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Semicerchio XXXVII (2007/02) La forma chiusa. Poesia dal carcere. pp12-15
Michela Landi
Durante la stesura de La poésie et la guerre (Chroniques 1942-1944)1 il ventenne Jean Starobinski leggeva, oltre a Kierkegaard, Stendhal; del romanziere egli pubblicava, nel 1943, un’antologia per la collana «Le cri de la France» delle edizioni LUF di Friburgo. E non fu forse un caso che il giovane chroniqueur maturasse all’epoca una convinzione: «la vraie poésie intériorise l’histoire». Poiché l’azione non soddisfa appieno le esigenze dello spirito, è necessario infatti che le tragiche contingenze della storia debbano confrontarsi con le aspirazioni assolute dell’uomo. Per questo Starobinski ascoltava, dalle silenti e pacifiche rive del lago Lemano – da quella Svizzera romanza che dette i natali anche al ‘solitario’ Rousseau durante la frenesia civilizzatrice dell’epoca dei Lumi – levarsi la voce dei poeti militanti e prigionieri; dei cosiddetti «poètes de l’événement»: Jouve, Emmanuel, Tardieu, Loys Masson. La sua posizione, di distanza geografica e critica, assurge a paradigma della necessità di una trasfigurazione dell’evento: l’eccessiva adesione provoca, come Starobinski precisa nelle Chroniques, perdita della coscienza degli eventi stessi, e perdita della dignità dell’uomo. Si tratta infatti, in quest’epoca buia segnata dal conflitto mondiale, piuttosto che del futuro nazionale della Francia, di un’«expérience de valeur universelle, faite pour nous de cette nation et exprimée par ses poètes». E dunque i Jouve e gli Emmanuel, poeti che seppero convertire la circostanza storica in una risorsa di arricchimento intimo e spirituale, saranno preferiti adAragon; il quale fu invece, accanto ad Éluard – sostenitore della «poésie utilitaire» e autore della celeberrima Liberté divenuta l’inno nazionale dei poeti «résistants» – il simbolo stesso della militanza ideologica. D’altronde, è noto il disagio di Aragon di fronte al rapporto tra l’azione e la scrittura; disagio che lo ha condotto ad una incessante sperimentazione e ricerca, tanto nella poesia quanto nel romanzo. Non si dimenticherà la formula-manifesto che contraddistingueva ancora il suo pensiero all’epoca del primo surrealismo: «Le monde à bas, je le bâtis plus beau», cui fece eco la sua opera, segnata dal preziosismo stilistico e dal culto delle forme medievali o classiche. Trattasi ancora di forme «allégoriques» (si legga: «ironiques») di loro stesse, come accadde per il celebre sonetto in –yx di Mallarmé che decretò la morte storica del sonettismo e della forma chiusa? Non paiono certo segnati da ironia metascritturale i componimenti dedicati ad Elsa, donna della sua vita e Musa ispiratrice. E neanche la celebre Ballade de celui qui chanta dans les supplices, dove il lungo seguito di quartine rimate sembra accompagnare il doloroso viaggio del condannato. Non ci stupisce dunque che Aragon accetti di redigere, sotto lo pseudonimo di François La Colère, la prefazione ad un altro canto di condannato; quello dell’ispano-francese Jean Cassou (alias Jean Noir) poeta resistente e suo compagno d’azione. Cassou, «arrêté pour activité de résistance par la police de Vichy» (come lui stesso ricorda nell’avant-dire)2 compose nel carcere di Furgole a Toulouse, nel corso dei lunghi mesi che vanno dal dicembre del 1941 al giugno del 1943, trentatré sonetti d’impeccabile fattura che furono pubblicati clandestinamente dalle edizioni Minuit nel 19443. Un articolo dello stesso Cassou su Alfonso Reyes apparso nella «Revue de l’Amérique latine» nel 1926 e citato dalla curatrice della presente edizione dei Sonnets, appare pertinente ad illustrare il bisogno di trasfigurazione del reale proprio di un temperamento di sognatore, innutrito di quell’idealismo tedesco che fu caro ai surrealisti: «Enfance, voyages, rêves, n’est-ce pas à travers ces merveilleuses vitres que certains systèmes humains, sensibles et compliqués, prennent connaissance des choses?». Ed è, ci sembra, questa rifrangenza interna al testo – speculum concentrationis, se ci ricordiamo delle letture alchemiche compiute da Cassou accanto a Milosz – che assicura ad esso la sua infinita spazialità, così come lo Stendhal caro allo Starobinski delle Chroniques de guerre scriveva a proposito del romanzo: quest’ultimo dev’essere, appunto, uno specchio che riflette – nei suoi moti interni – l’universo immaginativo dello scrittore. E Stendhal è forse colui che meglio ha illustrato la libertà di pensiero nella prigionia, come ha ampiamente dimostrato il Brombert negli studi a lui dedicati e, in particolare, nello studio tematico che ci riguarda più da vicino: La prison romantique. Essai sur l’imaginaire4. La prigionia, per il primo dei due massimi eroi stendhaliani, Julien Sorel (in Le rouge et le noir) «n’était point ennuyeuse […], il considérait toutes choses sous un nouvel aspect»5; per il secondo, Fabrice del Dongo, rinchiuso nella Torre Farnese (La Chartreuse de Parme), «ce moment fut le plus beau de sa vie, sans comparaison. Avec quels transports il eût refusé la liberté si on la lui eût offerte en cet instant!»6. Altri esempi ottocenteschi (Hugo Nerval, Baudelaire) confermerebbero quella che potrebbe considerarsi come una costante – solo in apparenza paradossale – dell’immaginario letterario moderno (se non risaliamo al topos della felicità del monaco: hortus conclusus), la quale trova riscontro nell’assunto di Starobinski sopra evocato: l’azione non soddisfa appieno le esigenze dello spirito. E la coatta privazione di quello che Sartre avrebbe presto definito l’essere «en situation» (intendendo con tale condizione un determinismo imposto dalle circostanze storiche e sociali)7 preserva il soggetto da quella che almeno un secolo prima Kierkegaard, padre dell’esistenzialismo, aveva evocato come «l’angoscia della libertà», riconoscendo in essa (intesa nel suo senso etimologico: angustia, oppressione, paralisi) il tratto dominante della modernità8. L’uomo infatti, checché ne abbia detto il discepolo Sartre (negando l’essenza a vantaggio dell’esistenza) è, agli occhi del filosofo danese, «una sintesi di tempo e di eternità»9. Ed è tale angoscia, indotta dall’impotenza di fronte alle infinite possibilità offerte da un’esistenza libera, che ingenera una vertigine nel soggetto; vertigine paragonabile – prosegue Kierkegaard – ad una danza sull’abisso: quel paralizzante fatto di trovarsi (con Baudelaire che mirabilmente ne illustra il pensiero), sempre «au bord du gouffre»: in imminenza di giudizio, di punizione, e di caduta. Il poeta delle Fleurs du mal immagina infatti, ancor prima di essere processato e punito, un descensus ad inferos che ha le caratteristiche di una segregazione: caduta tortile in una cella sotterranea da cui il sepolto vivo cerca, a ritroso, «par quel détroit fatal/ Il est tombé dans cette geôle» (L’irrémédiable; è il tema del claustrum mobile dal poeta a più riprese rivisitato)10. La prigione appare insomma al potenziale condannato come l’immagine terrena della definitiva caduta nell’abisso conseguente al giudizio, e dunque come il suo paradossale momento di liberazione: in essa si attualizzano e si annullano quasi felicemente (e come estaticamente) tutte le possibilità sospese. Di qui, forse, la necessità interiore, da parte di Cassou, di una ‘infinita’ (e quasi cabalistica) modulazione del tema della prigionia nella forma-sonetto; esso è una forma di conoscenza, un’etica conforme e aderente al luogo intimo ed infero che vanifica e al contempo risolve le possibilità. Se la prigione, secondo la tesi del Brombert, è un «scandale qui fait rêver», è in questo contesto che merita di essere approfondito anche il connubioAragon-Cassou, a partire da quel che il prefatore scrive in merito all’amico sonettista in carcere.Aragon sottolinea infatti entusiasticamente l’aspetto più originale di questa condizione; ovvero il fatto di unire indissolubilmente la forma chiusa e la costrizione della «geôle», a testimonianza di come la forma sia (e Valéry è un altro punto di riferimento costante di Cassou) una modalità peculiare di rapportarsi allo spazio e all’oggetto.Ma ecco cheAragon, irretito nella dialettica positivista tra la libertà come libertà d’azione e la prigionia come condanna all’impotenza, riconosce al sonetto la marca negativa – e, ancora, con Kierkegaard, moralmente determinata – dell’abnegazione del corpo e dello spirito: d’ora in poi, egli nota infatti, «il sera presque impossible de ne pas voir dans le sonnet l’expression de la liberté contrainte, la forme même de la pensée prisonnière»11. Il carcere è, secondo certa ottica utilitaristica, il vitium, il male: «non serviam», come ricorda Bataille ne La littérature et le mal12. Anche nell’ideologia comunista e resistente (Sartre, Aragon) si cela infatti quel pregiudizio, tutto sommato borghese, che è la virtus dell’«engagement». E dunque se non è stato colto appieno da Aragon, come accadde, mutatis mutandis alla «terrible moralité» di Baudelaire, il valore intrinseco di queste novelle «fleurs du mal» in un’epoca storica altrettanto tormentata, appare ben più cosciente del proprio intento lo stesso autore, allorché, iniziato all’«alchimie de la douleur » che fu baudelairiana, afferma in uno dei suoi commenti ai testi di La Rose et le Vin: «Ma poétique est descendante, et son souci est de bien tomber. C’est-à-dire de trouver, pour leur arrivée sur terre, la meilleure forme sous laquelle les idées peuvent apparaître»13. Certo non mancano, pur nella loro trasfigurazione poetica, allusioni alla situazione storica ed individuale; ma si potrebbe richiamare allora in causa quella «intra-histoire» che Cassou aveva mutuato dal maître à penser della giovinezza, Miguel de Unamuno. Come ben ricorda la sua principale studiosa e curatrice di questa edizione, F. de Lussy, «Jean Cassou restera attaché, plus qu’on ne le croit, à ces formes de culture sous-jacente à l’histoire»14, alla ricerca del senso profondo e duraturo della vita e degli eventi. Molte delle più grandi opere letterarie della tradizione nazionale (di autori quali Hugo, Nerval, Baudelaire, Proust) non sono forse il frutto di una volontaria, preterintenzionale o involontaria segregazione? E meglio comprendiamo adesso perché questi sonetti – concepiti e conservati nella mente, dacché il prigioniero non disponeva di carta e penna – sono in larga parte (e in senso lato) riscritture ‘mnemoniche’15 dei più celebri e celebrati autori della storia letteraria francese ed europea; tributi a scrittori che hanno illustrato il loro Paese anche nei suoi «moments de détresse» e che, per riprendere ancora una volta l’assunto del giovane Starobinski, sono i latori di un’«expérience de valeur universelle, faite pour nous de cette nation». Lo stesso Jean Guéhenno, nel suo Journal des années noires (1940-1944) ricorda che le «immenses lectures» dei classici colmavano il vuoto che lo circondava16 e consentivano così di rispondere ad un interrogativo analogo a quello cheAdorno mutuava all’epoca da Hölderlin (A quoi bon encore des poètes en ces temps de détresse?). «Comment tenir journal du vide?», egli scriveva infatti il 23 dicembre del 1940. La risposta di Cassou a tale interrogativo di fondo è emblematica e, da una condizione personale di uomo e poeta, può estendersi ad un’intera nazione assediata e prigioniera dell’ideologia nazista: «Là où la volonté lui échappe, il se vante encore de sa présence»17. E dunque si avvicendano, in diverse variazioni, più o meno velati richiami al Nerval delle Chimères (sonetti VII, XVII e XXVIII), al Baudelaire dei Phares (sonetto V) e di Moesta et errabunda (sonetto XV)18; a Verlaine (con allusione al celebre testo composto dal poeta in carcere dopo l’attentato contro il compagno Rimbaud: Le ciel est, par-dessus le toit…, ma ben dissimulato attraverso il richiamo indiretto a Briques et tuiles, nel sonetto XXIV), a Mallarmé (sonetti XVI, XVII, XX) con particolare rinvio al già citato sonetto in – yx (sonetto XIX):
sur le scintillement des hymnes révélées: précurseur et disciple en toi s’aboliront, ô nuit de l’ombre blanche et du total reflet !
E, ancora, al Valéry della Jeune Parque – psicodramma della claustralità se mai ve ne furono – a mo’ di paradossale apertura (sonetto I). Ma vi si trovano anche allusioni a romanzieri, quali l’amato e difeso Hugo19, attraverso i personaggi insieme umili ed eroici dei Misérables (sonetto XXIII): la misera Fantine e sua figlia Cosette, cresciuta, alla morte della madre, dal più celebre ‘evaso’ della letteratura francese: il forzato e redento Jean Valjean. E infine Gavroche, il buon monello parigino che muore alzando il pugno e cantando una canzone rivoluzionaria:
une belle histoire où l’on dit: demain… Ah! Jaillisse enfin le matin de fête Où sur les fusils s’abattront les poings!
E non mancano i richiami (o addirittura la dedica, come è il caso del Tombeau d’Antonio Machado) ad autori stranieri:Milosz, Rilke. Di questa sovra- o infra-storicità dell’opera di Jean Cassou testimonia infine, e tanto più emblematicamente, il sonetto IX, che è la traduzione (e quale miglior risoluzione dei conflitti, della traduzione?) di un sonetto di H. von Hofmannsthal trovato per caso nel quotidiano tedesco pubblicato a Parigi Die Pariser Zeitung20. Afronte all’atteggiamento minoritario interpretato da Jean Cassou e che Apollinaire (pure cultore di ballate medievali ed evocatore di gotici paesaggi) avrebbe tacciato di «passéisme» (la forma chiusa non è forse l’espressione di un universo chiuso ed ordinato contro il quale merita sperimentare la deriva del pensiero attraverso forme aperte?), la maggioranza degli scrittori intese fare i conti con l’angoscia della libertà; e sarà l’epoca del «nouveau roman», o della poesia seguace del Coup de dés mallarmeano; o l’interpretazione infinita della «nouvelle critique » sino al decostruzionismo derridiano. Se Proust accettò la segregazione domestica per erigere quel Tempio all’Incompiuto che è la Recherche, della ‘deriva’ del romanzo curiosamente per primo testimonia, con i Fauxmonnayeurs (e il falsario è colui che sfugge al determinismo fiduciario imposto dalla società borghese) il Gide cultore di Stendhal. L’autore del Prométhée mal enchaîné (il titolo è già un programma di riscrittura aperta della mitica prigionia) colse nella libertà del romanzo l’equivalente di quella «bâtardise» che sola concedeva al soggetto incatenato dal determinismo parentale la libertà d’azione. E, alla maturità dell’anti-romanzo, un esempio tra tutti: La route des Flandres di Claude Simon (1960) dove la scrittura infinita racconta, come un’autobiografia metanarrativa, la fuga dalla prigione, nel 1940, del suo autore. Quali rispettive necessità autoriali traducono dunque la forma aperta e la forma chiusa, al di là della volontà di fuga o dell’accettazione della prigionia? Certamente, colui che adotta la forma aperta «accetta nelle forme – scrive Eco – quella stessa situazione di alienazione di cui vuole parlare: ma rendendola palese attraverso la struttura del suo discorso, la domina e ne rende cosciente lo spettatore». Viceversa, chi adotta la forma chiusa, è colui che «non può pronunciare il giudizio ponendosi al di fuori della situazione: quindi atteggia la situazione, riducendola a struttura formale, in modo che essa manifesti se stessa […]. Esce dall’alienazione estraniando nella struttura narrativa la situazione in cui si è alienato»21. Se, con Eco, «l’arte conosce il mondo attraverso le proprie strutture formative (che non sono il suo momento formalistico ma il suo vero momento di contenuto)»22 e la forma esprime la volontà più di ogni contenuto ideologico, i sonetti di Cassou rappresentano, piuttosto che una «pensée prisonnière», come volle Aragon, il trionfo stesso del pensiero e della presenza sulla prigionia del corpo. Ci basti ricordare un quasi-sonetto di chiare reminiscenze petrarchesche che figura in La Rose et le Vin (opera d’ispirazione alchemica, scritta ugualmente a Toulouse, patria dei «troubadours» e dedicata agli amici della prima Resistenza), Amour d’amour l’a prise dans ses lacs, dove l’ «amour sans fin», accanto alla «prison sans limite », appare l’unica risorsa contro il destino della Morte23. Così dunque l’amico Bousquet, che parimenti il destino di invalido di guerra ha accettato e trasfigurato facendo della sua prigionia nella «chambre aux volets clos» di Carcassonne l’occasione privilegiata di una densissima opera di ‘riscrittura’ di sé, si rivolge a Cassou in una letterainviatagli il 1° febbraio del 1943 presso il «Camp des prisonniers militaires» in Dordogna:
[…] cette époque jette une lueur rétrospective sur tes livres et y montre de la clairvoyance là où on ne voyait que de l’exquise fantaisie. [...]. Rien ne t’a arraché ton sourire. […] Est-il plus douloureux d’être la proie des hommes ou de tenir son supplice de l’absurde?24
Bousquet è anche l’implicito destinatario del sonetto XXVII25, nel cui incipit Cassou richiama significativamente il titolo di una delle prime opere dell’amico resistente: Il ne fait pas assez noir (Paris, 1932). Eccone la prima quartina, dove si evoca il raggio di sole che filtra dalle persiane chiuse, come il segno di uno spazio non del tutto refrattario alla luce dello spirito:
Ami, s’il ne fait pas assez noir dans ta nuit, c’est que, je ne sais où, ton beau château s’apprête à célébrer pour toi quelque étonnante fête dont un éclat déjà glisse jusqu’à ton lit.
NOTE
1 Jean Starobinski, La poésie et la guerre. Chroniques 1942-1944. Préface de l’auteur et postface de JérômeMeinoz, Genève, Zoé, 1999. 2 Jean Cassou, Trente-trois sonnets composés au secret. Préface d’Aragon. Edition présentée par Florence de Lussy, Paris, Gallimard, coll. «Poésie», 1995. 3 Ivi, p. 41. 4Victor Brombert, La prison romantique. Essai sur l’imaginaire. Paris, José Corti, 1974. Si veda, in particolare, il capitolo: «Stendhal et les ‘douceurs de la prison’». 5 Stendhal, Le Rouge et le Noir, Paris, Gallimard, 1972, p. 450. 6 Id., La chartreuse de Parme, Paris, Gallimard, 1972, p. 318. 7 Si veda, al proposito, il capitolo: «Sartre et le piège de la liberté », in V. Brombert, La prison romantique, cit. 8 S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia,Milano, BIT, 1995, p. 81, passim. 9 Ivi, p. 65. 10 Non è ignota a Baudelaire l’origine etimologica di «geôle», malgrado il suo significato corrente di «prison»: dal dim. tardo-latino di cavea, donde anche il fr. «cage» (it. «gabbia»). 11 L. Aragon, préface à Jean Cassou, Trente-trois sonnets composés au secret, cit., p. 32. 12 Secondo Bataille la letteratura non può essere impegnata: o è libera o non è. Come il demonio, essa dice: «je ne servirai pas». In ciò, egli conclude, si identifica, in un’ottica positivistica e moralistica, al «male». Merita ricordare la posizione ambigua del surrealismo, tra adesione al comunismo e all’ideologia rivoluzionaria e rifiuto della morale ‘edificante’ fondata sul lavoro; posizione che ha determinato l’allontanamento dalmovimento diAragon ed Éluard. 13 Jean Cassou, Commentaires ai testi di La Rose et le Vin, ed. cit., p. 159. 14 Florence de Lussy, prefazione ai Trent- trois sonnets, ed. cit., p. 11. 15Atale proposito Cassou evoca, nell’introduzione alla raccolta, una ragione pratica della scelta del sonetto, trattandosi di una forma che facilita l’apprendimento mnemonico: «cette forme stricte de prosodie me paraissant la mieux appropriée à un pareil exercice de composition purement cérébrale et de mémoire». Ed. cit., p. 41. 16 J. Guéhenno, Journal des années noires, 1940-1944, Paris, Gallimard, 2003, p. 208. 17 J. Cassou, commento introduttivo a La Rose et le Vin, ed. cit., p. 137. 18 Cassou cita Baudelaire come uno dei suoi autori di riferimento in uno dei Commentaires a La Rose et le Vin, ed. cit., p. 141. 19 Si veda, al proposito, il Commentaire introduttivo a La Rose et le Vin, ed. cit., p. 141. 20 Una nota a piè di pagina dell’autore specifica: «toute lecture était interdite aux prisonniers. Un jour, pourtant, un fragment de la Pariser Zeitung me tomba sous la main.Mon compagnon de cellule et moi nous dévorâmes la feuille infâme: c’était tout de même quelque chose à lire. J’eus la joie d’y retrouver un sonnet de Hofmannsthal: Die Beiden, célèbre pièce d’anthologie qui m’avait toujours charmé et que, au cours d’une nuit d’insomnie, je m’efforçai d’adapter à notre langue». Ed. cit., p. 53. 21 U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano, Bompiani, 1962, pp. 276-277. 22 Ibid., p. 270. Più avanti Eco scrive: «Per dominare questa materia è stato necessario che l’artista la ‘capisse’: se l’ha capita non può esserne rimasto prigioniero, qualsiasi sia il giudizio che ha espresso su di essa.Anche se l’ha accettata senza riserve, l’ha accettata dopo averla vista in tutta la richezza delle sue implicazioni, così da individuarne, sia pure non aborrendone, le direzioni che a noi possono apparire negative». Ibid., pp. 287-288. 23 «Amour d’amour l’a prise dans ses lacs,/Amour sans fin d’amour la sollicite,/Chute sans fond et prison sans limite, /deuil sans raison et peine sans soulas./Il n’est soleil ni lune à sa journée/rien ne peut plus faire objet à ses pas/ni ne peut mort être sa destinée». J. Cassou, La Rose et le Vin, ed. cit., p. 94. 24 Ibid., p.124. 25 Joë Bousquet, Lettres à Jean Cassou. Réunies et présentées par Jean Cassou. Suivies d’un sonnet de Jean Cassou, Limoges, Rougerie, 1971. Il sonetto (XXVII), citato a p. 155, è quello che Cassou ha dedicato a Bousquet, e che Cassou stesso inserisce nel carteggio, essendo stato menzionato nell’ultima lettera di Bousquet.A tale dedica tuttavia non fanno riferimento, nell’edizione citata, né il suo autore, néAragon, né la curatrice. Vi è almeno un altro sonetto che allude, ci sembra, al destino di Bousquet, il XXXI.
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