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CRISTINA ALZIATI, Come non piangenti, Milano, Marcos y Marcos, 2011, pp. 107, € 14.50.

 

L’impressione di forza provocata da questo libro deve essere spiegata. Molta buona poesia italiana di questi anni si è fatta intorno a temi civili: direttamente portando la guerra all’interno dei versi o nel tentativo di ridirezionare la lingua di poesia senza necessariamente cambiarla, ma ‘marcandola’ nella direzione di una comunicazione più ampia, fosse questa poi solo virtuale: ma è comunque quanto ci aspettiamo che faccia la poesia se ci si mette. Il libro di Cristina Alziati (n. 1963) ci offre un montaggio di riferimenti a scenari di catastrofe mondiale e locale con lo stesso effetto di contiguità ragionata a cui ci ha abituato la lettura di Le monde diplomatique o di Internazionale. Sul piano di una comunicazione molto diretta, il collage dei frammenti di realtà può prendere la direzione magari grezza ma combattiva dei murales: lo sgombero dei rumeni accampati a Ponte Milvio è suggellato dal comunicato che segue l’eccidio delle Fosse ardeatine: «l’ordine è stato eseguito», per poi continuare con il ricordo di altri ponti, quelli di Parigi e il massacro dimenticato per almeno quarant’anni dei manifestanti algerini gettati nella Senna una notte di ottobre del 1961: «li chiamavano ratti, è ottobre, sono d’argento». La saldatura di un fatto di cronaca e di un momento chiave nella nascita della Resistenza denunciano nella storia italiana il pericolo di un fascismo perennizzabile. Il riferimento alla guerra d’Algeria è la saldatura internazionale tra noi italiani e gli altri come fratelli di amnesia. Ma gli effetti di reale di questa poesia passano spesso anche per un processo rappresentativo di allontanamento o attutimento dell’impatto del reale stesso, estetizzati attraverso tecniche di alta definzione: il bombardamento notturno dell’Iraq con le sue fosforescenze tecnologiche è consegnato a una realtà di pura visione sincronizzato a una colonna sonora solenne che scandisce il testo, l’oratorio Jephta di Händel: «me ne sto radunata in tre battute / scendo con gli archi al semitono / prima che attacchi Scenes of horror, / Scenes of woe, sono di legno» (si noti, pur con altra persona del verbo, la stessa ostentività della clausola con sono, come nel precedente esempio citato: «sono d’argento»). Il collage come tecnica di aumento dell’emozione e insieme circoscrizione netta dei contorni del pathos è di impiego costante nel libro. Ecco alcuni esempi: «“Rendetemi il mio ben” canticchierà / allacciata alle bocche della chemio», dall’Orfeo di Monteverdi, e si parla del cancro; «Addosso mi piombava, verso l’alba, / Cardenal. Nel mezzo della fronte / mierda a la muerte mi ha garbatamente inciso», con inserto spagnolo che non è una citazione esatta da Ernesto Cardenal, ma il riassunto di una citazione trasformata in slogan da combattimento; infine, con ulteriore alloglossia: «un coro / amica mea, salutava, surge -», dal Cantico dei cantici, e l’inserto latino ha qui, come altrove, effetto dantesco purgatoriale. Non mancano comunque i ferri del mestiere dei poeti civili quali i correlativi oggettivi che da Montale a Fortini la attraversano, incarnati spesso dagli animali, messaggeri di un altro mondo, legati a un linguaggio arcano: «un baccano di uccelli s’è levato», «il grido di un istrice». Quest’ultimi sono anzi una presenza fissa nella poesia di Fabio Pusterla che firma qui la quarta di copertina ma che sentiamo presente dietro molti testi, per esempio, inevitabilmente, dove si parla di laghi alpini, di posti di confine, o in un tipico movimento ‘discensionale’ verso acque lacustri: «scendiamo insieme verso un’acqua immota». A Pusterla e insieme a Antonella Anedda fanno pensare lo sguardo che segue i figli e il mondo libero dei giochi dei bambini mentre pesa una minaccia, avvertibile anche in poesia, almeno da alcuni memorabili testi di Sereni. Lo stile elevato è una delle opzioni retoriche di questo tipo di poesia, si veda l’iperbato di «e altri / attraverso il deserto dei rami / tralucano, alberi», e di «che nemmeno davanti / io vi passo più» (con vi avverbiale per il corrente ci). Fanno parte di questa postura stilistica anche una certa lapidarietà monumentale che risuona nella formula «un tempo redento» o nel ripetuto imperativo di Fortini «scrivi», o anche qualche venatura (abbastanza rara) di espressionismo: «una è la storia / che ci crepa». Più caratteristiche però della poesia di Alziati sono aperture cristalline come: «La bellezza / degli alberi è impressionante», caratteristiche al punto che si applicano anche dove il referente del verso è terribile: «Hanno portato una piccola mummia, / la più nuova di tutto il creato» che è una bambina «masticata all’interno» da una bomba israeliana (che provoca un ‘disseccamento’ degli organi interni senza alterare la superficie del corpo). La meraviglia dello sguardo-lingua lambisce il reale, quasi questo fosse sempre buono, almeno in potenza, almeno per quanto suscita quella sete di giustizia che è, come nella poesia di Cardenal, teologia e politica di liberazione dalla miseria, non la sua accettazione. Del resto, il titolo stesso del libro viene da un passo escatologico della prima lettera paolina ai Corinti (I Cor 7 30). Si comprende dunque il valore degli inserti linguistici in spagnolo (che può entrare anche nell’italiano: «la leucemia se l’è portata» traduce certamente un se la llevó): stanno per un orizzonte di libertà, un po’ con l’effetto di quando si sente una canzone di Mercedes Sosa. Peraltro si noti come l’alleggerimento stilistico tocchi perfino le evocazioni della lingua più lirica, quella di uno Celan reso meno abissale ma comunque sempre verticale, uno Celan apertamente omaggiato con variazione dal sapore di filastrocca sulla Niemandsrose: «presso la rosa, che non è la rosa / che è diventare una rosa». Tutte queste aperture si vogliono soprattutto intensamente comunicative, così che è del tutto naturale trovare nel libro anche alcune poesie d’amore: «Sono molto più vecchio di te, / mi ripeti, e intanto assomigli / a qualcosa che amo. // Ci legano i secoli, ti spiego. / Tu stai proprio all’inizio, / io in quelli tutti attorno». E vanno insieme con queste situazioni in cui il rappresentato passa direttamente attraverso il dialogo: «Dai viadotti mi scrivi di un viavai di ambulanze / verso i monti. È l’Aquila rispondo, / che pietra su pietra / che prima dell’alba si è piegata», e si noti ancora una volta l’effetto di attenuazione di quel piegata (rispetto a un ‘crollata’ o altro). Ma il passo più impressionante, per naturalezza, è compiuto nelle poesie che trattano di un particolare teatro di operazioni, la lotta sostenuta contro il cancro: «Come vuoi che racconti dei mesi / di quello strano straordinario inverno / di gemme anche quassù, e sole / fra i rami nel dicembre, quando il manto di neve ero io, io la corteccia glabra / lo scricchiolio del gelo nelle ossa – per quale / voce straordinaria dirti l’inverno, / quando l’inverno ero io?». L’equazione più visibile è tra corpo del poeta e tutti i corpi rappresentati nel libro che hanno subito la violenza della guerra. C’è poi l’equazione tra corpo e pagina bianca, pagina-neve. Sono tracciati dove è fatto muovere il pronome io, di ripetizione in ripetizione in una proiezione discorsiva delle emozioni che esprime accettazione, fiducia. Si può dire che da questa proiezione nasce la sensazione di semplicità e di forza del libro. Il poeta civile è come un reporter, embedded in un plotone invisibile di soldati che siamo noi. Per raccontare ha i ferri dello stile elevato, il dovere di una certa chiarezza, una concessione di limpidezza come la troviamo nella migliore Alda Merini e soprattutto il programma dello Celan di Meridiano, cioè che per essere più ‘pesanti’ dobbiamo diventare più leggeri. La sua poesia resiste quando continua a parlare anche dopo avere così magistralmente esaurito il compito della testimonianza.

 

                                                                        Fabio Zinelli (in Semicerchio 46 2012)


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