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Meena e Basho:
poeti in viaggio


a cura e con traduzioni di Ilaria Zucchini e Carlo Floris

 

Nata nel 1951 ad Allahabad da una famiglia siriana di fede cristiana e cresciuta fra India e Sudan, Mary Elizabeth Alexander vive a New York, dove ricopre l’incarico di Distinguished Professor of English presso l’Hunter College (Central University of New York).

Giunge in Europa per la prima volta a diciotto anni e completa in Inghilterra il proprio curriculum studiorum; ad appena ventidue ottiene il PhD in letteratura inglese con una tesi sul Romanticismo.

Da quel momento tiene corsi ed è accolta, come poetessa, in alcune fra le più importanti università del mondo: Delhi, Hyderabad, Parigi, New York, Singapore. Alexander è infatti anche prolifica e apprezzata critica letteraria, autrice di saggi e romanzi. Le sue prime poesie, scritte in inglese, sono tradotte in arabo, su alcuni periodici. È in questa occasione che decide di cambiare il suo vero nome, percepito come fardello coloniale, in quello, più vero e sentito, con cui la chiamavano familiari e amici: Meena. La prima raccolta di poesie, pubblicata a Nuova Delhi nel 1980, si intitola Stone Roots. Fra i successivi lavori, i più apprezzati e conosciuti sono: Illiterate Heart (2002), Raw Silk (2004), Quickly Changing River (2008), che hanno come fil rouge la tematica più cara all’autrice, quella della migrazione, dello spaesamento, del distacco, anche forzato, dalla terra d’origine, del fondersi di memorie con le nuove consuetudini del paese in cui si arriva. E di shock of arrival parla anche l’omonimo saggio del 2006, riflessione sull’esperienza postcoloniale, poi approfondita in un altro saggio, Poetics of Dislocation (2009).

Qui il focus è spostato dal processo creativo personale di Alexander alla considerazione di come altri importanti autori, giunti negli Stati Uniti da adulti, abbiano influito, attraverso scrittura e poetica, al rimodellamento di un paese già tanto multiforme e variegato.

Nel 2005 Alexander cura un’antologia, Indian Love Poems, che abbraccia duemila anni di poesia indiana in varie lingue antiche e moderne, tra cui sanscrito, urdu e bengali.

L’interesse per la terra d’origine e la conoscenza profonda delle proprie radici culturali e letterarie, continuamente sovrapposti e intrecciati all’interesse per le culture e le lingue ‘altre’, oltre a essere tratti caratterizzanti essenziali della poetica di Meena Alexander, costituiscono il leitmotiv del lavoro qui presentato.

È in questa ottica che va declinato l’altro tema tanto caro all’autrice: quello del viaggio. Viaggiatore è suo padre che, come lei stessa dice, «aveva bisogno sempre di un nuovo orizzonte da guardare.» Viaggiatrice lei, che innesta la sua esperienza su quella di uno dei principali poeti giapponesi: Basho. Viaggiatore è Basho, che scrive mentre viaggia, viaggia mentre scrive e vive, nel viaggio-esperienza concreta, anche l’esperienza metaforica del trascorrere, del mutare, dell’attraversare non solo le barriere fisiche che circondano i nostri corpi, ma anche e ancor di più le barriere interiori. Il viaggio di Basho è un viaggio verso se stessi, dalla casa in cui si nasce verso il mondo e dal mondo verso la propria casa interiore. Così per Basho, come per l’autrice della presente silloge poetica, il viaggio e la scrittura si fondono e si compenetrano fino a divenire due aspetti della stessa esperienza.

Nato a Iga Ueno, Matsuo Kinsaku, poi Munefusa, in arte Basho (1644-1694) fondò la scuola di poesia che diede origine all’haiku nella forma in cui noi oggi lo conosciamo. Il 12 ottobre, anniversario della sua morte, in Giappone si festeggia ancora il festival dell’haikai1. Dolorosi i motivi alla base dei primi spostamenti di Basho. Dopo la morte del padre si mette al servizio di un signore e, quando anche quest’ultimo muore, si trasferisce a Edo (oggi Tokyo), in una casa con una grande pianta di musacea, in giap- ponese, appunto, basho. Ma la casa è distrutta in un incendio, e così il poeta intraprende forzatamente il suo primo vero viaggio per essere ospitato da un allievo della provincia di Kai (oggi Yamanashi). Proprio allora, nel 1685, inizia a scrivere il primo dei suoi quattro diari di viaggio, Nozarashi-kiko (I ricordi di uno scheletro scosso dalle intemperie; si veda il richiamo di Alexander nella poesia Litchi). Seguiranno Kashima-kiko (Visita al santuario di Kashima), del 1687, e ben due diari per descrivere il viaggio che lo porta fino alle alpi giapponesi, Oi-no-kobumi (Frammenti di un fagotto), del 1688, e Sarashina Kiko (Visita al Santuario di Sarashina), dello stesso anno. Sempre nel 1688, Basho parte per il più lungo e creativo dei suoi viaggi, 2500 chilometri in 156 giorni, durante il quale nasce il suo capolavoro Okuno-hosomishi (L’angusto sentiero del Nord), 1694.

L’haiku è la forma poetica che, per eccellenza, combina brevità e densità di significati. Alcuni di questi componimenti, infatti, sono semplici descrizioni di immagini, altri fanno invece riferimento a eventi storici, avvenimenti espressi in modo allegorico e metaforico. Anche da un punto di vista linguistico Alexander si muove nella stessa direzione di Basho: versi brevi, apparentemente semplici, ma di grande forza evocativa, con un tessuto fonico complesso e che, pur nell’apparente levità di tono, veicolano un grande carico sensoriale e ricchezza di riferimenti intertestuali.

Tutta la produzione di Meena Alexander è segnata dalla riflessione profonda sulle lingue, riflessione che si fa vita, perché la stessa autrice, oltre a conoscerne e parlarne fluentemente diverse, sia orientali che occidentali, fa di esse, di volta in volta, non solo il medium, ma la sostanza della propria scrittura. Ricchissime sono le immagini relative alla sfera tattile e olfattiva, ma soprattutto a quella visiva, con una con- tinua connotazione dei colori, spesso descritti concretamente e in relazione agli oggetti reali (gli uccelli de I giardini di Lodi sono «color pepe»; i peperoni de La terrazza di Lady Dufferin sono verdi «come le ali dei pappagalli»). Frequenti sono anche i contrasti fra buio e luce, sole e ombra, chiaro e scuro.

Il sacro percorre e pervade l’intera sequenza: il fuoco, il bruciare tornano insistentemente come rimando alla sfera del divino e della spiritualità, in contrapposizione a volte netta con quella umana, in tutte le sue manifestazioni concrete, corporee (le secrezioni, la morte, il ricordo che passa attraverso gli odori).

I momenti della vita quotidiana non ricorrono in descrizioni sporadiche, con intento puramente estetico, costituiscono bensì un tessuto che combina luoghi diversi, come Shimla e le località giapponesi visitate da Basho, la memoria culturale e religiosa, la spiritualità, il vissuto di Meena e l’esperienza che lei stessa fa della scrittura del poeta. Su questi motivi, che costantemente si incrociano, si sovrappongono, si sollecitano a vicenda, è costruito l’impianto della silloge.

Come fotogrammi di una pellicola, le immagini si susseguono in un’alternanza di luoghi lontani e diversi fra loro, persone di varie estrazioni sociali, paesi, epoche con tutte le loro implicazioni emotive e culturali: le attività di ogni giorno, il vestiario, l’abbigliamento. Il risultato è una poesia popolatissima di esseri umani quanto ricca di significati, che proprio la forza della varietà rende, a un tempo, naturalmente viva e estremamente complessa.

I luoghi sono fortemente caratterizzati: la silloge porta il nome di Shimla, la località di villeggiatura dell’India settentrionale dove l’autrice si trova; la prima poesia si apre sui Giardini di Lodi, presso la tomba del sultano Sikander Lodi, a Delhi; la seconda, intitolata Suite 19, Viceregal Lodge ci riporta a Shimla, Observatory Hill, e dipinge davanti ai nostri occhi una scena nitida e movimentata, che ci lascia distinguere chiaramente i bagliori della seta (seppure in tatters), la frenesia inconsapevole di scimmie molto antropomorfe che si muovono da un lato all’altro della grande terrazza pervasa dall’odore del gelsomino, nel consueto processo che conduce la poetessa dalla percezione del momento contingente a quella intima del ricordo. Segue una serie di immagini in sequenza, l’ombra di un fico sacro, una panca di pietra, bancarelle di un mercato, in una sorta di peregrinazione fino alla vista delle cime del Dhauladhar coperte di neve, rimando alle montagne di Yoshino di Basho, apertamente rievocate in seguito. Poi di nuovo attraverso la Loggia del Viceré, e Scandal Point, fino alla poesia più intrisa di elementi coloniali: gli eserciti britannici, merenda pomeridiana con biscotti Britannia e acqua in bottiglia, cercando la quale Alexander si ritrova «in una buca piena d’acqua scintillante» in mezzo al mercato di Boileauganij. È quindi il ventaglio di una ragazza a Bryant Park a portare ancora l’autrice ad echi di Basho: qui si rivolge a un amore ormai «lontano come le montagne di Yoshino». Infine la conclusione del percorso poetico nei pressi di Sendai2. E come i luoghi, anche i tempi si intrecciano: il tempo storico, quello di fine Ottocento, della dominazione inglese, dei raja, della Loggia dei Viceré, della terrazza di Lady Dufferin, dei Curzon; il tempo presente, che vede Meena, seduta o a passeggio, tra Shimla, Delhi e New York, mentre legge un libro del poeta giapponese, e infine il tempo della memoria personale, continuamente rievocato nel proprio vissuto. Il tempo letterario fa continuo riferimento a Basho, che la poetessa sente tanto vicino nel suo andare, movimento fra lo spazio fisico e lo spazio interiore, in un percorso poetico che ricerca l’essenziale, la brevità, con pennellate secche, decise, veloci, potenti. E anche la lingua fluttua eterogenea fra frasi-sentenza, momenti di un diario, citazioni, memorie e descrizioni che determinano il susseguirsi di registri lontani fra loro, in cui il ruolo giocato dalla rima e, soprattutto, dall’assonanza, è tutt’altro che accessorio.

Le differenze, la varietà, la complessità, le continue sovrapposizioni, il continuo movimento umano fra spazi e tempi danno infine luogo a un’interezza nella molteplicità. La bellezza che «ci ingoia interi» e che si fa poesia, che riecheggia nei versi di Basho e nelle antiche dimore dei principi indiani è la stessa bellezza di un bambino che succhia noccioli, dei venditori accovacciati che vendono le proprie merci, di una pozza d’acqua scintillante nel mercato.

 

Note


Si ringrazia Meena Alexander per aver concesso i testi e avere acconsentito alla traduzione italiana di questa sequenza recentemente pubblicata presso Glenn Horowitz Bookseller, New York 2012.

1 Gli haiku di Basho sono costituiti da tre versi, rispettivamente di cinque, sette, cinque sillabe, presentano un kigo, parola d’atmosfera che allude solitamente a una delle quattro stagioni, e un kireji, una parola-cesura che divide in due parti il componimento.

2 Questa città, nel distretto di Tohoku, nella punta settentrionale del Giappone, fu un’importante tappa del viaggio di Basho (L’angusto sentiero del Nord).


 

 

SHIMLA

 

I GIARDINI DI LODI

Passeggio tra i bambù,
Uccelli color pepe si aggrappano ai rami.

Alla tomba di Sikander Lodi
La tua ombra viene a me –

Un uomo in lungi
Che piano si lascia morire di fame.

Sangue, saliva, sandalo, muco
Ciò che il corpo espelle –

L’eternità ha un odore,
Tu al mio fianco, in eterno (perduto).

 

SHIMLA

 

LODI GARDEN

I stroll in a bamboo grove,
Birds pepper colored cling to the branches.

By the tomb of Sikander Lodi
Your shadow comes to me —

A man in a lungi
Who is starving himself very slowly.

Blood, spittle, sandalwood, phlegm
What the body expels —

Forever has a scent,
You beside me, forever (lost).

SUITE 19, LOGGIA DEL VICERÉ

Nella mia stanza un paravento,
Scoloriti brandelli di seta

Mi spoglio alla luce dei monti.
Sulla terrazza ballano le scimmie

Una stringe uno specchio tra le zampe
Un’altra una sfera infocata

Un’altra ha il muso in ombra:
Sulla testa il cappello col ghirigoro blu

Che un tempo mi desti.
Le scimmie rosicchiano germogli, rovesciano vasi

Intralciano il gelsomino in fiore
Ti sento sussurrare

Così che ti sentirò nell’aria
Anche quando non ci sarò più.

SUITE 19, VICEREGAL LODGE

In my room a screen,
Pale silk in tatters

I undress in the light of the mountains.
On the terrace monkeys dance

One keeps a mirror in its claws
Another a burning orb

A third has its face blacked out:
On its head a cap with a snarl of blue

You once gave me.
Monkeys gnaw buds, topple flowerpots

Stand in the way of the blossoming jasmine
I hear you whisper

That way I can smell you
Even when I’m gone.

CARO X

Siedo all’ombra di un fico sacro.
Ogni mattina leggo alcuni passi
L’angusto sentiero del Nord.

Dove andò Basho?
Entrò in una nuvola e ne uscì dall’altra parte:

Tutto è infranto e sacro.
Tetti di tegole, rovine che affiorano, polpa strappata ai molluschi.

Lontano, una flottiglia di barche. Un bimbo succhia nòccioli.
C’è un sentiero che si biforca verso questo momento.

Alberi senza un altrove.
Foglie molto verdi.

DEAR X

I sit in a patch of shade cast by a pipal tree.
Each morning I read a few lines from
The Narrow Road to the Deep North.

Where did Basho go ?
He entered a cloud, and came out the other side:

Everything is broken and numinous.
Tiled roofs, outcrops of stone, flesh torn from molluscs.

Far away, a flottila of boats. A child sucking stones.
There is a forked path to this moment.

Trees have no elsewhere.
Leaves very green.

LITCHI

Terrazza profonda come il cielo.
Panca di pietra su cui siedo e leggo

Vagavo da solo
Nel cuore delle montagne di Yoshino.

Il libro in una mano, nell’altra una busta di carta riciclata –

Qui niente ossa battute dalla bufera

Solo litchi comprati al mercato,
Trenta rupie al chilo.

Gli steli screziati di rosso legati con lo spago,
Dolce ribollire di frutta.

Piccioni pestano l’aria, i pini si fanno neri. Dove andrò, io?

Le cime del Dhauladar
Son coperte di neve.

LICHIS

Terrace deep as the sky.
Stone bench where I sit and read

I wandered by myself
Into the heart of the mountains of Yoshino.

In one hand a book, in the other, a bag made of newsprint —

No weather beaten bones here

Just lichis bought in the market,
Thirty rupees per kilogram.

Stalks mottled red tied up with string,
Sweet fruit simmering.

Pigeons bruise the air, pine trees blacken.
Where shall I go?

The Dhauladhar peaks
Are covered in snow.

PAESAGGIO CON FANTASMA

Due bicchieri, uno scheggiato, una scodella incrostata di sale,
Un lampo amaro nell’aria –

La figlia di Lord Curzon sussurra tra foglie di cedro,
Si scioglie i capelli.

Scimmie saettano fra le nubi, la coda lunga e niente malizia,
Alcune hanno ali da cherubino.

Indugia nel corridoio dove obbligavano i principi a fermarsi,
Rifiuta cibo e acqua.

Dov’è l’amante che ha incontrato a Scandal Point? Sotto di loro cavalli selvaggi al galoppo, sfolgorio di criniere.

Non mi piacciono più le tue mani.
Sono troppo straniere.

Caro diario,
Chi è lui? Non lo so più.

Ha bisogno di Hanuman con la sua erba che risana Ma le nuvole non se ne vanno.

Su un sentiero roccioso dove gli scoiattoli saltavano,
Si arrampica oltre un mucchio di api morte

Fino a un monticello coperto di capelli recisi, Bottiglie di plastica, filamenti di cenere.

Giù nella gola
Due donne raccolgono legna per il fuoco.

Il fumo si alza
Da un fiammante basilico sacro.

LANDSCAPE WITH GHOST

Two glasses, one chipped, a bowl with a crust of salt,
A bitter flash in air —

Lord Curzon’s daughter whispers in the deodar leaves,
Unravels her hair.

Monkeys dart through clouds, they are longtailed and bear no malice,
Some are winged like cherubim.

She loiters in the corridor where princes were forced to stand,
She refuses food and drink.

Where is the lover she met at Scandal Point? Below them, wild horses galloped, manes flaring.

I do not like your hands any more.
They are too foreign.

Dear Diary,
I do not know who he is any more.

She needs Hanuman with his herb of healing
But the clouds won’t part.

On a crooked path where squirrels leapt,
She creeps past a mass of dead bees

To reach a mound littered with cut hair,
Plastic bottles, filaments of ash.

In the gorge below
Two women raise firewood in their arms.

Smoke rises
From a fiery tulasi plant.

LA TERRAZZA DI LADY DUFFERIN

Nella vecchia Loggia del Viceré sete cachemire e damasco alle pareti,
Leziosa scala di palissandro sulla roccia umida.

Rajah fermi ad abbeverare cavalli, truppe inglesi tremule nella calura,
Bestiame lento sulla collina.

Sul terreno sconnesso ombra di ali –
Inquieta grafia.

Il pomeriggio scendo a valle in cerca di una bottiglia d’acqua
E biscotti Britannia.

Da bambina l’ayah mi dava biscotti da inzuppare nel tè
In una casa tra i manghi non distante dal mare.

La bellezza ci ingoia interi.
Provo a immaginarmi il tuo volto senza la barba ispida.

Nel mercato di Boileauganj mi ritrovo in una buca – È piena d’acqua scintillante.

Il desiderio fa di noi spettri,
Lombrichi luccicano tra bucce di papaya.

Mercanti accovacciati nelle botteghe di legno Smerciano olio per capelli e pastiglie per il fegato.

Un camion con un dio azzurro passa sferragliando.
La mano destra di Krishna

È tesa a benedire.
L’occhio, livido.

Crepuscolo: sorseggio acqua fredda,
Stesa su una
chaise longue

Mi distraggono le scimmie
Che ghermiscono ananas di pietra sulla terrazza di Lady Dufferin.

Una nuvola scivola giù, ci copre tutti. Accendo una lampada a olio e ti scrivo:
Caro X – dove sei?
Alla mensa di Observatory Hill

Ci danno riso, dal e cipolle a fette.
E peperoncini verdi, come le ali dei pappagalli.

LADY DUFFERIN’S TERRACE

In the old Viceregal lodge silk paisley and damask on the walls,
Rosewood staircase skittish on damp rock.

Rajahs stopped to water their horses, British armies dithered in heat,
Cattle crept uphill.

On unequal ground the shadow of wings — Restless calligraphy .

Afternoons I go downhill in search of bottled water And Brittania biscuits.

When I was a child ayah gave me biscuits to dip in tea
In a house with a mango grove not far from the sea.

Beauty swallows us whole.
I try to imagine your face without stubble on it.

In Boileauganj market I step into a pot hole —
It’s filled with shining water.

Desire makes ghosts of us,
Earthworms glisten in papaya peel.

Merchants squat in wooden shops
Hawking hair oil and liver pills.

A lorry with a blue god rattles past.
Krishna’s right hand

Is stretched in benediction.
His eye, bruised.

Come twilight I sip cold water,
Stretch out on a chaise longue

I am distracted by monkeys
Clawing stone pineapples on Lady Dufferin’s terrace

A cloud floats down, covering us all.
I turn on an oil lamp and write to you:
Dear X— Where are you?
In the mess on Observatory Hill

They serve us rice, dal and sliced onions.
Also green chillis, the color of parrot wings.

UCCELLO ROSSO

Questi versi sono per un bambino che conta patate
E le porge alla madre,

Lei le sciacqua nel ruscello del villaggio –
Lentigginoso di bucce di patata rosse, il colore dell’uccello

Il cui nome è segnato in lunghe iscrizioni, nel rame
In un regno a sud delle montagne.

RED BIRD

These lines are for a child who counts out potatoes
And hands them to his mother,

She rinses them in the village stream —
Freckled red of potato skins, the color of the bird

Whose name is marked in long inscriptions, in copper plate
In a kingdom south of the mountains.

BRYANT PARK

Ombrelli a righe si alzano nel vento:
Due ragazze, una con un vestitino rosso, l’altra in bianco.

Quella in merletti bianchi ha i capelli raccolti
Apre un ventaglio fra le dita.

Sul ventaglio cigni e foglie di catalpa.
I cigni sollevano il becco.

Penso facesse parte del gruppo degli osservatori di neve di Basho.
Mi piacerebbe sedere a Bryant Park in pieno inverno, e afferrare la neve,

E i pattinatori in avvitamento sul ghiaccio, mentre gesticola indolente l’uomo
Che si offre di cantare una canzone con il mio nome dentro

Cinque dollari esatti, tempo di crisi.
Una donna di nome Butterfly diede a Bashoun pezzo di seta bianca per scrivere.

Questo lo aiutò molto.
Penso avesse occhi a forma di pesce, come la ragazza dal vestito scarlatto.

Sei lontano come le montagne di Yoshino.
Dammi la mano – forse poi riesco a scrivere una poesia.

Voglio anche dirti: non posso vivere senza di te
Ma in qualche modo lo sto già facendo.

BRYANT PARK

Striped umbrellas lift in the breeze:
Two girls, one in a red shift dress, the other in white.

The one in lacy white has tight hair
She spreads a fan with her fingers.

The fan is painted with swans and catalpa leaves. The swans have lifted beaks.

I think she was part of Basho’s snow viewing party.
I ‘d like to sit in Bryant Park in mid winter, and catch the snow,

Skaters too, looping on ice, lolling gestures of the man
Who proposes to sing a song with my name in it

Five dollars flat, recession rate.
A woman called Butterfly gave Basho a piece of white silk to write on.

It helped him a lot.
I think she had fish shaped eyes, like the girl in the scarlet dress.

You are far away as the mountains of Yoshino.
Give me your hand — maybe then I can write a poem.

I want to add : I cannot live without you
But I am doing it anyhow.

VICINO A SENDAI

Farfalla soffiata
Dentro una grotta montana,
Iris selvatico cullato nel buio:

Copritevi il naso e la bocca se potete
Con lembi di stoffa vecchia, e prendete iodio
Figli di luce e fuoco.

Lasciate che la vostra ombra vi guidi
Incidete questo verso sulla fredda roccia
In memoria del luogo dove camminò Basho.

NEAR SENDAI

Butterfly blown
Into a mountain hole,
Wild iris cradled in darkness:

Cover your nose and mouth if you can
With bits of old cloth, drink iodine too
Children bright and burning.

Let your shadow lead you
Carve this line into cold rock
In memory of the place where Basho walked.

 


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