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Vincitore del premio Valeri 2011, Alessandro Zattarin pubblica nell’ultimo quaderno un breve grumo di liriche e di storie, legate alcune al Veneto – euganeo, nel suo caso –, già divenuto mono-cosmo nel racconto di insigni poeti/narratori (Zanzotto, Meneghello). Veneto come un’infanzia, che l’autore ricorda nelle persone della nonna (Domàn pasàndo), o di Nani Benéto (Sulla morte, senza esagerare), uomini e donne di un’Italia già integralmente industrializzata, sebbene non in queste regioni di provincia, né, soprattutto, agli occhi mitizzanti di un ragazzo che negli anni ’70-’80 dalla nativa Padova si inoltra, per le dovute visite in famiglia, nella campagna dei propri antenati. Spunta tra la lingua del racconto il dialetto, quello dei vecchi, non tuttavia vegliardi di un’era remota: tant’è che le attrattive dell’idioma avito sembrano erompere dall’uso che se ne fa in un presente saturo di nuovo – l’effetto singolare sta tutto nell’udire, da parte del ragazzo, in altra lingua le res dei propri tempi urbani, insieme alle perdute formule del culto: questi difatti gli anni del trapasso, in cui convivono e il saluto cristiano del «Pastèche» e lo «Scoltémo Bernàca». Più varie e decentrate dalla zana veneta, le liriche, tranne La pagina della Sfinge, omaggio ancora alla terra d’origine, commemorata qui con la saputa arte di una solfetta leggera, appresa certo con gli studi (Zattarin è anche fine conoscitore di metrica e di poesia novecentesca in forme chiuse), ma forse anche sorbita col petèl nativo, i cui endecasillabi si aprono con un’infilzata di celebrità pittoriche del luogo, dai luoghi stessi il nome di famiglia derivanti («Dorigo, Alpago, Soranzo, Brogini, / Oreste da Molin con gli occhialini»). Fono-ritratto del soggetto – un picchio-automa inarrestabile al pari dell’infernale «mala bestia» carducciana, o di comare Coletta –, le quartine in ottonari di Vacanza. Dalla ridicola pubblicità che invita all’adozione di un colosso marmoreo da restaurare, trae spunto Ubi caritas, nei cui versi liberi si insinua comunque la rima e l’assonanza. Ma è al sonetto che Zattarin dà ruolo e spazio primari, l’au- rata gabbia che gli è cara e che si presta qui a racchiudere i ricordi di un vecchio Casanova ‘pensionato’ (Da un castello di Boemia), dove l’accumulatio serve tanto a evocare, nel modo del plazer, i lussi di un regime decaduto: «L’oro, il lampasso chermisi, l’argento», quanto a riandare la proteiforme carriera del grande libertino: «fui mago, baro, evaso, violinista, // in Francia inventai il lotto, il mio costume / fu il viaggio, il gioco, il niente, la conquista / di ogni madamina incustodita». (Francesca Latini) ¬ top of page |
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