi di rovine romane e in abiti d’epoca. Ho da poco avuto l’occasione di venire a conoscenza di un’altra assai bella traduzione dialettale (in questo caso integrale) di Catullo: si tratta dell’elegante volume di Gianfranco Donella-Talassi, Catullus Veronensis in veronese, Verona, Cierre Edizioni, 1995.
17Da Annalisa Merlino, per Donzelli Editore di Roma, 1995, pp. 28 s.
18 La poesia, con traduzione dello stesso Cogni, è tratta dalla plaquette intitolata V’al digh in piasintái (Ve lo dico in piacentino), Comune di Alseno (Pc), Biblioteca Comunale-Assessorato alla Cultura, 1999. Una edizione integrale delle poesie italiane e piacentine di Cogni, con l’esclusione del canzoniere catulliano (per cui vedi sopra, nota 15), è d’imminente pubblicazione.
19 Mario Graziano Parri, Stella di guardia. Poesie, Firenze, Pagliai Polistampa 2001, p. 32 (sezione La mietitrice d’oro, dedicata «a Carla, in memoriam»).
20 La poesia Il tramonto di Fossoli è raccolta in Ad ora incerta, Milano, Garzanti 1984, p. 21. Vd. già i miei Appunti, p. 67. In quell’articolo segnalo anche altri spunti di fortuna catulliana che qui non riprendo. Aggiungo che alla fortuna del personaggio di Lesbia in alcuni scrittori contemporanei (in particolare Alfredo Panzini, Elsa Morante, Luca Canali, Thornton Wilder) si è dedicata la tesi di laurea in Letteratura Latina di Lisa Buciunì (Il personaggio di Lesbia: aspetti e momenti della sua fortuna contemporanea, Facoltà di Lettere dell’Università di Siena, luglio 2002).
21Vd. Giorgio Caproni, L’opera in versi, edizione critica a cura di Luca Zuliani introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, cronologia e bibliografia a cura di Adele Dei, Milano, «I Meridiani» Mondadori, maggio 19981: a p. 444 la poesia, a p. 529 l’autocommento di Caproni, a p. 1593 la citazione dalla lettera a Surdich.
22 Milano, Garzanti 1991; ora nel ricordato L’opera in versi, pp. 798-799 (con nota a p. 1717). Vd. anche Paolo Zublena, Cartoline da Vega. Il tema della morte nella poesia di Caproni: dal lutto alla meditatio mortis, nella rivista «Istmi. Tracce di vita letteraria» 5-6, 1999, pp. 53-124.
23Vd. in particolare Voci della poesia italiana di fine Novecento (Nino De Vita, Paolo Ruffilli, Alceste Angelini, Enzo Mazza), in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena», 17, 1996, pp. 336-354, riversato nella rete telematica come sua pagina web (www.geocities.com/alessandrofo/enzomazza.html); April in Siena, in «Caffè Michelangiolo» anno VI n. 2, maggio-agosto 2001, pp. 18-22; Poeti di un figlio perduto, in «La Rivista dei libri» anno XI n° 11, novembre 2001, pp. 20-22 (con sua fotografia) e il ricordato Virgilio nei poeti, paragrafo I 4.
24 Enzo Mazza, Gemito e tremore, Biblioteca Cominiana 1990, p. 31.
25 Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, con due saggi di Stefano Agosti e Fernando Bandini, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1999, pp. 870-873; Andrea Zanzotto, Sovrimpressioni, Milano, «Lo specchio» Mondadori 2001, in pp. 33-36 (da cui cito).
26 In Sovrimpressioni è appesa al titolo la seguente nota, riportata al termine del testo (p. 36): «Nel ricordo del mio caro fratello Ettore, scomparso più giovane di me, nel 1990». Da Tonin: nome, ora obsoleto, di località nelle colline a nord. L’amico Marco M. ha mutato residenza.
27 Elio Andriuoli, Epifanie, Torino, Genesi 1996. Andriuoli vive a Genova, dove è nato; la sua prima raccolta, Il tuo volto si perde (Padova, Rebellato) risale al 1961; per altre notizie sulla sua produzione rinvio al risguardo di Epifanie.
28 Per Enea con Anchise in spalla, vd. Aen. II 716 ss.; in merito, vd. Virgilio nei poeti, nota 29 e contesto.
29 Vd. Virgilio nei poeti pp. 31 s. Alludo alla sua plaquette intitolata Da Virgilio (Osnago, Edizioni Pulcinoelefante 1995, con grafica di Pierantonio Verga), che accosta alla traduzione di Eneide II 707- 10 questa variazione personale: «Dalle tue spalle ho visto l’orizzonte, /il primo, e le segrete erbe/ di là dei muriccioli,/ le meste cucine ai pianterreni./ Come su un elefante, nessuna tigre/ nella giungla urbana sentivo di temere./ Ora le mura crollano da inganni diroccate;/ non puoi portarmi più dietro le barricate/ argine dei giorni. Tocca a me issarti/ e aldilà di quelle spine sostenerti./ Di un poco appena alzato,/ perché i tuoi piedi non sentano rovine/ e il pulsare del mio collo torni tuo/ con quello che ho taciuto.»
30 Si veda ora il breve scritto alle pp. 180 e 1262 dell’edizione di riferimento già sopra citata. Fondamentale il contributo di Franco Contorbia, Caproni in Piazza Bandiera, in AA.VV., Per Giorgio Caproni, a cura di Giorgio Devoto e Stefano Verdino, Genova, San Marco dei Giustiniani 1997, pp. 215-230 (con ricca ulteriore bibliografia). Da vedere anche Luigi Surdich, Giorgio Caproni. Un ritratto, presentazione di Antonio Tabucchi, Genova, edizioni costa & nolan 1990, pp. 64 ss., che a p. 67 reca una foto d’epoca di Piazza Bandiera bombardata, con il monumento ad Enea, scattata il 23 ottobre 1942, reperibile anche nella Guida al Parco Culturale Giorgio Caproni, a cura di Carla Scarsi, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani 2000, p. 39 (qui a p. 35). Sulle fonti di Caproni e le imprecisioni che in lui ne discendono, sull’attribuzione e datazione del gruppo marmoreo (Francesco Baratta, 1726) e i suoi successivi spostamenti – da piazza Soziglia «trasferimento dell’opera (scultura e basamento) in Piazza Lavagna (1826), [...] spostamento della sola statua di Enea, Anchise e Ascanio in Piazza Fossatello (1844) e [...] risistemazione dell’intero «barchile» lì assemblato in Piazza Bandiera già «delle Bandiere» (1870)» –, vd. Contorbia pp. 218 s. e relative note, p. 225 n. 11. Devo alla cortesia di Luigi Surdich non solo l’invio della ricordata foto di Piazza Bandiera dopo il bombardamento, ma anche la segnalazione, e l’invio, di un bozzetto del monumento a Enea in Piazza Bandiera, disegnato nel 1969 dal pittore genovese Attilio Mangini (qui a p. 36).
31 Vd. un dettaglio delle occorrenze nella nota 31 di Virgilio nei poeti. Gli interventi che ho qui ricordato nel testo sono: Giorgio Caproni, Enea a Genova, «L’Italia Socialista» del 7 ottobre 1948 (ristampato, con quattro ragionevoli correzioni di refusi, da Contorbia cit., pp. 229-30); Giorgio Caproni, Genova, in «Weekend» VII, 42, ottobre 1979, pp. 20-33 (con «fotografie di Piergiorgio Sclarandis, una delle quali, a p. 29, rappresenta proprio il monumento a Enea in Piazza Bandiera»: cit. da Contorbia p. 227): è il «capitale dei suoi scritti su Genova degli anni estremi» (Contorbia p. 220); Giorgio Caproni, [parziale ristampa dell’articolo di «Weekend»: tagliato e ritoccato] alle pp. 9-13 dell’antologia di scritti di Caproni su Genova: Giorgio Caproni, Genova di tutta la vita, a cura di Giorgio Devoto e Adriano Guerrini, Genova, San Marco dei Giustiniani, 19831; seconda edizione, postuma e accresciuta, 1997. Sull’incontro letterario fra Caproni e Virgilio vd. ora anche lo studio di Maurizio Bettini in questo stesso numero di «Semicerchio».
32 Cfr. ancora Virgilio nei poeti, nota 31, sotto 1949b. Ricavo la citazione di Brodskij da Biancamaria Frabotta, Giorgio Caproni, Il poeta del disincanto, Roma, Officina edizioni 1993, p. 78 (dove tratta appunto il Passaggio).
33 Su di lui vd. Virgilio nei poeti, note 61 e 62 e contesto. Nei versi appena citati nel testo, il cenno al Principe d’Aquitania «à la Tour abolie», proviene dalla memoria del sonetto El Desdichado nelle Chimères di Gerard de Nerval (lo si veda, con note di commento, in Gerard de Nerval, Chimere e altre poesie, introduzione e traduzione di Diana Grange Fiori, Torino, Einaudi 1972, pp. 30-31 e note a 188 ss.; vd. Contorbia cit. p. 223, con la nota 35). Nei resoconti caproniani in prosa dell’incontro con Enea, il Principe d’Aquitania compare la prima volta in Il Taccuino dello svagato: Enea, un uomo come noi, «La Fiera letteraria» del 17 aprile 1960 (anno XV, n. 16), p. 5.
34 Mi fondo, naturalmente, proprio sui saggi di Mario Petrucciani; vd. in particolare Il condizionale di Didone, Napoli, ESI (Edizioni Scientifiche Italiane), 1985, con sintesi dei principali aspetti che qui ci riguardano nella sua voce Ungaretti, in Enciclopedia Virgiliana, vol. V*, Roma 1990, pp. 391-94; Ungaretti e Virgilio. Palinsesto alle origini della Terra Promessa, negli Atti del Convegno Il classico nella Roma contemporanea. Mito, modelli, memoria (Roma, 18-20 ottobre 2000), Roma, Istituto di Studi Romani, 2002, vol. I, pp. 61- 70; cfr. L’idea come memoria, la poesia come inizio. Ungaretti e Platone, in AA.VV., Giuseppe Ungaretti 1888-1970, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Università di Roma «La Sapienza», Roma 9- 10-11 maggio 1989, a cura di Alexandra Zingone, Napoli, ESI 1995, pp. 9-28. Si veda ancora: Guido Guglielmi, Giuseppe Ungaretti e la memoria dell’«Eneide» in AA.VV., Mnemosyne. Studi in onore di A. Ghiselli, Bologna, Pàtron 1989, pp. 311-324. Edizioni di riferimento per Ungaretti: G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Milano, «I Meridiani» Mondadori 1969 (=da ora Ungaretti Poesie); G. Ungaretti, Il deserto e dopo, Milano, Mondadori 19611, 19692; Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1974 (=da ora Ungaretti Saggi); Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, a cura di Paola Montefoschi, Milano, «I Meridiani» Mondadori 2000 (=da ora Ungaretti Viaggi).
35 Ungaretti Poesie p. 532; verrebbe da applicare la stessa frase al Gadda che ambienta una parte del Pasticciaccio in un’atmosfera eneadica da Lazio primitivo. Per il fecondissimo tema ‘Gadda e Virgilio’ vd. qualche spunto in Virgilio nei poeti, § II 1, e poi alla conclusione di quell’articolo.
36 Ora in Ungaretti Viaggi, pp. 148 ss., con note a 1225 ss.
37 Vd. soprattutto Leone Piccioni Le origini della «Terra Promessa » (in Ungaretti Poesie, pp. 428 ss.) e, di Mario Petrucciani, i già citati Il condizionale di Didone, p. 169 e la voce Ungaretti nell’Enciclopedia Virgiliana, pp. 392 s.
38 Vd. Petrucciani nell’Enciclopedia Virgiliana (p. 393, riprendendo Il condizionale cit. pp. 171 s.); la citazione ungarettiana è tratta da Commemorando Gabriele D’Annunzio, 1938, pubblicato in «Letteratura italiana contemporanea» 20-21, 1987, 135-42.
39 Vd. Petrucciani, Enciclopedia virgiliana p. 393: «l’esperienza di Enea come viaggio alla scoperta dell’io profondo, ricerca d’identità e di autenticità, è letta da U. come ‘viaggio nella memoria’, ‘discesa nella memoria’: materna, sacrale».
40 Vd. Petrucciani, Enciclopedia virgiliana p. 393.
41 Vd. Petrucciani, Enciclopedia virgiliana p. 393 «Nel Recitativo di Palinuro (ma il primo titolo era, infatti, la Fedeltà di Palinuro) è dunque simboleggiata la fedeltà alle immagini della vita che sono, sì, periture, ma che la mente conserva nella memoria: è mitizzata questa avventura della mente che sconfigge la morte: la ‘fedeltà’ ai propri gesti quotidiani, ai propri doveri, al proprio io che, in virtù di memoria, diventa (è la clausola epigrafica del Recitativo, v. 39) “non mortale”».
42 G. Ungaretti, Il poeta dell’oblio (1943), in Ungaretti Saggi p. 405 (a proposito del «sopraggiungere della sera» che «aumenta lo stato di disperazione di Didone e la fa più sola»).
43 Se ne vedano le note 3-6 e i paragrafi I 1 e I 2.
44 Nel già citato (a nota 25) Epifanie, p. 157.
45 Le poesie di Traina sono poco conosciute per una specifica volontà dell’autore, che le ha ha pubblicate in plaquettes fuori commercio, tutte stampate presso Pàtron di Bologna e a minima tiratura, destinate a una circolazione fra amici. Gli spunti legati al mondo classico sono molto numerosi (ne indico fra parentesi solo alcuni), senza contare il fatto che molte poesie sono composte in latino. Sono state finora pubblicate le seguenti raccolte: Stagioni, 1992 (vd. pp. 34, 43 e 48, per Orazio; p. 61 per Sant’Agostino: da cfr. con la splendida Al silenzio di pp. 46 s.; traduzioni da Catullo e Orazio lirico alle pp. 75 ss.); In cerca di parole, 1994 (se ne vedano anche le pp. 27 e 43 per Virgilio, 28 per Catullo, del quale – come anche di Orazio lirico – sono poi presentate alcune traduzioni alle pp. 67 ss.); Le parole e il tempo, 1996 (vd. p. 29 per Lucrezio, p. 56 per Saffo e Pascoli); Tra due silenzi, 1998; L’attesa, 2001 (vd. p. 18, per Ovidio). La poesia Orazio si legge in In cerca di parole, p. 61. Cfr. anche, più oltre, la nota 46.
46 Paolo Lanaro, Giorni abitati, poesie 1997-2001, s.l., Edizioni Ripostes, 2002: Epigrafe è a p. 25. Nato a Schio nel 1948, Lanaro vive a Vicenza. Ha pubblicato L’anno del Secco, Roma, Savelli 1981; La campana segreta, con quattro incisioni di Silvio Lacasella, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro di Vanni Scheiwiller 1987; Il lavoro della malinconia, Vicenza, La Locusta 1989; Luce del pomeriggio e altre poesie, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro di Vanni Scheiwiller 1997 (nel quale si vedano le pp. 13, per Zenone; 62, per Lesbia; cfr. 24).
47 Zanzotto rinvia qui, mediante una nota, a un altro luogo di Sovrimpressioni (p. 94) in cui già ricorreva l’ustrina, chiosato con le parole «luogo di cremazione per i romani». Segnalo inoltre che il testo immediatamente successivo a questo è, in Sovimpressioni (p. 104 s.), Apocolocíntosi, ispirato, alla lontana, all’Apokolocyntosis di Seneca. Per un bozzetto non indegno del sermo oraziano, si ricordi il Chiccus di Calzavara, su cui la Prima parte, § 1.
48 Il testo è qui trascritto da Q. Horati Flacci Opera edidit Fridericus Klingner, Stuttgart, Teubner 1970. Clara Monterossi vive e insegna a Messina; figura fra i Sette poeti del Premio Montale 1990, Milano, Scheiwiller 1991, e ha pubblicato le raccolte Spartiacque, Messina, Il Gabbiano 1991; Gli Aquiloni, Udine, Campanotto 1995; La stanza della cometa, Messina, Il Gabbiano 1998. Per le Edizioni Il gabbiano di Messina ha pubblicato nel 1996 Orazio, Poesie, traduzioni/ tradimenti e fantasie, con presentazione di Antonino Grillo, un libro di elegantissime rivisitazioni della lirica del venosino (gli Epodi e una piccola scelta delle Odi); ha in preparazione una traduzione delle Satire.
È immensa, com’è a tutti noto, la fortuna dell’espressione oraziana carpe diem nella prassi quotidiana della nostra corrente esistenza; la si vede talvolta come insegna di locali e negozi, non di rado variata per ignoranza (ricordo un carpae diem fra le insegne di un pub a Cremona) o gusto parafrastico. È quest’ultimo il caso del negozio Scarpe diem ad Agrigento (località Villaggio Mosè), di cui il poeta, poligrafo e artista visivo Alfonso Lentini ha inviato fotografia al Celestino Marzo su cui oltre (alla nota 50, e in risposta alla plaquette ivi ricordata) con l’accompagnamento di alcuni versi che, benché legati a una circostanza privata e di scambio epistolare, può non essere del tutto fuori luogo riportare qui (con il consenso dell’autore): «eccoti quest’altra di realtà/ timidissima gemma/ (in realtà/ manca un ma, Celestino,/ e si scheggia pertanto il nome d’Emma)// eccoti quest’insegna, questa scheggia/ di scrittura non sacra, ma che insegna/ col suo corpo di plexiglas, chissà,/ nascoste connessioni/ fra un negozio e lo spazio/ di un verso, ma che segna/ – dal limine del sud – / un zoppicante ponte/ una notturna fonte (e, chissà,/ l’estesissimo filo/ tra il cattivo e il bel gusto, Celestino).// Così sia cosa giusta/ affidarle al postino,/ adagiando le foto in una busta». Sulla rivista «Il Venerdì », supplemento al numero di «La Repubblica» del 30 agosto 2002 (n. 754), p. 55, si legge di uno dei sopravvissuti all’attentato alle Torri Gemelle, Ed Fine: «oggi gestisce insieme con il figlio Stuart la società di consulenza Carpe DM a Watchum, New Jersey, e si fa pagare la quota simbolica di 911 [sic; forse 9,11?] dollari l’ora, Nine Eleven, come chiamano gli americani l’11 settembre».
49 Lo cito da Valery Larbaud, Le poesie di A. O. Barnabooth e poesie plurilingui, a cura di Clotilde Izzo, Torino, Einaudi 1982, pp. 60 ss.
50 Un affioramento si è già scorto qui sopra nel finale della poesia di Alfonso Traina, Orazio, dove, fra l’altro, come rapidamente segnalavo, Traina si riconduce al suo celebre studio del 1973, Semantica del carpe diem, ora raccolto nel suo Poeti latini (e neolatini), Note e saggi filologici [prima serie], Bologna, Pàtron, seconda edizione riveduta e aggiornata 1986, pp. 227-251 (da vedere anche la sua Introduzione a Orazio. Odi e epodi, traduzione di Enzo Mandruzzato, Milano, «BUR» Rizzoli, seconda edizione riveduta e aggiornata 1988, pp. 5-60). Fra gli altri casi, si può qui riportare la breve variazione di Primo Levi (dal già citato Ad ora incerta, p. 55) con la poesia intitolata 2000: «Mille più mille: un traguardo,/ un filo di lana bianco, non più così lontano,/ o forse nero o rosso. Chi lo potrebbe dire?/ Saperlo è infausto. Non è dato tentare/ d’interrogare i numeri di Babilonia». Cfr. anche Celestino Marzo, Le scarpe di Emma, Cremona-Lucca, Una Cosa Rara 2000 (il titolo della plaquette nel suo complesso, e quello della poesia eponima Scarpe di Emma, inglobano l’espressione oraziana, mentre, sul piano dei contenuti, la poesia varia quelli dell’ode I 11).
51 Nato a Gemona nel 1967, Cappello vive a Tricesimo, in provincia di Udine. In friulano ha pubblicato Il me donzel («Il me da giovinetto»), Mondovì, Boetti 1999, poi reinserito nella più ampia (e splendida) raccoltaAmôrs («Amori»), Udine, Campanotto 1999; in lingua italiana ha pubblicato Le nebbie, Udine, Campanotto 1994; La misura dell’erba, Poesie, Milano, Ignazio Maria Gallino Editore, 1998, 20002 (Namaziano vi figura a p. 19); e ora Dentro Gerico, presentazione di Giovanni Tesio, tavola di Sergio Toppi, collana «La Barca di Babele» 8, Circolo Culturale di Meduno (PN), 2002. Una scelta di sue poesie, dialettali e in lingua, si trova, con titolo L’isola disorientata, una fotografia, e una nota biografica di Anna De Simone (cui rinvio per più dettagliate informazioni), nella rivista fiorentina «Caffè Michelangiolo» anno VI n. 3, settembre-dicembre 2001, p. 34. Vd. ora il suo ampio saggio in «Poesia» (Ed. Crocetti) 164, settembre 2002, pp. 51-57.
52 Per rimanere a La misura dell’erba, si confronti con Namaziano quest’altra poesia, intitolata Al sole (p. 35): «Com’è franco e come sta aperto il sole/ sulle virgole di queste lucertole/ e come come loro ora mi attardo/ pulito e netto come un minerale/ a fare breccia di me stesso e muro/ o piolo dopo piolo a scavalcare/ il luogo dove, t’assicuro, si alzano/ le nuvole degli alberi turgenti/ e un’ape e la corolla e al sole il rame/ che vi gioca e sospinto dentro il sole/ io uomo vivo, un organismo dove/ un dio precipitò tutta la terra/ la terra allontanò tutto quel dio;/ sei qui non parti non ritorni attendi/ di partire, pierluigi, o di tornare/ e più che ritorni più che parenze/ queste attese caninamente al sole/ lo sapevi anche tu, che sono amare.» In Dentro Gerico si vedano ora testi come Gerico (p. 17), Queste siepi (pp. 21 s.), D’estate (p. 23), Il punto (p. 35), Condòmini (p. 37), Ipermercato, mezzogiorno (p. 41), Casa di riposo, primo piano (p. 43).
53 Vd. la citazione alla nota precedente; questo l’acrostico di cui si diceva: «Rutilio (non un libro, ma un assetto,/ un’anima) guida a un poeta, un Prometeo/ tenace, confinato oltre il pontile,/ incatenato a un’isola,/ là dove resta solo spazio praticabile/ il viaggio in cui oggi è isolato Rutilio,/ ora più intenso ancora e decisivo.»
54 Per queste invarianti vd. soprattutto il recentissimo Dentro Gerico (per esempio alcuni fra gli stessi testi citati a nota 50), con la fine e penetrante nota di Giovanni Tesio (sua l’osservazione sulla «preminenza (assoluta) degli occhi»: vd. p. 9). Cfr. anche la presentazione dei testi pubblicati in «Caffè Michelangiolo» (cit. a nota 49).
55 Luca Della Bianca (Milano, 17 giugno 1962) è professore di italiano e latino al liceo «Russell» di Garbagnate Milanese. Come studioso, oltre a vari contributi sulla rivista «Otto/Novecento», ha pubblicato la prima edizione critica del volume di Carlo Dossi Ritratti umani. Dal calamajo di un medico (Milano, Istituto di Propaganda Libraria, 1992) e alcune edizioni scolastiche (Il corsaro nero di Emilio Salgari, e Fosca di Iginio Ugo Tarchetti). È autore di narrativa per ragazzi (Biagio e il Cavalier Delalune e Orrore a Vienna, Cornaredo- Milano, Alfa Edizioni, rispettivamente 1999 e 2000) e di più impegnativi romanzi (Il Rosso di Santa Barbara, Istituto di Propaganda Libraria 1995; Brigognard, Alfa Edizioni 1999). Ha fondato e diretto un’assai intelligente e brillante rivistina, «Belusci», imperiodico semiclandestino di cultura (diciotto fascicoli, dal 1983 al 1991). Insieme a Simone Beta ha recentemente pubblicato (Carocci editore, 2002) il saggio Oinos, Il vino nella letteratura greca, che riprende in parte materiali della sua tesi di laurea in Letteratura Greca discussa alla Statale di Milano sotto la guida di Dario del Corno. All’esperienza del «Belusci» fa ora seguito quella del «Bagolone. Quadrimestrale di frottole e Panzane», dal cui «anno primo, numero 2, primavera millenovecentoecentouno », p. 7, ho tratto la poesia che qui segue. Sulla prima pagina di questo foglio semiclandestino si legge la severa avvertenza: «Non si riceve posta, non si risponde a telefonate, non si ammettono estranei in redazione, non viene data possibilità di alcun genere di mettersi in contatto con la rivista».

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