« indietro JOLANDA INSANA, La stortura, Milano, Garzanti, 2002, pp. 141, Euro 14.
È una Poesia etica prima che civile, di un ethos personale ed esistenziale, quella praticata da Jolanda Insana, che con La stortura, suo settimo libro di versi, attraversa stazioni dolorose del presente, espone a sbalzo storia individuale e collettiva. I testi, scritti fra il 1995 e il 2000, sono fermamente articolati in una struttura di intima e pervicace coesione: diciassette sezioni aperte da emblematici versi/epigrafi in corsivo che di ciascuna sezione incidono in limine tono e carattere con stringatezza sapienziale. La stortura dice il dolore e al tempo stesso, metapoeticamente, la difficoltà di dirlo, di declinarlo in sillabe che battono contro «una mandibola che non tiene». La lingua di Jolanda Insana è «martoriata», non tace brutture nel suo lavorìo di distillazione costante, di pulizia ragionativa tersa nella sintassi e nel lessico, ricca di assonanze, rime al mezzo, omoteleuti incrociati in chiasmo. È una lingua «abituata a pagare», come l’autrice: «non ci sto con questi bamboleggiamenti / perché io sono abituata a pagare / l’energia che consumo / e nessuno mi mantiene la luce / e poi / avendo calli sulla lingua / non s’addice alla mia bocca la mollezza bàbbia / di nanina sisetta pipina». Una voce, dunque, che conosce le sue fratture, che è « continua contusione» e che proprio a dispetto della lucidità con cui sente e sa di non poter essere assoluta è invece salda e abbranca infallibilmente il reale in un dettato in cui si mescolano con sapienza echi antichi – critici lacerti di sapore cristologico come «stacca le sanguisughe dal costato», spazi e gesti (forse anche) allegoricamente casalinghi come libri, piante, davanzali, limoni e «rucola dell’orto», «pane e farina » –, lucida sentenziosità gnomica come il raggelante «il pescecane morto / continua a inghiottire / pesci vivi», accenni di laiche formule litaniche come «foglia verdente / acqua corrente / porta via questo male ardente», e frusti inganni del quotidiano per coloro che «nei bicchieri» si versano «altri giorni laccati» e poi «sul vassoio di plastica consumano la cena / davanti alla televisione / per non perdere di vista sanremo casini e buttiglione».
Cecilia Bello Minciacchi
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