« indietro Leonard Cohen di Paolo Divizia
Vent’anni di Fascismo avevano impedito che in Italia la canzone, genere destinato anche a un largo pubblico, potesse occuparsi di argomenti seri e scomodi, e trasmettere dubbi e pessimismo (‘disfattismo’ secondo l’ideologia e il linguaggio di regime). L’Italia del dopoguerra, stretta fra il sogno/ ossessione di un boom che è solo economico e un moralismo di matrice cattolico-fascista, è fortemente arretrata anche in questo campo: se negli Stati Uniti c’era già stata l’esperienza del blues e dagli anni Trenta era attivo Woody Guthrie, che può considerarsi il precursore dei cantautori; e se in Francia si era sviluppata la scuola degli chansonnier, e già nella prima metà degli anni Cinquanta era emerso un grande cantautore quale George Brassens; in Italia, escludendo il pionieristico episodio dei Cantacronache (notevole per l’impegno sociale e politico, nonché per la collaborazioni di Italo Calvino e di Franco Fortini, che scrissero appositamente alcuni testi per il gruppo, ma artisticamente meno interessante), il fenomeno della canzone d’autore resterà sconosciuto fino agli anni Sessanta1. È dunque naturale che i primi cantautori italiani, per colmare questo gap, guardino ai loro corrispettivi d’oltralpe come modelli, imitandone i temi e lo stile, e talvolta traducendone i brani come fa ad esempio Fabrizio De André con George Brassens, contribuendo così a farlo conoscere in Italia tramite le sue versioni, fedeli sia nel testo sia nella musica. Ma gli anni Sessanta vedono il sorgere di nuovi fenomeni musicali provenienti dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra che mettono in ombra la produzione musicale francese. E i progressi tecnici (la possibilità di registrare il suono, pienamente sfruttata solo a partire da quest’epoca, e poi la comparsa dei primi nastri multitraccia) danno l’avvio a una rivoluzione paragonabile a quella che dal teatro ha portato alla nascita del cinema. Così come il cinema non è la registrazione di un’opera teatrale, ma qualcosa di diverso che ha la possibilità di superare i limiti imposti dal palcoscenico, allo stesso modo la musica incisa – in assenza di una terminologia consolidata mi servo di questa espressione, «musica incisa», per far riferimento alla musica la cui pubblicazione consiste ab origine in una registrazione e non in una partitura scritta – non è, con le debite eccezioni (di solito segnalate dalla dicitura «live» o «dal vivo» e simili), la semplice registrazione di una performance dal vivo, ma il risultato di un montaggio di registrazioni effettuate in tempi diversi (overdubbing), e che talvolta risulta impossibile da eseguire dal vivo2. Ciò non toglie che di fianco alla registrazione il compositore possa scegliere di pubblicare anche la partitura e/o di presentare la propria composizione attraverso esecuzioni dal vivo sia prima sia dopo l’incisione sonora, talvolta con differenze marcate che possono mostrare un’evoluzione dell’opera. E qui non è fuori luogo accennare alla «coscienza mallaermiana» di cui parla Contini, coscienza dinamica che considera «la poesia nel suo fare, l’interpreta come un lavoro perennemente mobile e non finibile, di cui il poema storico [o il disco inciso, nel nostro caso] rappresenta una sezione possibile, a rigore gratuita, non necessariamente l’ultima». Tale concezione, sottolinea Contini, è però il punto di vista dell’artista, non del fruitore comune, che spesso percepisce l’opera d’arte come un oggetto fissato una volta per tutte3. Sta di fatto comunque che, con la possibilità di registrare i suoni, anche la musica può ora essere fissata in una sua sezione, come mai era accaduto in precedenza. Questo cambiamento sostanziale – che mi pare non sia ancora stato apprezzato in tutta la sua portata se, mentre consideriamo il teatro e il cinema come due arti diverse, continuiamo a chiamare musica, ad esempio, sia quella composta da Bach sia quella composta e interpretata dai Beatles – ha trasformato la musica da «performing art» a ciò che si potrebbe definire «performed art», non più arte da mettere in scena come il teatro, ma arte già messa in scena e di cui si fruisce il prodotto fissato una volta per tutte come la letteratura scritta, la scultura, la pittura e il cinema4. Con una conse- guenza importante: se per un lavoro di Bach qualsiasi esecuzione (pur tenendo conto delle differenze qualitative, e della maggiore o minore fedeltà rispetto a quella che pensiamo essere stata la volontà del compositore) si pone virtualmente a livello di parità con le altre, per una composizione dei Beatles ci sarà al contrario una performance originale registrata dal gruppo, mentre le eventuali interpretazioni di altri musicisti, al di là del loro valore artistico, saranno da considerare dei rifacimenti (cover). È solo in questo nuovo clima, nel quale la figura dell’interprete si fonde con quella del compositore, che può nascere il concetto, e il termine, di «cantautore», anche se poi verrà di fatto limitato a un certo gruppo di autori-cantanti impegnati, la cui produzione risulta coerente sia per i temi trattati sia per lo stile (musicale e dei testi). Ho citato i Beatles non a caso, perché è con loro che – proseguendo su una linea iniziata pochi anni prima dalla Motown Records – il genere canzone raggiunge la perfezione formale: diventa importante la cura di ogni dettaglio e l’impianto armonico si fa assai più complesso. Anche se l’influsso dei Beatles sui cantautori italiani riguarda più l’aspetto musicale che non quello dei testi (ed è probabilmente almeno in parte filtrato in qualche modo da cantautori quali Bob Dylan e Leonard Cohen), va però ricordato che senza Sgt. Pepper forse non avremmo mai avuto i concept album di Fabrizio De André, e la canzone d’autore sarebbe rimasta legata a forme musicali più semplici e del tutto subordinate al testo (sullo stile di Georges Brassens o della prima Scuola Genovese). Con Bob Dylan – che è il primo cantautore a raggiungere un ampio successo internazionale – le canzoni diventano strumento e simbolo mondiale di protesta in una società ormai globalizzata, e trattano spesso anche argomenti di attualità quali la guerra, con riferimenti più o meno espliciti alla guerra del Vietnam. Alcune sue canzoni vengono proposte in lingua italiana, mantenendo la musica originale, da Fabrizio De André: Desolation Row (Via della povertà), libera traduzione a quattro mani con Francesco De Gregori, il quale contribuisce alla cripticità del testo e introduce riferimenti a Hitler e ai campi di sterminio, incubi ricorrenti anche in altre sue canzoni (1940, Cercando un altro Egitto, Rumore di niente)5; Romance in Durango (Avventura a Durango), con la collaborazione di Massimo Bubola, in cui il codeswitching del ritornello (nell’originale un misto di inglese e spagnolo) viene reso in modo assai felice con un italiano vagamente napoletaneggiante. Un caso particolarissimo di influsso sui cantautori italiani, e che mostra un diverso atteggiamento rispetto alla fonte in Fabrizio De André e in Francesco De Gregori, si verifica con Leonard Cohen, autore canadese nato a Montreal nel 1934 (e dunque più anziano dei cantautori italiani), che dopo aver pubblicato quattro raccolte di poesia e due romanzi, decide di affiancare la sua attività di scrittore (mai abbandonata per quanto riguarda la produzione in poesia) con quella di cantautore. Verso la fine del 1967 esce il suo primo album, intitolato semplicemente Songs of Leonard Cohen, destinato a diventare un classico del genere per la densità poetica dei testi, così come i due album che seguiranno a breve: Songs from a room (1969) e Songs of love and hate (1970). Fabrizio De André ne traduce alcune canzoni, conservando sempre la musica originale: dapprima, nel 1972, Suzanne (di cui viene mantenuto il titolo) e Joan of Arc (Giovanna d’Arco); più avanti, nel 1975, Seems so long ago, Nancy (soltanto Nancy nella versione italiana), forse la più deandreiana delle canzoni di Leonard Cohen, ove si tratta di una giovane donna dalla vita sessuale aperta («she slept with everyone») che in un momento di solitudine e depressione si suicida sparandosi («a forty five beside her head / an open telephone»). Una quarta e ultima traduzione di Fabrizio De André da Leonard Cohen sarà quella, in collaborazione con Sergio Bardotti, di Famous blue raincoat (Famosa volpe azzurra), affidata alla voce di Ornella Vanoni nel 1979. Bisogna però dire che le versioni italiane delle canzoni di Leonard Cohen proposte da Fabrizio De André (che confessava di tradurre quando era privo di ispirazione e di dover ricorrere spesso al vocabolario per tradurre dall’inglese) risultano di norma piuttosto rigide e artisticamente meno riuscite rispetto alle traduzioni da Georges Brassens o Bob Dylan e al rifacimento, non vincolato da una melodia preesistente, di alcune poesie della Spoon river Anthology di Edgar Lee Masters6: nel tentativo di riprodurre fedelmente l’originale di Leonard Cohen anche per quanto riguarda la parte musicale, si perde in poeticità, e il confronto con la versione inglese non regge al paragone. Interessanti, per quanto piuttosto discutibili nell’ultima parte, alcune dichiarazioni fatte da Fabrizio De André durante un concerto della tournée Uomini e donne (1992-1993) dopo aver interpretato Nancy e Giovanna d’Arco: Io ho sempre pensato che quando un autore non è abbastanza in vena per assumersi l’onere e la responsabilità di un’opera in proprio, sia bene che traduca altri colleghi che si esprimono in lingue diverse dalla nostra: si raggiungono nell’immediato due scopi sicuri: quello di esercitarsi e quello di dimostrarsi anche soggettivamente umili. [...] E poi si raggiunge anche un altro scopo credo oggettivamente utile a tutti: è quello di divulgare quel poco o quel molto di poesia che può esserci nelle canzoni appunto di autori che si esprimano in lingue straniere. [...] In pratica io me ne fotto abbastanza della traduzione letterale, anzi non me ne importa proprio niente: cerco di entrare il più possibile nello spirito della canzone e attraverso la canzone stessa addirittura cercare di raggiungere lo spirito di chi l’ha composta. Sono confortato in questo mio non correttissimo modo di agire da quello che diceva il nostro maggiore critico letterario del nostro secolo, Benedetto Croce, il quale distingueva le traduzioni in «brutte e fedeli» e «belle e infedeli». E io di fronte a quello che io reputo essere il bello sono disposto a qualsiasi perfida infedeltà7. Delle quattro traduzioni da Leonard Cohen, Nancy è quella che risulta più convincente, forse perché il tema è assai congeniale al cantautore genovese e la versione italiana riesce in qualche punto a distaccarsi dal testo originale senza sembrare infedele. In questo caso alcune innovazioni o aggiunte di Fabrizio De André sono degne di nota: «dormiva con tutti, / ma “cosa fai domani?” / non lo chiese mai a nessuno: / si innamorò di tutti noi / non proprio di qualcuno / non solo di qualcuno» è una libera traduzione di «she slept with everyone. / She never said she’d wait for us / although she was alone, / I think she fell in love for us / in nineteen sixty one, / in nineteen sixty one», ma con aumento di pathos grazie all’eliminazione dei verba dicendi et cogitandi originali, all’eliminazione dei riferimenti temporali precisi a una vicenda di cronaca realmente accaduta nel 1961, e all’aggiunta della domanda mai pronunciata da Nancy sul domani dei propri compagni. Efficace anche l’opposizione tra «di tutti noi» e «non proprio di qualcuno», con la variatio al verso successivo «non solo di qualcuno». L’ineluttabilità della morte «by fire» a cui è destinata Joan of Arc, rappresentata nel testo di Leonard Cohen con l’immagine delle fiamme che inseguono la pulzella mentre cavalca, è annullata nella versione italiana da un distico puramente descrittivo in cui la tensione dell’inseguimento viene meno: «Now the flames they followed Joan of Arc / as she came riding through the dark» diventa «Attraverso il buio Giovanna d’Arco / precedeva le fiamme cavalcando». La metafora nuziale dell’unione della protagonista con il fuoco, metafora che pervade interamente il testo di Joan of Arc, viene in parte eliminata e il testo italiano non è sempre del tutto comprensibile se non si guarda al testo inglese. La fisicità dei due sposi scompare: il corpo della pulzella che sta per concedersi al fuoco («Then fire, make your body cold, / I’m going to give you mine to hold») diventa un oggetto qualsiasi («E se tu sei il fuoco raffreddati un poco, / le tue mani ora avranno da tenere qualcosa»); e i «wedding guests» che assistono al rogo/matrimonio si riducono a «gente». Nonostante Fabrizio De André si prenda la libertà di trasformare lo schema originario di rime baciate (con due sole eccezioni costituite dalle assonanze baciate heart : Arc, presente due volte, e guests : dress) in una struttura più libera che comprende invece rime, o assai più frequentemente assonanze, baciate o incrociate (con l’eccezione di una quartina che presenta due versi sciolti: poco : qualcosa : dentro : sposa), la lingua risulta a tratti pesante, e ancor di più se la si confronta con la scorrevolezza cristallina dei testi originali: «Well, I’m glad to hear you talk this way, / you know I’ve watched you riding every day» è reso con un innaturale «Son parole le tue che volevo ascoltare / ti ho spiata ogni giorno cavalcare». In qualche caso il testo è addirittura rovesciato: Giovanna d’Arco, rivolgendosi al fuoco, in Leonard Cohen «“And who are you?” she sternly spoke [‘disse duramente’]» al punto da mettere quasi in imbarazzo l’interlocutore («“Why, I’m fire” he replied»), mentre in Fabrizio De André «“E chi sei tu?” lei disse divertendosi al gioco». In Suzanne la traduzione è eccessivamente rigida (quasi una traduzione scolastica parola per parola) e allo stesso tempo infedele: «Suzanne takes you down / to her place [‘a casa sua’] near the river» è reso con «Nel suo posto in riva al fiume / Suzanne ti ha voluto accanto»; i versi «And you want to travel with her / and you want to travel blind [‘ad occhi chiusi’]» diventano un pesantissimo e sgrammaticato «E tu vuoi viaggiarle insieme / vuoi viaggiarle insieme ciecamente»; e il riferimento alla Nostra Signora del Porto – la statua della Madonna rivolta verso il fiume San Lorenzo che si trova sulla cupola della chiesa di Notre-Dame-de-Bonsecours a Montreal – è totalmente incompreso dal traduttore: i versi «And the sun pours down like honey / on Our Lady of the harbour» nella versione di Fabrizio De André fanno di Suzanne una prostituta che esercita al porto («Il sole scende come miele / su di lei donna del porto»). L’atteggiamento di Francesco De Gregori è radicalmente diverso. Gli omaggi a Leonard Cohen nell’opera di De Gregori – che già nomina in modo esplicito il cantautore canadese nel brano In mezzo alla città, scritto in collaborazione con Antonello Venditti e contenuto nel loro album d’esordio Theorius Campus del 1972 (tra i vari oggetti citati, correlativi oggettivi di un amore finito, ci sono i «dischi di Leonard Cohen») – sono tanti e sono disseminati lungo tutto l’arco della sua produzione, ma nei dischi pubblicati ufficialmente non troviamo mai traduzioni integrali. È pur vero che nei primi anni di attività, quando si esibiva al Folkstudio in compagnia di Giorgio Lo Cascio, Francesco De Gregori era solito eseguire dal vivo alcune traduzioni di brani di Leonard Cohen8. E qualcosa è rimasto nei bootleg. Una registrazione (casalinga?) di Giovanna d’Arco in versione italiana eseguita (voce e chitarra) da un giovane De Gregori circola su internet, e non va confusa con la canzone omonima che Francesco De Gregori scriverà per Fiorella Mannoia nei primi anni Novanta e in cui l’autore sembra voler scrivere alla maniera di Ivano Fossati, che già aveva scritto alcune canzoni per la stessa cantante. Nel live registrato al Folkstudio il 24 gennaio 1970, oltre alle più celebri Suzanne (cantata da Giorgio Lo Cascio) e So long, Marianne (A presto Marianne) compare anche una bella traduzione di Tonight will be fine (Un letto come un altro). Sul finire degli anni Novanta Francesco De Gregori tradurrà poi con il titolo Il futuro la canzone The future, pubblicata da Leonard Cohen nel 1992, ma verrà incisa dall’amico e collaboratore Mimmo Locasciulli. Pure il fratello di De Gregori, Luigi (in arte ‘Luigi Grechi’ con il cognome della madre), alla fine degli anni Settanta ha tradotto e inciso una canzone di Leonard Cohen: One of us cannot be wrong (La regola d’oro). Ma nella discografia ufficiale Francesco De Gregori propone soltanto allusioni a Leonard Cohen: citando un nome, o traducendo un verso, o inserendo un concetto o un oggetto attraverso un procedimento di mellificatio che smembra la fonte e poi la esibisce incastonata come gemma preziosa a chi sappia riconoscerla. Il fenomeno è di particolare evidenza nell’album Alice non lo sa (1973), disco ricco anche di riferimenti letterari ad autori del Novecento, quali Sbarbaro, Saba, Pavese, Calvino. Per fare qualche esempio di tessere coheniane, nel brano Marianna al bivio compare anche una Suzanne («ma Suzanne mi dà la mano come prima»; «ma Suzanne io non l’ho dimenticata»): i nomi Marianna e Suzanne non sono casuali, bensì alludono alle protagoniste di So long, Marianne e Suzanne (in cui tra l’altro un verso recita «Now Suzanne takes your hand»). Altri elementi in comune con So long, Marianne sono la presenza di una finestra e la lettura del futuro, anche se con modalità differenti («I’d like to try to read your palm. / I used to think I was some kind of Gypsy boy / before I let you take me home» in Cohen; «chi ha guardato le mie carte / sa che forse la mia vita è già decisa» in De Gregori)9. Una Marianna «cresciuta in fretta / in un’estate di malumore» compare anche nell’inedito De Gregori era morto. Il «telefono staccato» di Irene che sta per gettarsi dal quarto piano è l’«open telephone» di Nancy, che nella versione originale sta per spararsi (mentre nella versione italiana di Fabrizio De André – che compare in Volume 8, album a cui collabora parzialmente anche Francesco De Gregori – Nancy, il cui telefono è inspiegabilmente «rotto», «cercò dal terzo piano la sua serenità»). Il personaggio di Lili Marlene accomuna le canzoni Famous blue raincoat e Alice. E altre espressioni o figure singolari stabiliscono una fitta serie di allusioni ai testi di Leonard Cohen: i versi «e mi dicevo “adesso sì che sto crescendo”, / invece era soltanto una stazione» di Buonanotte fratello trovano corrispondenza in «I’m just a station on your way» di Lady Winter; nell’album successivo la figura di san Giuseppe, ebreo in fuga, a cui si paragona l’onirico protagonista di Cercando un altro Egitto perseguitato dai nazisti («Insomma prendo tutto, / e come san Giuseppe / mi trovo a rotolare per le scale, / cercando un altro Egitto») ha un antecedente in «He was just some Joseph looking for a manger» di The stranger song10; nella recente Per brevità chiamato artista un verso dice «Come un uccello sul filo o un ubriaco per le scale» con evidente riferimento a «Like a bird on the wire, / like a drunk in a midnight choir». Il caso forse più interessante è costituito dalla coppia di canzoni Story of Isaac e La casa di Hilde11. I temi trattati sono completamente diversi, ma i punti di contatto sono tanti. La canzone di Leonard Cohen parte dall’episodio biblico di Abramo che si dispone a sacrificare suo figlio Isacco (Gen 22, 1-12), per poi passare a un’attualizzazione del tema, con riferimento alla guerra in Vietnam, in cui i figli sacrificati dai padri sono i soldati mandati a morire. Presentando il brano, all’epoca ancora non inciso, alla BBC (BBC2 TV, Leonard Cohen sings Leonard Cohen, trasmissione dell’8 settembre 1968), l’autore dice che quando Abramo stava per sacrificare Isacco un angelo fermò il suo braccio, mentre «today the children are being sacrificed and no-one raises a hand to end the sacrifice»12. Nell’album ufficiale Live Songs (1973) il pezzo (proveniente da un concerto berlinese del 1972) è introdotto così: «it’s about those who would sacrifice one generation on behalf of another»13. La canzone di Francesco De Gregori parla invece di una più prosaica vicenda di contrabbando di diamanti. Ma entrambe le canzoni hanno per protagonisti un padre e un figlio, e il punto di vista è quello del bambino, che racconta la storia.
Isaac ha nove anni, mentre del protagonista di La casa di Hilde non si conosce con precisione l’età, ma che si tratti ancora di un bambino lo si capisce grazie ai primi due versi («L’ombra di mio padre due volte la mia, / lui camminava e io correvo»), il secondo dei quali corrisponde esattamente a un verso della Story of Isaac («I was running, he was walking») mentre il primo esprime in forma diversa un concetto già presente nella canzone di Leonard Cohen: «And he stood so tall above me». In entrambe le canzoni la scena si svolge in montagna, durante la salita, con il paesaggio sottostante che si rimpicciolisce in Leonard Cohen: So he started up the mountain mentre in De Gregori «la montagna era verde», e se manca un verbo a indicare la salita, si capisce tuttavia che i due personaggi stanno salendo, perché la loro destinazione, la casa di Hilde, è oltre il monte: Oltre quel monte il confine, Qui non si vede il paesaggio sottostante rimpicciolirsi ma, al contrario, avvicinarsi e ingrandirsi quello soprastante: ma io guardavo la luna, Per rinfrancarsi della salita, nella Story of Isaac i protagonisti si fermano per bere del vino: «we stopped to drink some wine». Il vino viene bevuto anche in La casa di Hilde, – «e insieme bevemmo del vino» –, con l’aggiunta di impronta realistica «ma io solo mezzo bicchiere» essendo il protagonista un bambino all’epoca dell’episodio. Un altro elemento che unisce le due canzoni, il tema del sacrificio, non è riconoscibile a prima vista. Nella canzone di Francesco De Gregori troviamo una capra la cui presenza parrebbe poco funzionale nel contesto: ma sulla strada incontrammo una capra che era curiosa di noi. Soltanto attraverso il confronto con la Story of Isaac si può capire che la capra è il capro espiatorio da sacrificare sull’altare costruito dal padre, e come Isacco non oppone alcuna resistenza. Nell’episodio biblico, dopo l’intervento dell’angelo, Abramo sacrifica appunto un ariete14. Un riferimento alla guerra e all’opposizione tra noi e loro, i ‘diversi’ della retorica ufficiale, a cui segue lo stupore/delusione del singolo nel non riscontrare nell’esperienza diretta la presunta diversità del nemico affermata dalla propaganda, compare subito prima dell’incontro con la vittima sacrificale: Oltre il confine, con molto dolore, non trovai fiori diversi concetto che sembra richiamare l’«uomo in fondo alla valle / che aveva il tuo stesso identico umore / ma la divisa di un altro colore» nella Guerra di Piero15, oppure le donne francesi corteggiate dai soldati (italiani? tedeschi?) di 1940 che «non è vero che siano diverse», o ancora «l’esercito degli uomini diversi» che si troverà nella posteriore Finestre del dolore dello stesso De Gregori.
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