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Semicerchio XXXVII (2007/2) La forma chiusa. Poesia dal Carcere, pp.3-4
CARCERE DENTRO E FUORI. PENA E CANTO
di Martha Canfield
Il tema del carcere è antico forse quanto le leggi che l’hanno istituito e si potrebbero trovare esempi di testi che ne parlano in tutti i tempi e in tutti i generi. Naturalmente nella letteratura contemporanea, e a partire da quella che conosciamo associata all’aggettivo engagée, il tema del carcere acquista un valore di denuncia nei confronti della società che costringe il povero a ricorrere ad azioni sconfinanti nel reato, delle leggi che puniscono chi pensa in maniera diversa da coloro che detengono il potere e del destino fatale che fa finire le guerre con la vittoria dei più forti e non necessariamente dei più giusti. La letteratura spagnola ha prodotto poesia, narrativa e teatro attorno alle sofferenze dei repubblicani che si sono visti sconfitti nella Guerra Civile e poi soffocati lungo la famigerata storia della dittatura di Francisco Franco: valga un nome per tutti, quello del poeta Miguel Hernández (1910-1942), che conobbe di persona il carcere del tiranno, dove morì malato di tubercolosi, stremato da terribili privazioni. La letteratura ispano-americana, che diede esempi straordinari di poesia militante al tempo della Guerra Civile spagnola, ha conosciuto dopo, lungo tutta la seconda metà del Novecento, una serie di dittature con milioni di morti e carcerati, tra cui tanti scrittori che ne hanno lasciato testimonianza. Gli anni ’70 sono segnati dall’azione repressiva congiunta dei regimi militari del Cono Sud, ossia Cile, Argentina e Uruguay, associati al tristemente celebre «Piano Condor». Mario Benedetti (Uruguay, 1920) è forse il più famoso – insieme all’argentino Juan Gelman e al cileno Pedro Lastra – tra i poeti che hanno parlato del dramma vissuto dal proprio paese e dell’incubo del carcere, della tortura, delle esecuzioni sommarie, dei desaparecidos. Benedetti ha affrontato l’argomento in molte sue opere, a cominciare dal romanzo in versi Il compleanno di Juan Ángel (1971), dove si racconta la fuga dal carcere di un gruppo di guerriglieri attraverso le fognature. Poco dopo la pubblicazione di questo libro, si verificò la fuga di diversi tupamaros da una prigione di Montevideo, in maniera in parte simile a quella raccontata da Benedetti, e questi fu accusato di avere fornito loro l’idea della fuga. Anche il romanzo epistolare Primavera con un angolo rotto (1982) tratta questo argomento, così come la pièce Pedro e il capitano (1979), e molti racconti di Con e senza nostalgia (1977) e di Lettere dal tempo (1999)1. In poesia invece il tema è illustrato da una lunghissima serie di componimenti, presenti in particolare nelle raccolte Lettere di emergenza (1969-73), Poesie degli altri (1973-74), Quotidiane (1978-79), Vento dell’esilio (1980-81), e Geografie (1982- 84)2. Per accompagnare la riflessione odierna di Benedetti in una testimonianza inedita per «Semicerchio», abbiamo scelto due di queste poesie, A Roque, da Quotidiane, e Alguien, da Lettere di emergenza. La prima è dedicata a Roque Dalton, il poeta guerrigliero, nato ne El Salvador nel 1935 e morto nel 1975, stupidamente assassinato da una fazione non riconosciuta – così si disse dopo – del movimento guerrigliero del suo paese. Dalton, che aderì subito alla causa della rivoluzione cubana, voleva avviare la lotta rivoluzionaria anche nella piccola repubblica centroamericana dove era nato. Conobbe il carcere, l’esilio, la lotta armata. E di tutte queste intense e drammatiche esperienze, per le quali Julio Cor- (I Série, 1951-1959) Edições Avante!, Colecção Gravuras e Serigrafias, Lisboa 1975. tázar arrivò a paragonarlo a Che Guevara, lasciò testimonianza nella sua poesia3. Il secondo testo di Benedetti qui proposto, intitolato Alguien (Qualcuno), non è dedicato a nessuno in particolare, ma piuttosto a tutti quelli che hanno sentito il bisogno di agire in beneficio degli altri, alla ricerca di una giustizia autentica, affrontando i pericoli della lotta armata; e che, a un certo punto si ritrovano in carcere, senza però mai arrendersi.Anzi, cercano di pulire il sangue versato con i gesti dell’amore – il nome di “lei” sui muri della cella – , provano a modificare la rabbia con la saggezza, la solitudine con la speranza della gioia, pur sapendo che l’amarezza di questo vissuto non sarà mai dimenticabile. La poesia diviene così un mezzo fondamentale per trascendere l’orrore del momento e per conservare la memoria, compito etico fondamentale. Che la poesia – la letteratura – abbia una funzione etica, al di là del fatto incontestabile che le opinioni di un autore non possono né devono pregiudicare il valore della sua opera, fu ribadito dallo stesso Mario Benedetti in occasione della presentazione della poesia di Roque Dalton4. Dalton è per Benedetti, come per Cortázar e per tanti altri, un esempio straordinario di eroe contemporaneo, oltre che mirabile poeta; mentre – ribadisce Benedetti – il valore di un’opera come, ad esempio, L’Aleph non può né deve essere ridimensionato dalle abiezioni politiche del suo autore, e cioè Borges, per quanta indignazione esse possano suscitare nel lettore. Eppure, la grandezza di un’opera non dovrebbe accrescere la responsabilità del suo creatore sul piano politico? Aquesta domandaMario Benedetti ha risposto tutta la vita con un comportamento ineccepibile, prima dirigendo il «26 de Marzo», partito politico di opposizione alla dittatura militare in Uruguay, fino a quando ha dovuto pagare di persona questa militanza e subire un lungo e doloroso esilio; poi associando sempre la sua eccezionale capacità espressiva e la sua abilità tecnica e creativa nel dominio del linguaggio con la sua visione etica del mondo e il suo impegno militante.
1 Il titolo originale è Buzón de tiempo; trad. it. di Emanuela Jossa, Lettere dal tempo, a cura diM. Canfield, Le Lettere, Firenze, 2000. 2 Cfr. Mario Benedetti, Inventario. Poesie 1948-2000, antologia a cura di M. Canfield, Le Lettere, Firenze, 2001. 3 In italiano si può leggere, insieme ad altri due poeti combattenti, nel volume curato da Vanni Blengino, Tre poeti assassinati. Roque Dalton, Javier Heraud, Francisco Urondo, Vallecchi, Firenze, 1978. 4 Ibidem, p. 11.
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