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FEDERICO SANGUINETI, 1-23, postfazione di Tommaso Ottonieri, Napoli, d’if, 2011, pp. 45, € 10,00.

 

Argomento scabroso ha la prima parte del canzoniere nuovo, nuovissimo, che Federico Sanguineti sta componendo: il buio fitto di un’età che avrebbe potuto (dovuto) essere d’oro, edenica – l’infanzia –, e che appare invece nel ricordo come «una vita da lager». Scabroso e durissimo è l’argomento, in senso etimologico osceno, da non poter essere proposto sulla scena, e invece qui esposto, con tutto il suo bravo e letteratissimo giuoco di vergogna della vergogna. «canzone canta tu l’età dell’oro / quando a manna cade come pioggia / che mamma ogni mia gioia mi spense / e la rabbia da allora in me si accense / se perdo fin il filo dove poggia / perché tenuto sono a fare onore / con ossequio di incenso e con alloro / a genitori che mi voller ombra / il cui peso per sempre a me mi ingombra»: così suona il congedo dell’ultima canzone, il testo 23, di una silloge che ha titolo numerico, all’apparenza semplicemente denotativo, 1-23. Non c’è bisogno di chiamarlo “Canzoniere”, infatti, anche se lo è; per garantirci un atteggiamento di debita, originaria distanza, e insieme per slittare in fraudolenza, ottimamente potremmo ricorrere a Rerum vulgarium fragmenta. Le parole in rima sono le stesse: esattamente le stesse e nell’ordine in cui si presentano nei R.V.F. di Petrarca, con soluzioni spesso virtuosistiche e assai inventive (si pensi ai tanti «rai» di sole dell’archetipo petrarchesco e alla soluzione sanguinetiana della «rai» emittente, oppure all’«aitarme» risolto in un «ahi tarme», o ancora al «fore» che diventa «... uff… ore»). Qui il rapporto con l’io è lirico e insieme ironicamente mediato, ma la cifra analogamente, artificiosamente narrativa e il disegno unitario è stabilito a priori, in prospettiva, non in retrospettiva come nel modello. Il tono è quello della confessione, però non solo effusiva (se non in sguincio ironico), piuttosto teatralizzata in terapia psicoanalitica; e psicoanalista è senz’altro una donna, a ricreare una tensione di ruoli (innamoramento del soggetto che scrive) onestamente prevedibile – come si potrebbe attendere, prevedibile con onestà, appunto, l’elaborazione di una delle opere esemplari e fondative della nostra tradizione. Ciò che qui prevedibile non è, invece, è il suo incunearsi spietato, il suo scendere a testaprima nel rapporto dell’io poetico con un io bambino, nella rievocazione degli eventi traumatici che l’hanno segnato e nella problematica ed esibita relazione tra «es io super-io incerto e vago» e «sotto-io». Per il lettore c’è un turbamento diverso e nuovo, qui, rispetto al turbamento di Petrarca: lì il desiderio fisico nutrito da Francesco «quand’era in parte altr’uom» da quel che poi è diventato; qui il dolore dell’infanzia, il racconto delle punizioni che «spezza[vano] dentro l’io ogni desire», la «carne» di bambino che se ne andava «malmenata e sbattuta lacrimando / piena di botte», e infine la «libertade / di criticare chi non ha e non ebbe / per me nessun amore anzi a me increbbe» (23). A questo punto bisogna dir meglio, con maggiore chiarezza: il lettore, ai cui occhi è evocato non solo un simile interno familiare, ma questo interno familiare, finisce per dover fronteggiare intellettualmente, e propriamente, un “perturbante” (l’Unheimlich incarnato da una «famiglia piazza d’arme»). Poi tuttavia soccorre il dominio letterario, la consapevolezza del quantum d’artificio, la curvatura, le pliche che assumono le scritture (auto)biografiche, in specie – come in questo caso – se si calano nel lirismo ma sanno fargli abilmente il verso, se mettono in scena procedimenti (e baratri) narcissici in vertiginoso equilibrio su un filo teso tra il serio e il faceto. Se praticano il tragico e riescono addirittura a enuclearlo, a farlo brillare di smalto denso e lucente: «dentro la testa tengo congelati / i miei pensieri duri come smalto / e verso me non sento alcun affetto» (23). Splendido, delicato e in sé più pudico di altri, il sonetto dell’amore fraterno: «tua camicia di forza a me si appoggia» (10). O ancora, nel segno del tragico: «e sono trasformato in chi non spera / di sciogliere sua prognosi ma splende / di fuoco incontenibile che incende / la febbre che mi unisce a questa schiera» (19). Tommaso Ottonieri ha parlato, nella postfazione, di una «scena scivolosa, sempre spalancantesi, d’un romanzo familiare sinceramente fantasmato» e poi di una «ilarizzata scena d’ossessioni» riconoscendo al testo «un carattere dissimulatorio all’infinito». Soccorre, dunque, rispetto al perturbante familiare (di una famiglia nota), tutta la gran macchina della retorica: funzionale qui come non mai. (O forse soccorre e insieme incrudelisce). Allitterazioni virtuose: «per perso penso perduto il perdono» (18); figure etimologiche estroverse, paronomasie, poliptoti e bisticci: «fra morti smorto muoio la mia morte / desiderando non desio desio / e solo fra i miei soli non ho sole» (18, che peraltro si cola nell’orma strutturale di un sonetto petrarchesco con inuauale tessuto ossessivo di parole-rima in abbinamento equivoco). L’elaborazione testuale è complessa e letterariamente multivaria, attraversata da echi con un’incidenza di sorriso, come l’attacco del Furioso dimidiato a fare singolarissima capfinidas letteraria tra due stanze di sestina: «le donne e i cavalier sotto le stelle // l’arme e gli amori sono le mie stelle» (22). Lo scenario dell’(auto)analisi, dell’autoterapia e della ricerca di identità scarta, nel lessico, dall’eleganza costante e priva di impennate del modello: conosce una deriva linguistica impura e niente affatto media in cui possono convivere la scrittura raccorciata di messaggi sintetici, «cmq l’sms te lo invio» (6), il tecnicismo inglese, di uso comune, «di borderline era il mio umore» (9), e «non so chi fui» (23), rivisitazione in tono abbassato e dubitoso di uno sfogo foscoliano (pure di matrice petrarchesca) in irresoluta tentazione di suicidio: «Non son chi fui, perì di noi gran parte», il sonetto amaro che diceva ormai «cieca la mente e guasto il cuore». Poi, che attraverso la rievocazione dell’infanzia e degli «amorosi affanni» (12) quello dell’identità – e della vera vita dell’io – sia tema centrale di 1-23 è ulteriormente confermato dal lavoro psicoanalitico, «ritrovarmi me in me» (8), e da una terzina conclusiva ed esemplare, quella di 16, che nell’originale da tenere in filigrana, si badi, è il notissimo Movesi il vecchierel canuto et biancho: «e spero che fra io e sotto-io / in sogno dove l’io non è più altrui / chissà si possa viver vita vera».

Le parole in rima dell’originale sono puntelli inaggirabili: un’eletta “prigione” che però fa scattare la liberazione del dettato poetico e insieme del nodo di dolore. L’invenzione letteraria è, con ogni evidenza, nello scarto tra una contrainte severa, rigorosa, e la molteplicità di soluzioni adottate. Entro un’ossatura ferma – medesime strutture metriche (sonetti ma anche, dove ricorrono, ballata grande monostrofica, sestina e canzone) e parole in rima dei R.V.F. – si collocano singolari versi con ritmo percussivo, «e dàlle dàlle dàlle dàlle dàlle», che dicono l’ossessione dei colpi o dei «martiri» patiti, ossessione spesso reiterata e di-vertita da monosillabi a distanza, in eco ritmica e in poliptoto – «a tu per tu con te per me» (23), oppure rimandano – «chi va chi sa chi qui chi stato»; «e qui né giù né su né so mio nome» (23) – a soluzioni dantesche per bufere infernali che mai non restano. La dichiarazione d’apertura, d’altro canto, aveva subito preteso ed esibito la distanza dall’ipotesto: «il mio è rumore non è mica suono», non cerca armonia. È per lo più l’inversione al basso o al buio, qui, a dominare; talvolta il rovesciamento esatto del lirismo offerto dall’archetipo, talvolta una riscrittura al negativo, come quella che chiude la canzone 23 – quella in cui, secondo Bernardino Daniello l’intendimento di Petrarca era «narrare la propria vita» ma «sotto il velame di favole» dalle Metamorfosi ovidiane. Nell’originale la «dolce ombra» ogni «bel piacer del cor mi sgombra», nel testo di Sanguineti i genitori che lo vollero «ombra» hanno un peso che «per sempre a me mi ingombra». Altra interessante spia è nella sostituzione (forse l’unica di 1-23) di una parola in rima: «valore», in Petrarca, diventa qui «dolore» in un sintomatico dialogo con la dottoressa: «le botte prese da bambino e poi... / e poi? e poi! lei spiega che il dolore / io me lo invento?» (5).

Al di là dell’evidenza biografica messa in aperta, in bella (e manieristica) mostra nei versi, il dato biografico più complesso e meno teatralizzato si può scorgere meglio in alcuni frammenti di citazioni: una tramatura fitta qui disseminata, puntualissima e meticolosa, di parole o sintagmi-emblema tratti dalle notissime poesie che Edoardo Sanguineti ha dedicato al figlio, ai bambini («dormendo io fibroma», poi la «magra tenia», e poi il deglutire e l’urinare, e il nichel, il filo spinato, lo spillo di sicurezza, le medaglie, lo Spirito Santo e il lecco lecco, il fango alle spalle – ma si veda la bella recensione di Marco Berisso in puntocritico.eu). A queste vanno aggiunte altre citazioni da un testo forse insospettabile, sintomatico di un’intera stagione: Aprire di Antonio Porta, tra i Novissimi quello che ha avuto, in brevi anni, il percorso più mosso e vario. Sono frantumi da leggersi insieme a tutto l’ipotesto preso nella sua interezza, pur essendo citazioni puntillistiche sparse: «dietro la porta dorma / nulla dietro la tenda il giorno / e calze infila e sfila il raggio / il corpo sullo scoglio e l’occhio e il freno / la finestra e gli uccelli e il sole parve / sotto l’impronta alla fine disparve» (corsivi miei per le coincidenze perfette, e si noti che in Aprire, in luoghi diversi, compare anche «giorno» e «il figlio, sotto la scrivania, [che] dorme nella stanza», unico personaggio nominato di quella poesia). C’è forse la scena di un crimine dietro Aprire, un oscuro e ossessionante fatto di sangue, ha ipotizzato Stefano Colangelo. E c’è una narrazione spezzata, bloccata, ha detto più volte Niva Lorenzini. Una poesia, quella che per antifrasi chiudeva I novissimi, franta per sua propria e violenta necessità, e tutta in re, cadenzata in focalizzazioni minute e pausate; i dettagli spaziali, i ricorrenti segni di esclusione (la «tenda», il «muro») o di orrore (la «punta della lama», il «taglio nel ventre») sono tutti gesti in assenza, ma compiuti e sinistri, e còlti solo dopo, a posteriori, quando sono tutti già avvenuti, e tutti tremendamente carichi di senso.

                                              Cecilia Bello Minciacchi (in Semicerchio 47/2 2012)


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