Christine Koschel torna con la sua voce scabra a parlare al pubblico italiano con la raccolta Nel Sogno in bilico (curata da Amedeo Anelli per la collana «Argani», diretta da Guido Oldani) nelle belle traduzioni rese da un gruppo importante di interpreti della sua parola: un collega e amico poeta, Enrico Piccinini, altre importanti traduttrici-scrittrici, da Anita Raja a Maria Teresa Mandalari e Paola Quadrelli, da Maura del Serra a Daniela Marcheschi, e infine il traduttore-scrittore Silvio Aman. Christine Koschel perpetua così la tradi- zione dei suoi grandi sodalizi letterari. Si pensi a Ingeborg Bachmann, di cui fu amica e poi curatrice, o a Cristina Campo e Elémire Zolla, suoi primi traduttori.
Christine Koschel è nata nel 1936 in un luogo di frontiera, un luogo ‘in bilico’, sin dalla pronuncia del toponimo. Breslau, Slesia tedesca, oggi Wroclaw, città polacca, ma già Wrotiza, Vretslav, Presslaw asburgica. Lo storico Norman Davis ha dedicato a questa città un libro notevole, Microcosmo (Bruno Mondadori 2005). Christine Koschel è nata, dunque, in un microcosmo di tormentate vicende nel cuore d’Europa. I cambiamenti di nome della città natale evocano invasioni, insediamenti misti e conquiste militari sanguinose. Il caleidoscopio etnico è stato la norma in una terra che divenne grande asilo della comunità ebraica europea, scenario di lotte tra stati deboli e potenti imperi dinastici che si contendevano i ritagli della sua geografia aperta. La vita culturale di Breslau era stata intensa al tempo della generazione dei genitori di Christine Koschel. Ci erano nati Edith Stein, Eugen Spiro, Balthus (ovvero Balthasar Klossowski). Ci aveva insegnato Oskar Schlemmer prima di andare al Bauhaus.Nel 1944, appena prima della disfatta delle linee tedesche a Breslau, Christine Koschel, bambina, è costretta a emigrare verso occidente. Prosegue gli studi in Germania, mentre la città d’origine sparisce dalla geografia tedesca, cambia nome e appartenenza, lasciando nell’aria i suoi fantasmi.
Christine Koschel è sin dall’infanzia un soggetto nomade. Avendo portato con sé il bagaglio della lingua, sviluppa l’arte della traduzione per tenersi in bilico. Dopo spostamenti tra Germania e Inghilterra si accasa in Italia, a Roma, dove vive tutt’ora. Dei suoi spostamenti e radicamenti precari ma altrettanto profondi resta traccia non solo nelle poesie ma anche nelle traduzioni, da Michael Hamburger, Djuna Barnes, Silvia Plath, George B. Shaw, Oscar Wilde, e dagli italiani Eugenio Montale e Andrea Zanzotto (il suo più recente lavoro, apparso nel 2010, è la traduzione del volume The T.E. Lawrence Poems di Gwendolyn MacEwens, per le edizioni rugerup).
Comprendiamo così le radici lontane del rapporto tra spostamento geografico e culturale, sradicamento profondo senza prospettiva di ritorno e consapevolezza linguistica.
Resta costante nella scrittura di Christine Koschel la ricerca dell’oikos, che non è casa, ma ambiente che possa avvolgere. Chi si sia trovato tutta la vita – una vita d’artista e studiosa – a fuggire dal proprio oikos perduto per sempre, sarà impegnato a riconfigurarlo. In questo libro lo troviamo ri-sillabato in immagini e parole severe, ridotte all’osso, a volte invece in proliferanti invenzioni linguistiche che felicemente si ritrovano, reinventate, nelle traduzioni. A volte il seriale, minimale scarto che s’innesta in ripetizioni di fonemi, o d’immagini, apre uno spazio ‘abitabile’. La casa è in questo libro la dimora dell’instabilità, dell’angoscia, cui restiamo sospesi come su un’altalena a due, la «Angstwippe», ribattezzata nella traduzione di Enrico Piccinini «bilicangoscia». La consapevolezza della precarietà si fa, nella parola misurata, occasione di vita autentica («forse solo nella nostra caducità / irrompe davvero la vita»).
Il microcosmo della poesia di Christine Koschel è circoscritto da quattro elementi tra loro collegati: la disciplina della parola, il peso della storia, le domande dell’esistenza, che sono anche le provocazioni del presente. Il suo punto di partenza è sempre insieme estetico, etico e politico,secondo l’idea gramsciana, trasformata in verso da Christine Koschel, per cui «l’uomo è il processo delle proprie azioni». Azione, processo della propria vita è anche la scrittura. Scegliere le parole che stanno dentro e fuori di noi. Le metafore si intridono dei lutti del Novecento, delle chimere degli anni zero. Perdono il loro status aureo di metafore e diventano sintomi improvvisi e instabili di un disagio, illuminati da un bagliore di voce. La poesia, attento sensore che cattura la cattiva coscienza delle immagini, recupera la funzione benjaminiana di ‘segnalatore d’incendi’. Ci costringe a leggere la violenza subliminale dell’informazione: «Quello che accade / lo inquina a morte il flusso di notizie. [...] Ci inondano il campo visivo fatti / di menzogna e impostura; / tutti alla fine diventano ciechi».
Contro la cecità, contro parole che non dicono nulla e ci ammutoliscono, contro la violenza della rimozione del dolore, della responsabilità, dei pesi della storia, contro il complice volto da saltimbanco dell’establishment letterario, Christine Koschel prende le parti di chi si è «ripiegato», di chi procede deciso ma «in punta di piedi»; dei bambini che vedono più degli altri; dei morti; dell’«esserino piumato sul binario / la testa col becco / infossata / nella solitudine più fonda / l’occhio in allarme».