« indietro GIULIANO MESA, Quattro quaderni. Improvvisi 1995-1998, Lavagna (GE), Editrice Zona, 2000, postfazione di Guido Caserza, pp. 93, Euro 7,23.
Quattro quaderni, quattro quartetti, composti da temi variazioni raccordi serie, così il ‘versificatore’ (così si autodefinisce l’autore) struttura poesia come «argine al vaniloquio, un nulla che protegge un altro nulla», inutile è «dire, inutile non dire – meglio la finzione dei versi: il loro farsi oggetto, il loro durare, il loro mutare. Fuori di sé...». Appunto, il versificatore lirico ha abolito l’Io poetante e tutto il suo bagaglio esistenziale a favore della parola poetica rossellianamente intesa non come musicale ma come musica. E la musica non ha referente, non ha oggetti concreti di riferimento: e qui scatta il quid poetico, gli oggetti ci sono, ma negati, rimossi, e i soggetti popolano le dediche nel fitto apparato di note. Del naufragio dello stile lirico nella poesia di Mesa, Caserza ha messo benissimo in luce gli aspetti fondanti, dicendo però che se di naufragio dello stile si tratta è della stessa specie di quello della poesia rosselliana, di cui Mesa mi sembra ottimo proesecutore nei suoi ‘spazi metrici’. Conforta l’ipotesi una dedica in memoriam alla grande Amelia (p. 18). Ma sentiamo Caserza: la struttura «cabalisticamente chiusa e imperniata sul numero quattro» segue una griglia jazzistica quartettistica, in cui la citazione montaliana è intenzionalmente parodica dato che, come accennavamo sopra, l’aneddotica qui è completamente rimossa, o lasciata nell’a priori. La rigorosa forma quartettistica, di marca eliotiana, è, come recitano gli appunti dello stesso versificatore pubblicati nel libro, «un’epidermide artificiale su un corpo scorticato» dalla «tensione formale tra l’impulso improvvisativo e la disciplinatissima struttura esterna». Rigore e improvvisazione, impulso e compressione per una poesia enunciativa che mette in crisi i pilastri egotico-metaforici della lirica per concentrarsi sugli elementi ossessivamente deittici dell’enunciazione: «in primo piano vengono portate le parole vuote della lingua (congiunzioni, dimostrativi, avverbi di modo e di tempo), disposte variabilmente per contiguità, anafora, ripresa a formare un virtuale asse paradigmatico ... il risultato lirico non è quello di una designazione perentoria dell’oggetto, ma quello di creare nel lettore un’attesa di senso che non viene risolta ... un abnorme sviluppo di una retorica in absentia con cancellazione del potenziale metaforico e metonimico» interamente sostituiti da una «deissi attributiva e fabulatoria». «Se così non fosse, se dai deittici non discendesse una storia, se l’inerte dimostrativo non venisse letto come un fatto di sentimento, questa poesia rappresenterebbe un insensato esercizio linguistico. Così non è: il contenuto lirico si riversa sull’enunciazione, sulla disperante tautologia». Allora, andando in mezzo ai testi, fra spazi metrici e tendenze neometriche, cito per intero un sonetto, manco troppo occultato in quanto tale, la cui gioia nera del canto mi strazia:
è come se andarsene non fosse che questo,
questo restare e fare ancora un gesto
(è come se dirlo fosse soltanto vero,
e non più vero, ancora, del non dirlo)
e poi quello che manca mancherà
e ciò che è è ciò che ormai è stato
(e parlane, mio amore, dinne ancora,
fa che sia vero ancora)
(pensa ad un giorno, pensando ancora
a chiudermi gli occhi, finché c’è luce,
a premere ancora, sulla tempia, il nervo che pulsa)
(pensa che vuoi pensare,
fino a quel buio,
fino alla luce, infine, che scompare)
È una delle più belle poesie d’amore che conosca. Ecco, il canto «questa sorda sirena», non invita all’ascolto come la sirena che Caproni mutuava da Dante, non invita al ‘tu’, è una «selva silente», qualcosa da respirare, qualcosa che rossellianamente «non resta che finire». Questo il programma corsivato in esergo al libro: un programma rosselliano: non resta che farla finita con la glossolalia schizofrenicojakobsoniana dell’avanguardia e di tutte le sue sorelle postume e al tempo stesso non resta che farla finita con i cantati facili del lirismo (che però poi risbucano sonettando, e meno male, in un certo senso). Non resta che la poesia come passatempo, passata del tempo, tempo musicale. È la (il) fine della poesia a sfondo di catene paronomastiche: qui – a ‘dire il vero’ – sta l’esibizione-esecuzione inibita improvvisata del pati campaniano-rosselliano. Sullo sfondo c’è il pudore della glossolalia poetica: «invece non c’è parola o suono / che si salvi dalla vanità, è tutto / un fumo di varianti, di ripetizioni. // invece le cose accadono e, / a pensarlo con una certa disperazione, / scovata in una pausa di peristalsi, / in un attimo di sordità, / la vita da vivere, poi, si fa più breve ». L’uso frequente di una rara funzione conativa plurale («vedete», «pensate») e la fitta tela di amici dedicatari dei versi si sostituisce al ‘tu’, in un esemplare comunismo sfocia la cultura poetica nostrana qui rielaborata intelligentemente contra ogni stilnobbismo, e sottovoce: mai una maiuscola e molte parentesi nella poesia di Giuliano. Un lirismo particolare quindi, masochista, autodistruttivo in bella vista formale, ironico, sarcastico ma molto commovente.
a\Rosaria Lo Russo
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