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CESARE VIVIANI, Passanti, Milano, Mondadori, «Lo Specchio», 2002, pp. 112, Euro 9,40.

Sei sezioni numerate e disuguali (esilissime le prime, corpose e digradanti le ultime tre), per un totale di 73 componimenti di ampiezza compresa fra tre e quindici versi (ma per più della metà fra sei e otto) sono attraversate dalla dialettica fra il vano movimento proprio della «condizione esistenziale degli esseri umani » del titolo (come spiega la breve nota finale) e quello delle forze vitali che, trascendendo il tempo e lo spazio del medesimo scenario, assurgono ad ulteriore permanenza (talora un po’ artificiosamente: «lo spostamento finisce, appena accaduto, / il cambiamento è eterno, / non esiste »). Più che il generico riferimento all’oltretomba dantesco (pure presente almeno negli esseri che «ogni dì si raccolgono sulle rive/ per darsi animo», e forse nel parasintetico s’invola), sin dall’incipit proemiale (Un girone invisibile, impercettibile) emana la tendenza alla denotazione sinteticamente denegativa (prefisso in-; ma anche gli analitici ‘non + agg.’ e ‘senza + sost.’), che, unitamente al lessico astratto (suffissi in -zione, -enza, -ore, -tà), testimonia del carattere frustrato di una tensione religiosa e conoscitiva confinata di qua dall’unica vera sostanza, e costretta a registrarne qualche minima traccia rimasta in una dizione insieme nervosa e approssimata, cui sono da ricondurre: (1) una sintassi ellittica, anacolutica, e temporalmente sgomenta non solo nell’indeterminatezza di infiniti, gerundi, e participi presenti (a partire dal titolo) ma anche nella sospensione durativa degli imperfetti e nell’evocatività epica e profetica di passati remoti e futuri («Il grido attraversò il buio / fino all’altra sponda / o nemmeno sfiorò / lo spessore della notte »; «Comincerà la luce a rafforzare la fede, / nell’arco della mattina crescendo »); (2) la generale tendenza all’accumulazione in funzione di correctio che – autentico principio strutturante la raccolta – anima i prolungati asindeti e la coordinazione esplicita (con punte anche ossimoriche: lieve o feroce) fino alle formule sue più proprie (non... ma...). Questa ha il proprio corrispettivo metrico in un uso degli enjambements teso a consolidare la fondamentale aritmicità del verso, già di per sé costituito in misure vicine alla tradizione ma raramente esatte – e più spesso prosaicamente eccedenti (specie fra 13 e 15 sillabe, solo talora riconducibili a doppi settenari) che espressivamente mozze – e solo in clausula piegato all’accelerazione del ritmo (senari) o all’esibizione delle rime (grammaticali, tronche, baciate), altrimenti rare e retrocesse ad assonanze e/ o interne. In questo universo incorporeo e sfuggente spiccano alcune presenze elementari (cielo, sole, acqua, fuoco, vento, e poi fronde, colli e valli, boschi e fiori, la piana lacustre e il monte, che è l’immagine direi più naturalmente congeniale), di fronte alle quali, efficacemente, «l’autore si ritira illustrando / l’autonomia della natura» da qualsiasi volontà o esegesi altrui («Ha cancellato i segni delle civiltà passate, / è acqua innocente, / è lei che comanda e impone: non si interessa di niente»), e rovesciando l’ottica degli umani («Oh non è il pescatore che aspetta, è l’acqua, / quando vi entrano due o più fili di intenti»), la cui aumentata presenza nelle sezioni finali induce un interrogarsi più diretto e qualche accenno ironico o polemico, e insomma un’affabulazione felicemente più distesa, dietro cui sembra a tratti apparire in filigrana la trama delle occasioni che la generano. A ridosso di tali elementi l’attitudine contemplativa e stupefatta (l’interiezione incipitaria) si fa talora ragionativa e produce più marcate connessioni tematiche (la luce, l’orizzonte, l’aria), aiutate da un’istanza narrativa linguisticamente fondata (coerenza di tempi verbali) quando non sintatticamente evidente (fin negli attacchi: E, Così, Finché), oppure disseminate a distanza quali flebili tracce ricorsive (il ruolo della scrittura), e tuttavia enigmatiche come l’affiorare di una voce: «‘I loro fiori’ - e mai si seppe di chi».

Attilio Motta

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