« indietro
«Scottate la lingua sulla fiamma viva / levatele la pelle / tagliatela a fettine. / Fate appassire in frasi fatte le parole. / Aggiungete una rosa, petali e spine, / portate a bollore / con un po’ di buon rimpianto, / salate, leggete. / Il tempo di cottura non è stabilito / provate a parlare di tanto in tanto. / Se qualcuno vi risponde / o qualcosa vi risuona dentro / staccate dal fondo / spegnete il fuoco. // Servite caldissima». Quest’ottima (e raccapricciante) ricetta, Echi di lingua madre, è il fulcro, il baricentro del nuovo libro di poesie di Eva Taylor, Volti di parole. Intanto perché la lingua poetica dell’autrice, studiosa, docente e poetessa, non teme le alte temperature, anzi si mette davvero alla prova del fuoco: a lei possiamo riconoscere tria corda, quanti se ne attribuiva – ricorda il Gellio in epigrafe al suo primo libro, L’igiene della bocca (2006) – il «pater Ennius», ovvero tre lingue, che nel caso della Taylor sono il materno tedesco, l’inglese della famiglia attuale, l’italiano del suo luogo di residenza e della sua scrittura in versi. E nel nodo delle lingue c’è quello della comunicazione, della risposta dall’esterno, della dialogicità con l’altro, e delle molte vibrazioni del suono interiore. In secondo luogo pe ché la compatta carnalità delle sue immagini, l’approccio diretto alla parola fatta di sostanza, ‘cucinabile’, e ‘speziabile’ con fiori e spine, con rimpianto e sale, si riverbera in tutto il libro. Volti di parole è un modo altro di declinare i tria corda: tocca l’identità personale e quella di chi scrive versi, di chi sta scrivendo il libro. L’epigrafe da Karen Alkalay-Gut funziona di nuovo come chiave di lettura onesta (oppure nobile esempio di ‘onesta dissimulazione’): «...Ihaveatwin–/She’stheone/who writes the poems / and passes them off / as mine». Ciò che in ogni caso appare indubbio è che questi volti – plurali – di parole, malgrado le tante possibili virate della scrittura, restano volti polposi, di carne, non di carta. Dominano, soprattutto nella sezione Ricettario minuto, che Anna Maria Carpi nella nota definisce «perfette operazioni sul non commestibile», la fisicità polisensoriale, l’ironia acuminata, gli scatti infallibili del precedente e notevole L’igiene della bocca. Da provare (a leggere e meditare, e da salare a piacere con il privato individuale) Carne in umido, con la sua cottura lenta, «la più lenta di tutte / due vite passate accanto»; e la Ricetta per pesce fuor d’acqua, col suo mutismo da far «raffreddare nell’acqua di cottura» e da versare «nell’alfabeto»; e il toccante e attraente Decotto di vuoto con le sue «12 ore» di carezze e di silenzio; e le Lettere in brodo, pastina scotta per uno spaccato domenicale, gioco che confonde «le lettere sulle nostre lingue / una dopo l’altra senza ordine e senso». Il libro risulta composito, di tenore poetico mutevole di sezione in sezione. E in ciò risponde alla pluralità del titolo, alla vitalità che appartiene a questa poesia elegante e decantata. Se la prima sezione, Lettere, mostra l’affiorare di qualche indulgenza effusiva o malinconica, carattere cristallino, invernale (ma di un gelo che fonde), ha la sua poesia d’apertura, Libro di neve, insieme testo e paesaggio, e in ultimo concrezione esistenziale. Voce e ritmo contenuti ha la sezione Battiti, di immagini più scorciate; «foglie di carta» crescono nella sezione Giardinaggio, e parole lì si vestono del calendario dei mesi, «parole di gennaio» che «diventano febbraio» e poi marzo, e vivono del respiro delle stagioni; e la maggiorana colta «nel Harz» mette «nel- la minestra» profumi e fascinazioni letterarie. Altro mezzo per riflettere sulle tre lingue, sulla loro ininterrotta e produttiva dialettica, è la sezione dei segni indelebili tracciati sulla pelle, Tattoos, che sotto un titolo inglese raccoglie componimenti in italiano, uno a uno rubricati sotto titoli in tedesco. Fatto salvo l’ultimo, dal titolo greco, Ekdysis, ‘evasione’, ‘fuga’, ‘scampo’, e in significato secondo ‘spoliazione’, ‘privazione’; componimento che è soccorso (richiesta e offerta di) e relitto giunto «là dove il mare finisce», col suo scarno, enigmatico e fatale messaggio in bottiglia, «Flaschenpost lingua imbottigliata». (Cecilia Bello Minciacchi) ¬ top of page |
|||||||
Semicerchio, piazza Leopoldo 9, 50134 Firenze - tel./fax +39 055 495398 |