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JOLANDA INSANA, Turbativa d’incanto, Milano, Garzanti, 2012.

 

C’è sempre stato uno scontro nella poesia di Jolanda Insana, sin dall’esordio di Sciarra amara (1977). Uno scontro teatrale, e dunque proiettato verso l’interno; ma al contempo uno scontro covato nella più fonda interiorità, dove non c’è più un ‘io’, ma si agitano le forze della biologia, quelle che determinano – non c’è niente da fare – la vita di qualunque animato (lo spiegò anche Freud). Quando si attraversano i sei poemetti di Turbativa d’incanto, l’ultimo libro della poetessa messinese, ma di stanza a Roma da decenni, si ritrova esattamente questo medesimo scontro: estroflesso – fino alla contrapposizione di tondo e corsivo come due voci (ma intercambiabili) – e insieme rivolto verso lo sfondo biologico: «umani per il 10 per cento / e microbi per il resto / conviviamo con miliardi di vite minime / ignorando le comunità che ospitiamo». Polarizzazione e fisicità restano dunque i caratteri principali della poesia d’Insana, tesa alla manipolazione energica della lingua, sia attingendo al ricchissimo repertorio linguistico della tradizione sia spingendo in direzione deformante. Troviamo così ricordi da Dante («e se non piangi di questo / di che piangi», che viene dal canto XXXIII dell’Inferno), o semmai allusioni a un lessico arcaico («penurietà» invece che ‘penuria’) o semmai l’adibizione di un repertorio espressionistico tipico di ogni età della letteratura italiana («putassa mutangola smargossa»: fu Raboni a presentare la poetessa con riferimento alla continiana «funzione Gadda»), insieme a sezioni (si veda per esempio La centralina saltata) in cui ripullula la «s prefissale intensiva e sottrattiva (Bello Minciacchi). Insomma, il «disagio al cospetto di una voce assolutamente non conciliante» che ha confessato Roberto Galaverni a proposito del lavoro di Jolanda Insana e in particolare di questo libro si spiega innanzitutto con la sua autonomia rispetto alla ‘tradizione del Novecento’, che viene accolta e stravolta al pari di ogni altro materiale linguistico e ritmico. Come in tutti gli autori maggiori, anche qui il fatto di forma è tutt’uno con la disposizione ideologica, con il posizionamento a partire dal quale si elabora la forma. In questo libro, in particolare, colpisce la scelta di annettere, all’interno dello scontro teatralizzato di cui s’è detto, anche materiali, scene, episodi della realtà storica. Non che negli altri libri fosse assente l’attenzione nei confronti della contemporaneità, ma veniva di solito canalizzata in sezioni distinte rispetto al dialogo/sciarra tra i due io ed era risolta per lo più in epigrammi (se ne leggono per esempio in Satura di cartuscelle, Perrone, 2009). Qui invece il riferimento allo strazio delle popolazioni divise che dialogano a distanza sulle alture del Golan o l’orrore di Baghdad o dell’Afghanistan (ne parla Maria Antonietta Grignani nel bel risvolto di copertina) sono direttamente assunti nello scambio dialogico, non più materiali separati ma fatto bruciante che irrompe nel vociare conflittuale e paraonoico che attraversa i componimenti della raccolta (si veda per es. la sequenza alle pp. 76-77). Dentro/fuori: non parrà strano che uno dei temi portanti di questa raccolta poetica sia la casa. Una casa «vuota»; oppure una casa contigua con un’altra casa, da cui proviene la voce avversa (un «condominio», che però è «interiore»); o anche l’eliminazione, che torna all’etimologia di ‘allontanare dalla soglia’; fino all’uscita di scena della voce monologante, che confessa che «non c’era nessuno dietro la porta / l’alloggio era disabitato e l’ho abitato», per cui, finito il teatrino, «ora lo so e sloggio». Anche il fatto antropologico della dimora (e quanta filosofia, e discorso filosofico sulla poesia, è partito da qui!) è così immesso nella dialettica principale del libro. Questa spinta a non distinguere tra interno ed esterno, tra dialogicità e monologo, diventa interrogazione sul senso del fare poetico. Se infatti la poesia è da sempre lavoro sulla memoria e per la memoria, se cioè la poesia è la risorsa con cui gli uomini combattono il trascorrere del tempo affidando alla icasticità e alla ripetibilità l’istante dell’effato, del dire che si muore in fiato emesso una volta per tutte, ebbene colpisce che Turbativa d’incanto si muova tra memorabilità e flusso, tra incisività della formula («Se sono fiori marciranno»; «riconosco i tagli / perché conosco i coltelli», etc.) e dispersione delle voci che si contrappongono e sovrappongono. Anche per questo il lavoro di Insana sembra essere arrivato a una delle sue configurazioni più risolte: inscenando lo scontro delle due vocine – soprano e contralto, entrambe sbagliate, sgraziate –, è il lavoro stesso della poesia che avanza sul proscenio. E c’interroga, lasciandoci sospesi tra l’assunzione del fatto increscioso e lo scivolamento costante che è la vita. Qui, tra Storia e Biologia, scriveva Roland Barthes più di cinquant’anni fa, si colloca la Scrittura. Qui il suo insegnamento.

                                                    Giancarlo Alfano (in Semicerchio 46/1, 2012)


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