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Elisa Tonani, Il romanzo in bianco e nero. Ricerche sull’uso degli spazi bianchi e dell’interpunzione nella narrativa italiana dall’Ottocento a oggi, Franco Cesati Editore, Firenze, 2010, pp. 318, euro 28,00.

A prima vista, un libro sugli spazi bianchi e l’interpunzione in letteratura può ben sembrare una dissertazione sul nulla: ed è così che Elisa Tonani sceglie di giocare d’anticipo, chiarendo i termini della sua scommessa in un’introduzione apertamente militante in cui si precisano premesse teoriche e obbiettivi analitici, stato dell’arte e contestualizzazione storica di un campo di studi ai più sconosciuto, e però inopinatamente fecondo – e che soprattutto negli ultimi anni si è giovato del successo di alcune opere che di grammatica e punteggiatura hanno fatto esplicita materia di narrazione, come l’Eleganza del riccio di Muriel Barbery (2006).

Al di là del gusto del momento, questo Romanzo in bianco e nero restituisce un’immagine in negativo della letteratura, che è erede, se si vuole, del migliore strutturalismo; perché se non c’è parola che non scaturisca dal silenzio, non c’è scrittura che non si stagli su uno sfondo. In una concezione del testo scritto come effetto di un atto di parola, il bianco della pagina corrisponde al silenzio; e se quello dei margini allude all’universo indistinto del non (ancora) detto, quello delle spaziature interne, su cui si concentra Tonani, può giocare un ruolo importante nel processo di significazione del testo (come ha dimostrato soprattutto la poesia ‘concreta’ o ‘visiva’), ed è perciò suscettibile di indagine stilistica (come non si è tardato a fare). La novità del lavoro di Tonani sta nell’applicazione di quegli stessi strumenti analitici a un campo della produzione artistica – il romanzo italiano di Otto e Novecento – che non valorizza la mise en page a livello programmatico, ma che gradualmente recepisce le suggestioni delle sperimentazioni poetiche coeve delle avanguardie e della neoavanguardia.

Impegnato per due terzi nella ricognizione del crescente sfruttamento del bianco – e cioè del vuoto – nella narrativa italiana contemporanea, il libro sostiene la nitida tesi del passaggio da un uso strumentale delle spaziature (là dove siano limitate a scandire il ritmo visivo del testo) a un impiego più propriamente espressivo (che le vede salire sullo stesso piano della parola, in potenziale e proficua competizione); una tendenza che culmina nella rottura dell’equilibrio, col bianco erosivo degli ultimi tre decenni che alternativamente minaccia di precipitare la parola nel nulla da cui proviene, o al contrario la celebra attribuendo un valore oracolare a quel che ne resta.

Iniziando da I Promessi Sposi e passando per testi capitali come Fede e bellezza, Mastro-don Gesualdo, I Malavoglia, Il Piacere, Il Fu Mattia Pascal, Uno, nessuno, centomila, La coscienza di Zeno, Tonani arriva a tracciare una vera e propria fenomenologia del bianco letterario, individuando una gerarchia fra diverse strategie di divisione (spazi vuoti, asterischi, filetti, righe orizzontali) e distinguendo puntualmente tra funzioni narrative e valori retorico-stilistici. Oltre a rilevare ellissi e reticenze d’ogni sorta, lo stacco tipografico segnala mutamenti di scena, introduzione di nuovi attanti, alternanza di mimesi e diegesi, cambiamento di enunciatore, inserzione di materiali eterogenei come le illustrazioni; ma soprattutto, costituisce il luogo da cui si affaccia, o dove ricade, l’istanza narrativa; la sede deputata all’ostensione della fictio. O al contrario, è la soluzione puramente formale che consente di liquidare le tradizionali funzioni del narratore grazie a una semplice operazione di montaggio: ne è un chiaro esempio l’uso sistematico dell’a capo e alinea nel discorso diretto, che limita l’intervento narratoriale ai soli casi in cui sia effettivamente necessario compensare a eventuali irregolarità nel turno dialogico. È in questo quadro che trova opportuna trattazione, in un apposito capitolo, la resa tipografica del discorso diretto, di cui si ricostruisce una breve storia a partire dall’istituzione del sistema oppositivo virgolette/lineette, che mira a disambiguare la fonte enunciativa, e a distinguere fra enunciato e pensiero – giustappunto le norme che vengono revocate nella tecnica opposta della focalizzazione interna, che sperimentando le forme ‘libere’ del discorso riportato attribuisce al narratore la responsabilità di enunciati altrui: perché in questo caso l’obbiettivo è altro che la chiarezza.

È a partire dagli anni Trenta, secondo Tonani, che il romanzo italiano esce dalla fase della perlustrazione degli strumenti tipografici e di una prima codificazione del loro uso per saggiarne invece le possibilità espressive. La «vocazione teatrale» (p. 25) di quella temperie porta alla valorizzazione di una pausa tipografica che vale a denuncia dell’illusorietà delle apparenze – come sembra che accada in Moravia e Pirandello: anche se un campione di tre sole occorrenze pare un po’ risicato per parlare di tendenze. Più convincente, articolata e corroborata da riscontri testuali, l’analisi del periodo successivo, che comprende i romanzi ‘psicologici’ di Buzzati e Pavese da una parte, e quelli ‘storici’ di Tomasi di Lampedusa e Morante dall’altra; se quest’ultimi continuano a servirsi delle spaziature in chiave di sospensione enfatica e amplificazione del pathos secondo una matrice già manzoniana, è nei primi che si ravvisa una maggiore consapevolezza e un più deciso e coerente impiego stilistico della risorsa. Nel caso di Pavese, ad esempio, lo stacco ricorre in coincidenza di una rimozione psichica connessa alla sfera sessuale o ai temi della solitudine e dell’incomunicabilità – una valenza che Tonani riassume efficacemente nella formula di un bianco «forclusivo», che rimanda alla forclusion lacaniana (p. 139). Quanto a Buzzati, la spaziatura visualizza la mancanza di senso di cui è a caccia il discorso, o la beffa metafisica di cui sono vittima gli attanti in eterna attesa del compimento del loro destino.

Con il romanzo sperimentale degli anni Sessanta e Settanta, e in particolare con la tecnica del collage, le spaziature acquistano, prevedibilmente, un ruolo centrale nella composizione di testi labirintici che sembrano autoprodursi in virtù di un algoritmo impersonale. Il bianco, in Sanguineti, illustra la vacanza dell’autore, e si combina ad audaci manipolazioni del lettering e dell’interpunzione; nella Violenza illustrata di Balestrini, ottiene effetti stranianti, mimando l’inceppamento della parola nell’ennesimo esercizio di stile. Risultati che si apprezzano meglio nell’opportuno contrasto con una prosa che ha invece «una portata torrentizia» (p. 173) come quella di Berto e di Camon, refrattaria alle spaziature come ai vincoli dell’interpunzione, travolta da un’ansia del dire che dilaga senza incontrare resistenza.

Tuttavia, è probabilmente nella quadrilogia romanzesca di Biamonti – cui Tonani dedica le pagine migliori del saggio, sulla scorta di autorevoli esperti biamontiani – che l’avvicendarsi di scrittura e di vuoto si fa cifra di una poetica coerentemente centrata sulla dinamica tensiva fra parola e silenzio, e profondamente conscia del valore iconico del layout del testo – come si deve dedurre anche dagli scritti dell’autore sulla pittura. In L’Angelo di Avrigue, Vento Largo, Attesa sul mare, Le parole la notte – solcati, oltre che dalle spaziature, dai frequentissimi a capo, tanto nella diegesi quanto nella mimesi – la scrittura rileva una pulsazione d’essere che stenta a rapprendersi sulla pagina, e dilava nel vuoto senza più trovare, come ha notato Vittorio Coletti, «il fondamento metafisico del dire» (p. 189).

L’ultima parte del libro, riservata alle sorti dell’interpunzione nella narrativa italiana dalla seconda metà del Novecento, prosegue, di fatto, la stessa indagine, seppur da una diversa angolatura. Con l’a capo e lo stacco interlineare la punteggiatura condivide infatti la trasparenza, l’imitazione dell’oralità (specialmente nei suoi aspetti emotivi), la funzione sintattica (che in quanto chiarificatrice del senso ha un ruolo evidentemente costruttivo), il valore testuale (laddove permette di inferire quanto resta implicito pure in assenza di nessi consequenziali) e l’impiego stilistico (nello scarto fra uso autoriale e norma ortotipografica). È a questa omologia che si riferisce Tonani quando annuncia che si occuperà della punteggiatura «stricto sensu» (p. 25), e cioè della punteggiatura ‘nera’, secondo l’illuminante distinguo fra interpunzione e segni di interpunzione operata da Henri Meschonnic: «un blanc n’est pas une absence de ponctuation, tout en étant une absence de signe graphique de ponctuation» (p. 22). A riprova, Tonani porta, fra gli altri, il caso della soppressione dei segni introduttori del discorso diretto in Baricco, dove basta il modulo a capo-a linea, e a volte la sola iniziale maiuscola, a garantire l’intelligibilità dell’alternanza dialogica (p. 271). Ma più in generale, a riprova si potrebbe portare buona parte della narrativa contemporanea, se è vero che gli ultimi sessant’anni si sono distinti per una progressiva semplificazione sintattica che, privilegiando un puntuante fra gli altri (il punto o la virgola), finisce per annullarne il peso specifico; col risultato di demandare al lettore il compito di inferire, sulla base di adeguate strategie compensative, la reale valenza del vuoto (e cioè della punteggiatura ‘bianca’) che soggiace al segno reso muto. Se questo esercizio permette di apprezzare il virtuosismo stilistico di un Fenoglio o di un Berto (che della punteggiatura arriva quasi a fare a meno senza che questo intacchi la perspicuità del senso), altra cosa è la sciatteria che si riscontra in tanta prosa giornalistica dei nostri giorni che, fra suggestioni televisive e cedimenti al parlato, tende a uno stile paratattico e giustappositivo.

Se Tonani, pur nell’assoluto rigore filologico, aveva l’ambizione di rivolgersi a tutti, e non solo a un pubblico di specialisti, valeva forse la pena di soffermarsi su una distinzione, che rimane invece sul fondo, tra due modalità di fruizione della scrittura: l’una mentale, l’altra vocale. Le implicazioni non sono banali, come ben sa l’industria del libro elettronico: mentre il secondo tipo di lettura può essere sia attivo sia passivo (attraverso la pratica dell’ascolto), del primo tipo si dà solo una forma attiva. Il che equivale a dire che nel passaggio da scritto a orale – o per usare una metafora musicale che rende bene l’idea, da partitura a esecuzione – si perde completamente la dimensione spaziale del testo, e con quella, la materialità del supporto originario. Per quanto in buona parte sovrapponibili, queste modalità restano irriducibili per l’impossibilità di transcodificare completamente i due sistemi di significazione: a quanti secondi di silenzio corrisponde, ad esempio, il salto di una riga o un a capo? Come si traduce graficamente il tremolio di una voce? L’irriducibilità, sottolinea Tonani, non sta nella presunta insufficienza della scrittura, traccia imperfetta di una phoné tradita, ma nella diversità delle risorse utilizzate che producono testi sostanzialmente diversi; per cui è lecito parlare tanto di ritmi orali quanto di cadenze visive a seconda del tipo di esecuzione cui ci si riferisce.

(Lucia Claudia Fiorella)


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