« indietro GIORGIO ORELLI, Il collo dell’anitra, Milano, Garzanti, 2001, pp. 118, Lire 25.000 .
Il collo dell’anitra è un’epifania consueta e prealpina della rifrazione dei colori descritta da Lucrezio nel luogo (De rerum natura II 798-805) che Orelli traduce in limine: «Già nella luce stessa trasmuta un colore / se rifulge perché lo percuote obliqua o diritta; / così cambiano al sole le piume dei colombi...». Il titolo della nuova plaquette rivela così una segreta rispondenza, in capo a quasi mezzo secolo, con quello della raccolta di esordio, Né bianco né viola (Lugano 1944), dove il trascorrere dello spettro cromatico era già la devise di una poetica di nominazione delle evidenze prime e meno effabili. Come sa il lettore di Spiracoli (Milano 1989), la precedente raccolta di Orelli, niente come un colore può essere «difficile da dire» (così nel sesto dei Cardi), e le «trasmutazioni» del visibile hanno una riposta affinità con quelle della parola che lo nomina: si ricordi Verso Basilea, dove «vacche brucano in fila tra lunghe strisce d’un giallo / vicinissimo a un tratto, abbacinante, / Flachs, dice il compito signore ma sbaglia, o vede azzurro / è Raps, colza». La ‘dimostrazione’ si rinnova ora nell’importante componimento di chiusa, Le forsizie del Bruderholz, datato 1989 e suscitato da un orribile fatto di cronaca del tempo (la morte data dalle infermiere di un ospedale viennese a «pazienti forse impazienti»): che è come una variazione obbligata, e coerentissima, su un tema insieme cromatico e timbrico, il verso del Letzer Frühling di Benn alzato in esergo, «Nimm die Forsythien tief in dich hinein» (da cui, con puntuale ‘resa’ fonosimbolica, i «soffi improvvisi di silfi / malefici», la «gioia gialla di forsizie»), che affiorava già in Sinopie (Milano 1977) con «un fascio / di fiori gialli che altro non erano / che le forsizie di cui lessi in Benn» (Sera di San Giuseppe), per ritornare in Spiracoli, col gatto che «scompare lontano in un giallo / di forsizie» (Le bottiglie vuote), e ancora nella nuova silloge, in Non conosco l’azzurro: «... e nemmeno, fra tanti, il tuo giallo: / non forsizia o mimosa, ma se mai / ginestra». Dove il gioco dell’autocitazione (che assomma anche la «pastura [...] senza giallo di mimose » di Blu di metilene, in Spiracoli) vale ad accertare come il cromatismo orelliano, esente da ogni ambiguità analogica, sia un linguaggio di designazioni rigide, come una tavola periodica di essenze irriducibili. Dalla penultima all’ultima raccolta, la cifra è senz’altro quella della continuità e del riepilogo, di una «partita di ritorno», per valersi di una intestazione cara all’autore. In una sorta di esercizio di ascesi, il dettato di Orelli ritorna sulle proprie scansioni, e quasi si rastrema nella verifica puntuale di singoli ‘generi’: l’epigramma funebre, l’invettiva (Altri cardi riprende la sezione omonima di Spiracoli, sempre bilicata fra la cronaca locale e il tema ecclesiologico), la prosa memoriale, il quaderno estivo (le Estive continuano il diario di Quadernetto del mare, in Spiracoli, e il Quadernetto del Bagno Sirena, in Sinopie), la silloge di esercizi dialettali, il ‘precipitato’ della parola infantile (cui è consacrata interamente l’ampia sezione VIII), il calembour allusivo, fino al tautogramma intitolato Imber (quasi un omaggio alle ricerche di Giovanni Pozzi, dove il nome di Orelli poeta e saggista occorre più d’una volta; e da confrontare con simili esercizi, eventualmente in acrostico, del più recente Erba), o al monostico allitterante di Giro delle Fiandre, «È dura, Mauro, al Muro di Grammont», dove il nome francese della città di Geeraardsbergen chiama indubbiamente in causa anche Maurice Grammont (1866-1946), autore di uno dei testi-chiave dell’epigonismo mallarméano, Le vers français, ses moyens d’expression, son harmonie (Paris 1904). E si conferma, come acquisto definitivo e intimamente necessario, l’opzione plurilingue, nella duplice declinazione dell’eteroglossia aleatoria dei frammenti di conversazione che si riverberano «per blocchi impensati» nel parlato interiore (è specialmente il caso delle Estive, dove le tre lingue elvetiche si intrecciano nei nonsense auscultati in riva all’Adriatico) e del «cerchio familiare» dei dialetti ticinesi. Il quaderno degli esercizi dialettali forma una sezione a sé (il cui titolo, In riva al Nilo, speculare ad altri come In ripa di Tesino, evoca lo scavo archeologico, la collezione di reperti), parca nel numero quanto svariata nella registrazione, come per singoli specimina botanici, delle diverse parlate di valle: quella materna di Prato Leventina (la prima ad affiorare in Spiracoli, che a sua volta era una parola «colta nel dialetto bleniese»), il dialetto di Locarno, il «dialetto più o meno bellinzonese» (per una poesia di Spiracoli si specificava: «contado di Bellinzona»). Lo spazio dialettale di Orelli si frammenta in microcosmi autonomi, riportati alla luce nella loro qualità di unica, in un percorso euristico in tutto affine agli «accertamenti» del lettore di poesia: così il rifacimento in locarnese del carme VIII di Catullo, Pòro Catüll, piàntala de fa ’l matt, è altro che un semplice divertissement, e rinvia a certe agnizioni di Sinopie («nel presente / indicativo del suo dialetto / le doppie sibilanti sibilavano / come nel Canto Quinto dell’Inferno», in Frammento dell’ideale; «Che ur a in?, dalla u alla i / quasi come in Virgilio o nel Folengo: / barathrùm oculìs», Nel mezzo del giorno) che si prolungano qui nel gioco etimologico su «Magrissima, sempre malštranscia (male se trahens, suo dì tardo traendo)» (Zia Vera), dove la parola rammemorata si converte immediatamente in citazione poetica.
Agostino Casu
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