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REMO PAGNANELLI, Scritti sull’Arte, Piacenza, Edizioni Vicolo del Pavone 2007, pp. 79, € 12,00.

Gli scritti di Remo Pagnanelli, opere brevi fugate dalla temperie semiotica e strutturale, in gran parte risalenti agli anni Ottanta e raccolte in questo caso da Amedeo Anelli in un piccolo volume di recente pubblicazione, si muovono dalle arti in generale al cinema, dalla pittura alla musica per dedicarsi maggiormente ad alcune questioni strettamente legate all’estetica. Nello scritto Ipotesi (ipostasi) per una definizione della visionarietà, soffermandosi in particolare sul portato di autori come Benjamin, Gombrich, Eco, Panofsky, Lotman e Uspenskij, Pagnanelli si concentrava sulla visionarietà dell’arte in senso lato: l’intento era appunto quello di dimostrare la visionarietà dell’arte di ogni tempo. Lo statuto della visione – secondo ascendenza freudiana – potrebbe essere una sintesi di poli antitetici dell’esistenza (spinte pulsionali dell’individuo e leggi della società). In questo senso, disturbi o perturbamenti diverrebbero visionarietà nel caso dell’arte, misticismo nella religione, allucinazioni nella psichiatria. Tale percorso porterebbe a considerare l’ordine come base del fatto artistico (anche il caos avrebbe le sue regole ben precise, sarebbe un ordine diverso ma mai disordine puro). «I fini eversivi e alternativi, rivoluzionari, se volete, del visionario, hanno illuso per parecchio tempo l’artista di poter cambiare il mondo (almeno nelle società in cui l’arte aveva un posto di rilievo), confluendo spesso con il movimento delle avanguardie: in realtà hanno cambiato il modo di vedere e di vivere il fatto estetico e il suo spazio, ma poco hanno potuto contro le omologazioni del potere» (p. 11).

L’arte di Remo Pagnanelli si presenta come un viaggio nell’ignoto: il vero artista si distinguerebbe dal folle o dall’allucinato poiché nel ritornare indietro porta con sé un resoconto personale dello stesso viaggio; formalizza una materia arcaica, tipicamente propria dell’umanità, recuperando un patrimonio straordinariamente vasto e comune. «Oggi che viviamo nella cosiddetta civiltà delle immagini, dobbiamo ammettere un’equazione triste, visionarietà/sembianza (ne segue l’ambiguità e inutilità dell’ermeneutica iper-soggettiva e asistematica). Siamo giunti ad un punto di non ritorno, di impossibilità di trasmissione di valenze semantiche, con aumento incontrollato del fenomeno rumore di fondo o eccesso di immagini. Nell’arte la sovrabbondanza di segnali si ribalta nel grado zero della testualità (testo, per Lotman, è anche l’intera società)» (p. 16).

Le pagine di Pagnanelli (che un editing più accurato avrebbe potuto valorizzare) ammiccano a brevi percorsi tra cinema, musica e poesia, riconoscendo così che, anche quando le arti si intersecano, «i loro specifici rimangono non complementari» (p. 27); il volume curato da Amedeo Anelli lascia concretamente spazio ad artisti come Rita Vitali-Rosati e Guttuso, e in chiusura a Carlo Bruzzesi, Valerio Cicarilli, Egidio Del Bianco, Pina Fiori, Mauro Puccitelli, Miranda Tesei, Andrea Zega. Del resto, già nei Presupposti per un’estetica pedagogica, l’autore predicava una disciplina oramai svincolata dal «ruolo ancillare della filosofia»: si è finalmente resa quale pensiero che riguarda l’arte e quale pensiero che emana l’arte. Il suo destino sarebbe comune a quello dell’ermeneutica: poiché l’opera diviene capace di muoversi e trasformarsi come un organismo, a seconda delle letture che lei stessa è in grado di suscitare; l’estetica guarderebbe in tal modo a qualcosa che si approssima all’origine, che si muove per una selva di simboli e che già precede la ragione.

(Antonio Maccioni)


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