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Semicerchio XXXVII (2007/02) La forma chiusa. Poesia dal carcere. pp.41-54

 

di Francesca Latini

 


Mi veniva naturale opporre una qualche resistenza ad ammettere un cambio di stagione: lo spogliarsi da un abbiglio poetico tanto esclusivo quanto così stretto alla persona, da fare un tutt’uno con questa, a rischio di costituirne un’ustoria camicia di Nesso, da cui ricevere scudo alla propria nudità e morte insieme. Sotto l’urgenza di un lutto non si muta di necessità il canto. La via più ardua che ci aspetteremmo intraprendesse un artifex è quella di convertirlo in pianto, notturno gemito, «soave», sì, «com’ombra», e tuttavia eseguito in obbedienza a un modus tanto a fatica e con orgoglio ‘trovato’ da non poter permettersene l’abbandono.
Qualche perplessità mi aveva insomma suscitato il licenziare Requiem di Patrizia Valduga, quale opera nata da un prepotente bisogno di testimonianza al compiersi di una vicenda familiare: la morte del padre; tralignamento, nei confronti della precedente, distintiva condotta poetica, più che meditato, indotto dall’improrogabilità di un vivido dolore; schietto ed inatteso. «Una volta ceduto appieno alla ‘tentazione’ citazionista – sino al ludibrio, alla spudoratezza – la parola di Valduga si trova forzata a piegare in altra direzione. Punto di svolta, più che nel gran teatro barocco di Donna di dolori con tutti i suoi tòpoi macabri e compiaciutamente horror [...] si ravviserà nelle ottave ‘nude’ (così diverse, cioè, da quelle tassiane e mariniane di Medicamenta) di Requiem. Poesia con dolore avvinta ai filamenti di un lutto reale, non vi funziona più, evidentemente, la macchina citazionale degli esordi: “non direi più che la scommessa della Valduga sia di comunicarci il più duro messaggio esistenziale servendosi di materiali di riporto,
come chi sa che tutto è stato detto ma pure non è stata cancellata la nostra condanna a dire e a dirsi. Questa non è una barocca rappresentazione quaresimale. È la morte di un uomo commentata da un cantastorie che con la sua canna tocca, una per una, le stazioni del tabellone. La vera invenzione della suite è il suo linguaggio popolare, che è solo un registro compositivo e non una maceria di antiche cattedrali”»1. Se di una nuova nuda essenzialità mi apparivano avvolte le ottave del poemetto in fieri (costituito da una prima parte ‘in vita’ – seppur estrema – del padre, poi andatosi ad ampliare con una serie di ‘anniversari’, ottave vergate ad annuale ricordo dell’evento), alla lettura mi si erano palesati, in tutta la loro evidenza, vari richiami a un modello tanto amato quanto comprensibilmente qui eletto a guida unica: il Pascoli di simili trenodie familiari, concepite tanto come teatrali, danteschi conversari con le ombre (quello del Giorno dei morti, o del «Ritorno a SanMauro»), quanto, talvolta, come liriche diaristiche alla maniera di Petrarca (nume inchinato non solo nell’idea strutturale, ma anche – dettaglio non indifferente per l’'antipretrarchista' Pascoli – nella lingua medesima, quello appunto dei tre sonetti myricei che vanno sotto l’identico titolo di Anniversario e dei cinque capitoli di Colloquio, composti per doppia – triplice sarebbe più opportuno dire – occasione: in ricordo della dipartita materna e a commemorazione della propria nascita;ma pure in concomitanza con la più solenne festività cristiana del Natale; a generare una dolente e lividamistura di rimpianti e di rimorsi, timbro esclusivo della
musa pascoliana).
La medesima perentorietà di alcune affermazioni – «Non credo nell’indicibile. La lingua è piú ricca di qualsiasi intuizione, di qualsiasi immaginazione»2 – avverse al concetto antico, rielaborato poi in chiave novecentesca, dell’ineffabilità, coesistenti con tante pagine liriche in cui si conoscono amarimomenti di sconforto (non taciuti,ma questi medesimi fatti oggetto di dichiarazioni metapoetiche), mi appariva quale indizio di una non facile resa al silenzio, o di un temporaneo abbandono alla sola scabra registrazione, in lingua immediata e popolare, del lutto. Simili parole di arrendevolezza: «amor non muta e muta mi trascino», gridate invocando nientemeno che l’aiuto dell’Altissimo3 – comunque manifesto rimettersi ad archetipi sublimi (Dante e Petrarca) già proclamanti la propria insufficienza a dire4 – vengono infatti puntualmente smentite altrove da fiere dichiarazioni sul potere affabulante della poesia, giacché «Sa sedurre la carne la parola»; e, se «muta» tornerà a essere la «mente» di Requiem, sarà comunque dotata, a compensazione di tale perdita, di una distinta e ‘chiara’ vista cartesiana. Tanta fiducia si spiega in fondo in ragione di quella pratica così magistralmente esercitata – carpire a piene mani dai modelli prediletti non solo motivi, ma locuzioni, pronte a essere assimilate, alluse, o addirittura riproposte in forma di centone – che garantisce un’inesauribile fonte di stimoli al poeta: «Sí, rubo. Perché mi è stato insegnato che i piccoli imitano e i grandi rubano. Preferisco imitare i grandi piuttosto che i piccoli»5, savia rapina di «parole “nove sempre et antiche”, come i cani del vecchio D’Annunzio, per dire sempre e soltanto la stessa cosa»6. Rintracciati dunque in Requiem i vari e confessi richiami al Pascoli del dolore domestico, quello medesimo che non solo diviene a un certo punto maestro di stile, ma dà coraggio a esternare ogni più intimo sentimento7, compresane la funzione primaria di exemplum nel poemetto e chiestami anche le ragioni singole di ogni rimando all’interno di questo, mi è piaciuto rileggere tutte le raccolte, alla ricerca dei tanti, sempre palesi lacerti pascoliani; elenco, spero, non fine a se stesso, ma indagine su una presenza pressoché costante, e tuttavia tra le più accorte, nell’opera della Valduga.
Pur procedendo in ordine cronologico8, ho comunque riservato a Requiem, alfa ed omega della quête, condotta a orecchio (quanti i richiami sfuggitimi, quante le false percezioni, suscitate da un’ipersensibilità per eccessiva pratica)9 le riflessioni ultime.

 

1. Preludio in si minore: «Medicamenta»

 

L’attacco non potrebbe esser più in sordina, impercettibile «rumore» «sotto d’un lenzuolo» che saviamente non dovrei additare quale esplicita eco pascoliana. Pure, la valenza sillabica di cui viene investita l’onomatopea, oscuro pispillio d’amanti nelle «Notti incolori» di Medicamenta il riferimento è all’incipit «Dormiva. Ps... ps... Cristo santo, senti» – trova in Pascoli l’auctoritas più importante, che legittima e disciplina il vezzo prosodico, comune tanto alla poesia italiana quanto ai Carmina. E che le virginali voci delle cose per la prima volta non descritte ma traslate in versi dal Pascoli, uomo escluso da simili felicità nuove, vengano qui a costituire l’archetipo nascosto di carnali sussurri in una «notte che s’incrina coi suoi scricchi / e cigolii, coi suoi fruscii impudichi»10, non deve stupire, data l’affine natura materica e misterica dei segni di umana o altra presenza, in preda all’inquietudine dei sensi, in testi quali Un rumore..., 7 (Myricae), L’uccellino del freddo, 7,14, 21, 28, 35, 42 (Canti di Castelvecchio), L’albergo, 32 (Primi poemetti), Fanum Vacunae, VII, 15 (Carmina) ecc.. È solo dunque dai «fru fru tra le fratte», richiami oscuri da un mondo nascosto, che prende avvio l’ambiguo gioco di captare ed annotare lo stropiccio più fievole di peste, il più sommesso battito d’ale; vere unità prosodiche, anche nel caso di fremiti fugaci, costituiti di sole consonanti.
Diverso il caso del recupero di un topos che da solo basta a evocare uno dei testi più celebri delle Myricae, il X Agosto. «Bell’estinzione di sere d’agosto, / insalpabili, e cadimento vasto / di stelle [...]» (1-3). Tanto è dichiarato il noto motivo della caduta siderea, quanto non affatto pascoliana è la lingua in cui si descrive il fenomeno, ricorrendo a un nitore espressivo tutto nominale, un succedersi di termini assoluti («estinzione», «cadimento»), trasposizione in lingua avanguardistica11 di analogo, serrato e spoglio lessico lucreziano (il Lucrezio comunque ammiccato dallo stesso poeta nella myrica, in quel breve, aspro accenno all’indifferenza di un «cielo lontano» ed incurante delle sciagure umane, nel mentre che, in un’opposta consolatoria ottica popolare, è visto riversare sulla terra il suo commosso, ciclico pianto agostano)12.

 

2. «je ne veux pas y penser»: «La tentazione»

 

La svolta sopraggiunge con La tentazione, «mille versi in terza rima per raccontare la metamorfosi di una sopraffazione erotica in un’esperienza o visione iniziatica», poemetto che se per il suo carattere allucinatorio-infernale non può che aprirsi e procedere all’insegna della catabasi dantesca, per la sua altrettanto manifesta natura onirica si ricollega sia al Dante di un episodio quale il sogno della balba incantatrice che medusa il pellegrino13, sia al Pascoli che sceneggia i propri immaginari colloqui coi morti, rifacendosi a certi elementi drammatici della Commedia. Vittima di lussuriosi demoni che ne dilaccano le carni, supplizio che va oltre le pene inflitte dai carcerieri degli inferi ai prigionieri eterni, poiché offesa prettamente sessuale inferta alla dannata, la protagonista della visione da lei medesima contemplata in sogno, è come attratta – ella, sirena dismagata, non dismagante – da tanta turbinosa lascivia, ‘tentazione’ a cui si finisce per cedere coi sensi di una voluttà piena, in trionfo sulla volontà. Ad ammenda dell’errore, dapprima si interpella il proprio organo sommo, risollevato dalla volgare condizione di «vil muscolo» e riportato sugli altari della tradizione stilnovistica: il cuore (il ragionamento si apre sul tema dell’effimera brer vità della vita)14.Ma da tale primo interloquire con la sede eletta degli spiriti, poi il discorso si trasforma in colloquio
con l’amato (in corsivo le repliche dell’altro), recitativo che vede la donna-anima addossare al suo ‘signore’ l’originale colpa di un’assenza, che l’ha indotta al peccato, «per troppo di vigore», là dove questo, assumendo la difesa dell’‘animale’ corporeo, le risponde sciorinando materialistiche argomentazioni proprie di chi non vede che sola vanità nel mondo, non più disposto, egli, sineddotico cuore in figura d’amato, a credere e a comprendere le ragioni del cuore. Ciò da cui dunque la donna riceve maggior oltraggio è questo «vuoto infinito» «che offende», ingiuria affine all’indomita intensità amorosa dei «peccator carnali» di Inf., V, 102, illusione che nel sogno assume le false sembianze di larve ingannatrici, che all’alba scompaiono solo per essere supplite da ombre reali: «Questo è il mio schifo, il mio dover tra breve // tirarmi su, venir dove voi siete, / vere ombre e fantasmi e larve vere» (I, 96-8), eguali ai simulacri degli incubi notturni, quelli descritti con parole
tutte pascoliane: «Tra nudi spettri e vane ombre e niente» (II, 99), esplicita citazione dalla myrica I due fuchi, 5: «Tra le ombre vane, tra gli spettri nudi», verso poi ripetuto nel poemetto, secondo altra variazione (cfr. IV, 17).
Duplice l’ala pertanto sotto cui trova ricovero La tentazione; la prima medesima terzina rileva la doppia dipendenza: «In questa maledetta notte oscura / con una
tentazione fui assalita / che ancora in cuore la vergogna dura» (I, 1-3), sì il Dante del proemiale smarrimento nell’amara selva della perdizione15, sì il poeta del cerchio secondo, là dove si scontano le colpe di soverchia brama16 (l’ultimo verso sembra rielaborare il motivo già ricordato, e altrove più esplicitamente alluso, dell’offesa arrecata dal ratto apprendersi d’amore), ma anche il Pascoli che già adotta una clausola quale «notte oscura», dimensione oltremondana dei defunti e condizione stessa dei vivi inconsolabili, ricorrente in un poemetto come Il giorno dei morti, 43, 164 (Myricae)17, allucinato parlamento tra le ombre dei propri cari, non ancor sazi di vita, non ancor paghi di luce.
Quanto è temuta questa «notte oscura» dalla donnaanima tremante, contro il cui «buio invano s’affatica», tanto è cercata dalla parte animale18; capovolta, virgiliana dira cupido, come quella che connota gli inquieti salvati pascoliani della visionaria myrica: inversamente all’infinita voglia del «dolce mondo» provata dai defunti, ardentemente anelano all’eterno i sopravvissuti («hanno pensato, invidïando ai morti», 200); tale il desiderio nutrito dall’alter corporale: «Oh beati, voi morti e sotterrati, / immuni dalle gioie e dalle pene, / dall’orrore di amori simulati» (III, 25-7).
L’alterco procede sul lamento della donna, che, relegata nelle tenebre dei sensi, si duole di aver dovuto assistere al tramonto dell’eterno ritorno d’amore: «Ti ho veduta morire, primavera» (III, 51); la rintuzza la parte animale con sferzante motteggio: anche da questo doloroso atto di testimonianza la donna sembra trarre motivo di vanto (e canto, insieme); faccia allora un nome in seguito all’accusa, altrimenti «O l’ombra della carne o il suo veleno / per reliquie di schiume o umori densi // di nere trame segni quel sereno / e coi chiodi nel cuore ti conduca» (III,
55-8). Su una maledizione si arrocca insomma la risposta dell’amato (replica virile al piato femminino), alzata sì di voce, che tuttavia trova un riscatto dalla sua furia verbale per mezzo dell’arguta eco pascoliana: che la tanto sospirata primavera porti, «come ella è morta» ad «aperto segno», gli indizi che già avevano nella myrica Novembre disvelato l’inganno stagionale19; quelle nere trame, che, segnando l’opalina serenità dell’estate dei morti ne avevano rivelato la fallacia, solchino in breve l’altrettanto illusorio ricordo di una primavera che mai fu tale, autunno anch’esso menzognero, e se ne meni da questa presa di coscienza il cuore
non più gabbato da «odorini amari», ma crocifisso dai chiodi di una passione consapevole.
Non è casuale allora che la donna, irriducibile nel benedire il giorno in cui fu punta da amore e nel respingere l’imprecazione dell’amato, gli dichiari come perpetuamente si consacrò a quell’attimo fatale con la medesima formula di paradosso che la vittima per eccellenza del Giorno dei morti, il padre assassinato, impiega a ricordare il voto di infinito affetto riservato ai figli nell’istante fulmineo
della morte (quasi che eros e thanatos, inaspettati accidenti, strappassero simili precipitose e risolute promesse): «Quel giorno che ora muore negli stagni // per
un’intera eternità l’amai» (IV, 15-16), «O figli, figli! vi vedessi io mai! / io vorrei dirvi che in quel solo istante / per un’intera eternità v’amai» (73-5); eterna fedeltà d’amore che allora non sembrò temere la vanità del mondo, «senza ombre vane, senza spettri nudi» (IV,17), ancorché al tempo la donna sapesse come «per sempre vuol dire morire», quantunque oggi l’amato le riservi, crudele, solo un misero «pugno di giorni» (IV, 18). Ma come credere agli amorosi detti, se proferiti da chi ha «guardato sempre con timore / anche la vita, come da un balcone?» (IV, 26-7); abbia almeno, adesso, la sedicente amante, il coraggio di affissare lo sguardo su questo mulinio di morte larve, ella, inerte spettatrice del mondo, non esempio di esuberanza vitale, ella così difforme dalla gagliarda creatura generata,
giusta il mito virgiliano20, da una forza soprannaturale di eros, figlia del vento e di polledra in foia: così si spiega la formula d’augurio dell’amato, caduta subito nel vuoto: «Se ti sentissi ai fianchi l’uragano» (IV, 21), chiara allusione alla selvaggia protagonista del celebre canto La cavalla storna, 17: «Tu che ti senti ai fianchi l’uragano»21.
«No, dico no, perché questo è un errore, / e i morti d’ora non son piú che morti, / dunque ti prego non voltarti amore» (IV, 28-30). Netto il rifiuto – seppur non ci è si
sporti in braccio alla vita – di votarsi del tutto anche alla morte (la mesta osservazione sulla vacuità dei trapassati è altro reperto dissepolto – ma nel contempo ben mimetizzato in questa affabulante malsania di femmina ferita –
nientemeno che da un’ode a carattere civile, Gli eroi del Sempione, 59: «ma i morti d’ora non son più che morti»), dimensione oscura che attira l’uomo, lo tenta come uno sventurato Orfeo a volgersi indietro, incarcerando così in eterno la misera Euridice. Ribaltati i ruoli, assunta dalla donna la difesa di più giudiziose ragioni (come talvolta accade nei dissennati colloqui fra vivi e morti pascoliani, allorché
le ombre finiscono per propugnare la causa della vita, di contro alle puerili attrattive dei superstiti per il mondo dei defunti), non vi è modo neppure di dar credito alle altisonanti dichiarazioni dell’amato, che con formula profetica (quelle che rimbombano nei vuoti spazi astrali di un canto come Il ciocco22) promette alla donna un futuro riscatto dalle tenebre: «oh, sarà tempo che di là da quella /
mia sola notte che scavo e accoltello // alla fine io smuri
questa cella» (IV, 44-6)23. No, non ci sta la sirena a farsi affatturare dal fascino del nulla; la notte, la bella notte cantata dall’amato ad attacco del terzo capitolo, è inesorabilmente marchiata a fuoco, con parole che ne dicono l’unica vera natura maligna: essa è la morte, che «passa con ali molli come fiato... » (IV, 52), esiziale rapace che indistintamente apporta rovina; manifesta ancora una volta la citazione dalla myrica La civetta, 22: «passi con ali molli come fiato».
Col quinto capitolo la donna torna a dire le laudi del benedetto «primo dolce affanno», discorrendo di nuovo col cuore: «Oh il giorno che tu cuore maledici, / quel giorno venne a me come un guerriero / e fu una pioggia per le mie radici» (I, 1-3), così che all’incredula obiezione della parte animale: «Credi davvero? / Potresti uscire e gridarlo dai tetti!» (IV, 4-5) – irridente lama a doppio taglio, in quanto oltre a ribadire la vocazione istrionica della donna ne verga il rapido ritratto sotto le spoglie di Allecto24, furia che, ai primi presagi di battaglia (all’appressarsi
dell’arciere antico), chiama ella stessa a guerra le sue forze – questa ribatte con le parole di cieco veggente, colui che privato della vista esteriore possiede una capacità divinatoria preclusa al volgo: «Io vidi in sogno che vedevo il vero» (V, 6), verso direttamente carpito, con minimo ritocco, al Pascoli del Cieco (Primi poemetti): «vedevo in sogno che vedevo il vero» (II, 6).Ma l’appello dell’amante
prosegue; secondo canone medievale, la donna si rivolge ancora al reggitore degli spiriti, al cuore, perché rechi ambasciata all’amato assente: «Digli che fugge il sangue alle tue vene» (XI, 15), rituale tutto stilnovistico, sotto cui si cela, tuttavia, altra eco pascoliana. Il messaggio che proprio il dissanguato organo infranto deve consegnare all’uomo fu infatti un tempo rimesso alla fede di compagno d’armi da un morente, oscuro personaggio (non più che un nome nel poema omerico) dal Pascoli posto al di sotto di un esclusivo fascio di luce, a consegnargli un attimo di gloria propria nel conviviale Anticlo. Così l’acheo lontano
dalla sua cara sposa si rivolgeva a Lèito: «Digli che fugge alle mie vene il sangue» (V, 10), chiedendo al guerriero un’ultima grazia, di riudire la voce della moglie distante ascoltando parlare l’ingannevole Elena. Nell’idea che sostanzia il conviviale (il tema del trionfo dell’immaginazione sul vero), le ragioni accorte di tale recupero da parte della Valduga: non si tratta semplicemente di trovare la citazione ad hoc, ma piuttosto di giocare l’ultima carta tramite questa implorante supplica. Dopo l’assiomatica affermazione tratta dal Cieco, si arremba su posizioni più cedevoli; si toccano i tasti della pietà, mostrando un ‘sacro cuore’ stilettato a morte; s’invoca umile attenzione; ci si dichiara velatamente disposte a farsi persuadere da eidola
fallaci anziché accettare un’assenza amara; si dice infine la propria volontà di inabissarsi nell’estasi illusoria, così come lo stessoAnticlo finiva per non voler riudire da Elena i finti accenti della voce della sposa, ma se ne andava all’Ade perdendosi felice nella visione ultima della sovrana argiva. Sul motivo della lontananza dell’uomo scattano dunque anche i richiami ad altri due testi pascoliani, entrambi
dedicati al tema dell’assenza, distanza spaziale e temporale insieme, quella di un padre che mai giunse a salutare i figli lontani nel collegio d’Urbino, e quella di una
gioiosa infanzia doppiamente perduta (tempo ormai scorso e «stagion lieta» crudelmente spezzata dal lutto). Espliciti anche in questo caso i richiami al Ritratto (Canti di Castelvecchio),80: «sì, ma come, ma quanto era lontano!»(«Sí, ma come, ma quanto era lontano!», V, 18) e a Campane a sera (Myricae), 22: «da così strana e cupa lontananza» («Da così strana e cupa lontananza», V, 19).
Assente in vita, l’amato giunge comunque in sogno (così come veniva al pellegrino l’incantevole balba sirena) ai primi chiarori (visione che per l’ora mattutina dovrebbe
essere, secondo tradizione, latrice di segni veridici, ma che, proprio per antitesi, risulta larva fugace e chimerica; vagellante, lunatico capriccio, destinato ad abbuiare anche l’alba più certa). Dichiarata nuovamente, seppure antifrastica
negli intenti, la citazione pascoliana. Postosi sulle lievi tracce di altro visiting angel, all’alba il simulacro amoroso torna a manifestarsi come già aveva fatto Rosa, la reginella dei Poemetti, che cheta cheta in un capitolo della «Fiorita» (Nuovi poemetti) si appressava per conforto all’anima invasa dal sonno del delirante innamorato Rigo. In questi stessi termini si esprime infatti il giovane, svelando
alla fanciulla la sua nascosta passione e confidandole come il continuo suo cruccio notturno venga interrotto dalla rasserenante apparizione dell’amata. Se nella chiusa della Cinciallegra, punto mediano del georgico romanzo, tale dichiarazione segna la svolta positiva della storia amorosa dei due giovani contadini – «– Sei tu che vieni a me tutte le aurore? / Sei tu che torni a me tutte le sere? // Fa, quando s’apre, un fiore più rumore... –»25 (III, 5-7), con defilato gesto d’accenno nella Tentazione – «Sei tu che vieni a me tutte le aurore / oscurandomi il chiaro per
magia? / Fa un fiore, quando s’apre, piú rumore... » (V, 28-30) – narra al contrario una suprema vanità d’affetti. Figlio illusorio dell’amorosa mente della donna, questo
bocciolo nato senza fusto, rampollato dal nulla e al nulla destinato. Più discreta si fa, allora, l’eco pascoliana, ma non meno importante, col verso d’attacco della successiva terzina: «O caro fiore dell’anima mia» (V, 31), il rimando è all’onirica e vana fantasia della dormeuse di un canto sensuale, Il sogno della vergine, fanciulla in fiore visitata da un estatico inganno erotico, che raggiunge l’acme nell’immaginazione di un’evanescente nascita, lieve corolla schiusasi all’alba e all’alba sfiorita in un istante26.
Torna di nuovo l’uomo a pizzicare la corda della cupa voluttà, sola, a suo dire, dimensione di piacere concessa ai due amanti; così che quanto la donna lo implora di sottrarla alle spire del dannato incubo di morte («giura che ai morti mi porterai via», V, 33), tanto l’amato le propone, a sfida, di consumare i loro amplessi nel sepolcrale tepore di un avello: «Vieni con me nella piú calda tomba» (V, 70), macabro topos che invano cercheremmo anche nel Pascoli più dedito a simili fantasie cimiteriali; dal momento che non di motivo pascoliano si tratta, bensì di tema caro a certa poesia ottocentesca, proprio da Pascoli affrancata dalle sue
grevi e lugubri zimarre, per essere rivestita di un più leggero abito operistico. Mi riferisco a certe fosche rêveries poste in scena da Aleardi, Guerrini, Prati, risollevate a un tono di falsetto heiniano in un capitolo del «Ritorno a SanMauro»
come La tessitrice, i cui ultimi cantabili versi suonano e dicono, nella lingua del melodramma più popolare, di un futuro ‘felice’ ricongiungimento della coppia, divisa da sorti avverse, nel mondo di là: «in questa tela, sotto il cipresso, / accanto alfine ti dormirò. –» (24-5), bizzarra e tenue romanza da ‘sonnambula’, rifatta sulle funeree note di poemetti e liriche quali L’immortalità dell’anima, 39-41: «[...]
E noi, Maria, / arriveremo, e soli in appartata / arca, e abbracciati poserem nel sonno»; Postuma, XX, 27-8: «Ci sposeremo nella tomba. Vieni: / vi marciremo insieme» e L’ultimo sogno, 31-2: «corcati, o cara, ché il tempo è giunto: / nelle tue braccia voglio sognar», 39-40: «con te la fossa, mia bella dama, / letto di fiori mi sembrerà»27.
Col sesto capitolo la donna si risveglia dal suo lungo sonno, riemergendo alla luce, alla piena coscienza del giorno. Eppure, anche con la fine dell’incubo notturno, non
si interrompono i martiri e con essi il frenetico delirio; l’attacco ricrea un’allucinata atmosfera del reale, a confermare la vanità dell’avvicendarsi del dì alle tenebre, giorno non più sereno della più cupa notte: «Aquesto punto mi destai e guardai; / cielo e non altro, cielo alto e profondo» (VI, 1-2). Quell’assoluto senso di vertigine che si ricava alla vista consegnata ai quattro punti cardinali contraccambia l’eguale sensazione di smarrimento cosmico provata tanto da un uomo avvinto da simili terrifiche morgane, vagheggiate durante una sosta compiaciuta, a guardare da un angolo riposto la scena struggente della propria morte (il tutto sotto una volta stellata lontana, ma sola unica entità superna sopra la terra addormentata), quanto dagli esuli costretti a un abbandono forzato della propria patria. La serrata formula che eclissa nel suo breve giro l’idea medesima di un mondo tolemaico, «cielo e non altro», che sembra inoltre figurarci illimitati spazi azzurri, privi di approdo alcuno (sulla falsariga di un dantesco ultimo viaggio ulissiaco) discende sì dal Bolide, visionario capitolo di quell’onirica visitazione al paese dell’anima e alle perdute ombre dei cari che è «Il ritorno a San Mauro»: «Cielo, e non altro [...]» (46), ma anche, per intero, «Cielo, e non altro, cielo alto e profondo», dal poemetto dei miseri raminghi, da Italy (c. II, XIII, 1), denuncia in versi di un’infelice
condizione sociale che è altresì simbolica proiezione dell’errabonda umana natura.
L’isola a cui, destandosi, si attracca, desertica landa del reale, il migliore dei mondi possibili, porta le tracce di una sciagura appena consumata: calamità che ha colpito, senza discernere, nel mucchio, risparmiando, anzi, rovina all’essere più morto. Svegliatasi, la donna si ritrova a vivere in quella assurda e immeritata condizione in cui lo scampato prigioniero della Martinica si desta all’alba del suo giorno fatale. Ben due richiami al Negro di Saint-Pierre, ode che narra un singolare caso di cronaca, pretesto per meditabonde dissertazioni sul leopardiano motivo della Ginestra, attestano quel sentimento di inadeguatezza alla vita patito dalla donna a ogni levata del sole: ella, più esanime di tutti, si ritrova ogni mattina unico essere che fiata sopra un pianeta desolato, fossa richiusa avanti l’ora su una sepolta viva, strisciante creatura in odio a se medesima: «unico verme di un sepolcro chiuso» (VI, 96), ove ignito è il solo indizio di un’esistenza trascorsa: «Non v’era sangue se non arso, in grumi» (VI, 15)28.
Ultimi cupi rintocchi, gli echi provenienti dall’ode, si intrecciano con altri pochi ma icastici richiami all’amato poeta, parimenti attratto non tanto dal macabro apparato
della morte, bensì da un’insensata brama per l’immutabilità del mondo eterno, foss’anche quella di un perpetuo spasimo.Attonita per la sua folle, notturna, attrazione, nel sesto capitolo, monologo esclusivo della donna, questa si chiede come ha potuto militare «sotto le insegne / della morte» (VI, 73-4). Segue, immediata, una calzante citazione dal Vischio: «[...] perché alzai bandiere / e spiegai vele sopra onde indegne? // come le foglie nate per cadere?» (VI, 74-6). Di nuovo, del lacerto pascoliano, non si fa supino profitto: si tratta di argomentare da quanto asserito nel poemetto altro pensiero. Come in Pascoli l’immagine sta a significare quell’ecumenica condizione umana, comparata a partire da Omero con l’effimero destino delle foglie29, ossia la natura comunque caduca dei mortali – «quella; cui non avrebbe la tempesta // tolto che foglie, nate per cadere» (III, 12-3) –, così nella Tentazione diviene colpa esclusiva e volontaria di chi ha anteposto sogno a realtà, e morte a vita, non sapendo schivarne le subdole lusinghe.
Abbandonato pure dagli alati, «E gli uccelli del cielo eran scomparsi» (VI, 18), questo orbe vuoto sulle sue superfici conosce, nelle intime latebre, tutto un mondo, fatto di grotte e di spelonche oscure, bui covili di un’umanità svilita, ridotta ormai a uno stato ferino: «E i cuori umani tacevano tutti / e dentro le caligini notturne // ombre venivano, un gregge di lutti / ombre, nere ombre, nere umide e
vive, / più larghe, mare, dei tuoi larghi flutti, / e subito posavano alle rive» (VI, 29-34). Degna di chiosa la rielaborazione di un motivo pascoliano (di un Pascoli che si interroga sul quesito centrale della Ginestra, come appunto nel Negro di Saint Pierre, ma anche nell’ode ‘gemella’, Nel carcere di Ginevra): la vanità dell’umano consorzio, effigiata per mezzo di tropi individuabili tutti in testi pascoliani: ottusa, errante greggia leopardiana, moto continuo a riva di onde che qui si esauriscono, ombre di ombre fatte della sola materia del pianto. Penso a una duplice immagine
quale quella della chiusa di Nel carcere di Ginevra,III-IX, là dove dalla visuale dantesca di Par., XXII, 151 e sgg.30 la terra è vista brulicare di umili ombre raminghe quali onde: «[...] Vidi un formicolìo nero / di piccole ombre erranti per le dune, / e ne saliva dentro il cielo austero // un grido d’infelicità comune» «[...] Che se c’è chi sale / e chi discende in questo fiottar lieve, / l’acqua ritorna, con la
morte, uguale» (VIII, 7-10 e IX, 4-6), alla conforme doppia immagine di un poemetto come Il naufrago, II, 10: «Siamo onde, onda che canta, onda che geme... », IV 1-2: «Noi siamo quello che sei tu: non siamo. / L’ombre del moto siamo [...]», penso a un minimo particolare di altro inno sorretto da affine pensiero, Pace!, II, 33-4: «[...] In cammino / per la caligine sola».Ancor più degno di rilievo
il fatto che questo soggetto pascoliano venga a incontrarsi con una manifesta memoria di Sereni, un raro edenico Sereni, riproposto in veste negra, giacché le sue incantate frescure di Giardini, 1: «Ombra verde ombra, verde-umida e viva»31, si velano adesso della mestizia propria delle ombre pascoliane, esse, pindariche sagome di effimeri, a dire la brevità del tempo concesso all’uomo sulla terra, a dire
l’inanità sua, assoluta.
Quanto al silenzio smarrito in cui posano tutti i «cuori umani», è supplizio esperito (ma nel contempo superato) anche dalla donna, costretta adesso a un mesto assolo (subentrato all’acceso colloquio col riverito signore, e pur posto sotto giudizio), tratto tangibile di uno stato di abbandono che offende nell’orgoglio femminino la donna ricusata; la quale tuttavia non tace. Tra tenebre invitte, si
finisce per rassegnarsi a ciò che mai si sarebbe potuto «un tempo assai lunge, non ora» accettare, poiché l’eterna negritudine del male ha sopraffatto il giorno: «Ciò che avrei rifiutato di toccare / è adesso il mio cibo nauseante; / le ore eterne eternamente amare // anneriscon le cose tutte quante, / scorrono i miei giorni come spola / ma non viene piú luce da levante» (VI, 85-90). Se nel simbolico tramonto del momento, si riconoscono ancora una volta i segni del visionario vespro del Bolide, là dove di un tratto lunghe ombre cadevano sul suolo di Romagna ad abbrunare un sogno di riscatto, «Tutto annerò [...]» (1)32, nell’accorato lamento da bianca vedovanza, «E adesso non ho nulla e parlo sola» (VI, 91), mi piace presupporre, anche per chiudere l’analisi della Tentazione rilevando l’acutezza
di certa arte allusiva, un ultimo esile eppur nodale richiamo a Pascoli, al conturbato lettore di antichi e sempre nuovi piati femminili. Fine arte che consola e che supplisce a un affetto manchevole – «Voglio semplicemente le parole. / Sono loro il mio solo grande amore»33 – anche la poesia conosce adesso un’esclusiva dimensione individuale; non tuttavia la resa al silenzio. Non escluderei insomma che la Valduga, attenta e sottile lettrice di Pascoli, in questa rapida descrizione verghi di sé non tanto un ritratto sotto le vesti misere di quella «bianca figlia» dolorosa dello Stornello, priva di alcun sostegno e desolata, quanto piuttosto si diverta ad occhieggiare dietro la maschera del ben più alto archetipo muliebre di questa stessa umile jeune fille, riappropriandosi del ruolo di una prima donna affranta sì delle sue notti ormai eluse dall’amato, eppure assidua e grande cantatrice dei suoi mali. Come è noto la giovinetta lacrimosa della myrica deriva la sua «poca personuzza» dalla magnifica Saffo, salda nelle sue pene e confermata nella sua forte inclinazione poetica, del frammento 52, così tradotto da Pascoli in Lyra: «è tramontata la luna e le Pleiadi, è mezza notte, il tempo passa, e io dormo sola». Mutato l’ultimo netto asserto sulla propria disperazione erotica nella testimonianza del suppletivo vizio con similare «funzione erogena e [...] ansiolitica»34, al lettore che di questo gioco en travesti abbia anche il più piccolo presagio, se ne dà piena contezza tramite minime tracce sparse qui vicino. Come le parole-rima «sola» - «lenzuola» rimandano direttamente allo Stornello, 1-8 (lì inframezzate da altra parolarima ricorrente in questo stesso passo della Tentazione: «spola», 5), così anche l’ultimo accenno al proprio stato di abbandono «Ma senza un bacio, senza una promessa» (VI, 95), perfetta scaglia prelevata dal Giorno dei morti, dove è grido di lamento dell’inupta Margherita, scomparsa prima di conoscere gioie ed affanni d’amore – «io, senza un bacio, senza una parola» (51) –, è comunque pretesto per tornare alla myrica saffica e alla sua fonte antica, date le affinità di queste condizioni di mesto eremitaggio amoroso. Che scopo avrebbe, in fondo, la variazione apportata all’emistichio secondo del verso del Giorno dei morti se non quello di far ricordare per contrasto l’originale chiusa, «senza una parola», così facendo aggallare la quarta parola-rima dello Stornello?35

 

3. «la morte…/ Com’era?»: «Donna di dolori»

 

Costante anche in Donna di dolori la frequentazione di Pascoli, maestro di poesia a cui si riservano oltretutto parole di devozione manifesta, che tengono dietro a un’altrettanto aperta citazione dall’Ora di Barga, canto non a caso richiamato, poiché il breve poemetto, che ha per protagonista una «morta sotterrata allo stato colliquativo»36, è tutto incentrato sul tema del rimpianto, rimorso per una vita di cui non si sono a tempo colte le più propizie occasioni: «Ascolta questo allora: che m’incuora, / mi dice È tardi, mi dice è l’ora. / Lo so che è l’ora, e so anche che è
tardi. / Ma ancora solo un po’ lascia che guardi / quell’estate lontana col suo fiore. / Lascia che guardi piú addentro al mio cuore, / lasciami vivere del mio passato, /
lascia che cerchi quel bacio mai dato; / in questo buco buio e senza uscita / lasciami piangere sulla mia vita. / Pascoli amato, e tu, Clemente mio, / tornatemi alla mente che qui io / ho un tal bisogno di grande poesia!» (261-73).Ma non è tanto propizio soffermarsi su questo esplicito richiamo, su questa asserzione metapoetica – semmai più degno di rilievo mi sembrerebbe l’aver congiunto sotto un medesimo vessillo lirico Pascoli e Rebora, idoli eretti in antitesi all’‘unico Dio’ Montale37 – quanto su altre meno dichiarate allusioni pascoliane. Del resto, anche l’intarsio dall’Ora di Barga, a ben guardare, spicca per l’esclusiva perizia tecnica della Valduga: sebbene si debba parlare di arte centonatoria, la strofa monometrica di base del capitolo dei Canti di Castelvecchio («e grave grave grave m’incuora:
/ mi dice, È tardi; mi dice, È l’ora», «Lo so ch’è l’ora, lo so ch’è tardi; / ma un poco ancora lascia che guardi. // Lascia che guardi dentro al mio cuore, / lascia ch’io viva del mio passato; / se c’è sul bronco sempre quel fiore, / s’io trovi un bacio che non ho dato! / Nel mio cantuccio d’ombra romita / lascia ch’io pianga su la mia vita», 23-4 e 29-36) è rielaborata di quel tanto, nel lessico e nel ritmo, che se ne ottiene un più diluito effetto di lingua viva; basta interporre agli ossessivi quinari doppi la misura ‘più naturale’, più confacente all’umano respiro, dell’endecasillabo,
basta ridurre il tono di questo già ovattato sottovoce all’espressione del più comune parlato quotidiano (in uno squallido «buco buio e senza uscita» si tramuta insomma l’umile e pur decoroso «cantuccio» oraziano).
Lo stato della donna, che si ritrova con la sua persona, ma non con l’anima, sul limitar di Dite, non è ancor quello della morte tacita, non è più quello della vera vita, ma fa tutt’uno con un’onirica vaghezza – «It was not Death [...] It was not Night [...] And yet, it tasted, like them all» –, con quello smarrimento proprio delle ombre sconcertate, colte di sorpresa, non ancor pronte all’ultimo trapasso. Commensale non sazio del classico convito dell’antica gnome, la donna volge tuttora, assidua, lo sguardo indietro, verso il mondo abbandonato. Ma non l’etera Myrrhine presta i suoi passi tardi e dubitosi alla protagonista del poemetto; più sottile si fa l’impiego degli echi pascoliani. A partire dall’incipit: «Oh non cosí! [...]». Stupita di tanto sfacelo, di questa lorda consunzione delle carni, fatale, eppure
inaccettata, la donna pronuncia al suo apparire sulla scena, al suo entrare nel regno dei morti, parole che ci rimandano sì al modello antico, ben noto al latinista cantore dei contrastanti sentimenti dei defunti – sitibondi talora di luce, come altre volte paghi della vita trascorsa: un succedersi di affanni, sebbene allora graditi, tutti al presente da dimenticare38 –, ma pure al Pascoli medesimo, alluso per antitesi. L’eco che mi sembra risuonare, vaga, d’accordo, eppur forte nella sua sede di rilievo, in attacco del poemetto, è quella dell’incipit di un’ode dettata in morte di un ‘fratello’ d’arte, A Giuseppe Giacosa, che, proprio per rilevare la pacifica dipartita dell’uomo dal mondo, rinnova e capovolge una memoria virgiliana, altèra esclamazione, avanti di infliggersi la morte, dell’eroina principale del poema, donna frodata dalla vita, di una Didone ormai abbandonata. Come la ripudiata regina si decide al trapasso con tremenda fermezza, gridando alfine, in sfida agli uomini e agli dei, «[...] sic sic iuvat ire sub umbras» (Aen., IV, 660), per antifrasi Pascoli in A Giuseppe Giacosa ripete: «Così! Così! [...] / [...] / Così la morte è bella» (1-3). Estremo anello della catena di richiami, la dolorosa figlia d’Eva, donna e pertanto essere «di pena», torna a protestare il suo «dispitto», tradita nell’onore come la punica sovrana, ma, al contrario di questa, non appagata ancora del suo carnale tormento, con le parole di congedo di Didone, volto l’orgoglio in sbigottimento, quasi a dire l’amaro rimpianto per le terrene vanità perdute, esatto opposto della serena accettazione della morte da parte dell’acquietato personaggio dell’ode pascoliana.
Per esemplare contrappasso, come la donna ha trascorso la sua inutile vita «in anni e anni e anni a dar di morso, / in rodermi il cervello a scorza a scorza» (12-3), così la sua carcassa inanimata è adesso preda di un rodere instancabile di vermi. Raggelanti e macabre fantasie di liriche baudelairiane quali Une charogne o Le mort joyeux offrono vivide immagini di putridi brulicami da cui trarre ispirazione: «d’où sortaient de noirs bataillons / de larves, qui coulaient comme un épais liquide / le long de ces vivants haillons» (18-20); «O vers! noirs compagnons sans oreille et sans yeux, / voyez venir à vous un mort libre et joyeux! / philosophes viveurs, fils de la pourriture, // à travers ma ruine allez donc sans remords, / et dites-moi s’il
est encor quelque torture / pour ce vieux corps sans âme et mort parmi les morts!» (9-14). Ma rispetto a quest’ultimo motivo, il tema di Donna di dolori rappresenta esattamente il contrario: un rimorso continuo soggioga la morta avanti tempo, martirio che consuma la sua mente come i vermi vanno facendo scempio della sua persona. In ciò sembra di scorgere l’altro tema dell’orrida bifronte medaglia baudelairiana, quello del poeta di Remords posthume o dell’Irréparable:
«– et le ver rongera ta peau comme un remords» (16); «Pouvons-nous étouffer le vieux, le long Remords, / qui vit, s’agite et se tortille, / Et se nourrit de nous comme le ver des morts» (1-3). Rimorso, tipico timbro sì di mortuari capitoli delle Fleurs, ma leitmotiv quanto mai pascoliano. Non sarà un caso, dunque, che nel raffigurare una delle tante immagini compromesse con questi lugubri capricci
baudelairiani, ci si avvalga – dando rilievo al tutto tramite allitterazione, a ricreare l’intricato movimento del verminaio – di una figura etimologica conforme a quella
che contraddistingue un punto focale nel breve e intenso discorso del padre agonizzante del Giorno dei morti: «Vedi... di piú! di piú!... fin che respiro... / Scavano i vermi, vedi... i nervi al vivo... / Oh vita mia vitale per cui vivo»(361-3), «la vita viva delle vostre vite» (84), figura etimologica riproposta dalla Valduga anche in altre occasioni, secondo altre varianti39. Non è marginale, dunque, che in
attacco e in chiusura del successivo capitolo la donna implori remissivamente «perdono», altro primario argomento dell’ultima preghiera del fattore morente (91-3). Sull’onda poi della memoria di questa myrica, più e più volte rievocata
nell’opera della Valduga, non stupisce che pure l’autoritratto tracciato dalla defunta nei giorni estremi della precaria sua esistenza, «le braccia in croce ed ero ancora viva» (323), sia in fondo ricalcato sull’immagine della Margherita di questo stesso testo, anch’ella eternamente ormai composta nella morte in quella che fu l’abituale posa notturna dei piccoli fratelli, vegliati con amore nella sua troppo breve vita di fanciulla, non allietata da premura alcuna: «voi dormivate con le braccia al petto», «io dormirò con le mie braccia in croce» (48, 60). Proprio la giovane Margherita, la ‘figlia maggiore’, di cui già la sognante donna della Tentazione aveva ripetuto il querulo lamento, ci addita di lontano un’ultima memoria pascoliana. Se pure il singolare topos quale quello di un’ordinaria realtà capovolta – una comunità di morti riuniti a dire una messa in suffragio per i vivi, «noi qui del sottoterra ecco diremo / una messa dei morti per i vivi» (348-9) –, possa essere nuovamente ricondotto a simili invertiti soggetti pascoliani (penso a una myrica quale La notte dei morti o a un canto del «Diario autunnale» come Torre di SanMauro), di vero, ancorché labile, riferimento parlerei a proposito di altra sepolcrale messinscena. Come i vermi sotterranei che guastano le carni della morta non sono che un supplizio reiterante i passati triboli terreni, «cura omeopatica» da uomini striscianti e lumacosi (482), così anche i medesimi avvoltoi, che oggi volteggiano sulla fossa dell’estinta, non rappresentano che un negra proiezione oltremondana dei tanti profittatori conosciuti in vita. Andavano e venivano, un tempo, intorno alla meschina; ora posano, gavazzano e ripartono sulla tomba di costei, ben più indiscreti dei passeri albergati nel cimitero campestre della Figlia maggiore, ignari di provocare coi loro liberi amori tanto sconcerto nella casta fanciulla lì sepolta. Specchio del secolo in degrado, gli immondi ‘uccellacci’ mentre snaturano in copule bestiali gli spensierati amplessi dei pascoliani ‘uccellini’ del canto ne ripetono, d’altra parte, le veloci movenze, analogamente descritte tramite un’accumulatio di verbi assoluti: «[...] vengono, poi vanno. /Mangiano, scopano [...]» (71-2), «Si beccano, s’amano, pascono» (17)40.

 

4. «dormono in lunghe file, come stanchi»: «Corsia degli incurabili»

 

Stretta alla morte e raccolta tutta in preghiera (or timorosa, ora corrucciata), la «persona» di Corsia degli incurabili, a cui le dignità medesime di persona sono negate da una società che l’ha rinchiusa nel carcere delle vite terminali. Uomo o donna che sia41, ridotto a pura voce di lagnanza, e circondato da affini sofferenze, tale coscritto del dolore interpella in nome dei muti compagni più di un’autorità, a cui rivolgere richiesta di soccorso nell’ora del drammatico trapasso o tormentati quesiti sui pervertimenti della vita quotidiana da cui, tanto l’accidentale morbo quanto la confraternita civile, l’hanno oramai estromesso, per provvidenza ovvero col malo intento di porre al bando colui che si sottrae alle regole del mondo. I dubbi che attanagliano l’infermo lo conducono infatti a chiedere ragione delle anomalie che affliggono l’Italia – stata madre dolcissima di lingua, ma adesso desolato paese in ginocchio, terra di morti che parlano un’invariata e squallida favella da TV – a ben tre cariche istituzionali, due delle quali almeno con piena facoltà di limitare tanto regresso d’eloquio: il direttore del «Corriere della sera» e il presidente della Repubblica42 (la terza carica, in veste di capo del ministero, tiene le redini di una disastrata sanità, avendo dunque sulla propria coscienza il destino dei tanti incurabili qui ingabbiati). Ma parallela all’invettiva civile (condotta anch’essa, comunque, nei toni di una requisitoria aspra e tuttavia individuale, quasi si trattasse di una ‘questione privata’ in corso con una patria spergiura), si sciorina altra più intima preghiera, invocazione alla Vergine nell’ora del pericolo: «... ora e nell’ora della nostra morte. / Ave Maria... Buongiorno, nuovo giorno! / E ave alla vita!... della nostra morte!» (1-3). Sulla prece mariana per eccellenza si apre dunque il poemetto, che per tutta la sua durata incede sul modulo della postulatio: come nella Tentazione la protagonista veniva ad assaporare nell’incubo notturno
le pene dei dannati, così in Corsia degli incurabili lo stato dell’indefinito protagonista è quello di un’anima che va scontando piuttosto i suoi peccati, trovando nella Vergine della canonica devozione puntello al proprio vacillare tanto
di creatura prossima alla morte, quanto di poeta disilluso. Ma di che si fa richiesta alla beata Donna, in questa purgatoriale condizione di passaggio (l’aperta eco dall’Ave Maria del primo capitolo, la preghiera dell’erronea ma vulgata interpretazione dell’immagine di Purg., VIII, 5, è in stretto rapporto con l’eco centonatoria da Purg., I, 115-7 della quarta e quinta lassa di terzine, 53-5 e 96-8, richiami che da soli bastano a ricreare l’atmosfera del santo monte, dove si espiano le macule terrene)? Di quel poco di luce che ancora resta da sorbire agli occhi di questi stanchi relitti di uomini, internati nel più basso e buio piano della clinica, ultima stazione di un calvario di moribondi già stati poveri ed emarginati in vita. «Pura luce, misura d’umiltà» (15)43, regina dei naviganti «per lo gran mar dell’essere», Maria è invocata a concedere quel minimo barlume che conforti i giorni ultimi degli ultimi, prima del loro inabissarsi nelle tenebre. Ella, «spicchio di giustizia» (9) – l’espressione riproduce fonicamente, decurtandone di molto l’alto significato, altro epiteto mariano: «speculum iustitiae»44 – è pertanto implorata affinché uno «spicchio di luce» (specchio terreno della divina essenza) penetri anche in questa tetra camerata di dimenticati, unico «cielo», come s’afferma nell’undecimo capitolo (278), per chi qua giace in attesa della fine.
Poiché tale «spicchio di luce» è l’unica parvenza di «giorno» concessa ai prigionieri della clinica e poiché «l’azzurro» pieno degli spazi aperti può essere solo immaginato dai reclusi (così si afferma nella seconda lassa di terzine), dalla Donna del cielo si mendica che queste ore d’esistenza terminale, il nuovo giorno sorto con l’alba, forse l’estremo, si presentino più azzurre di qualsiasi altro momento già vissuto: «giura che sarà giusto il nuovo giorno, / che sarà azzurro piú di ogni altro giorno» (16-7). E chi se non a Lei, Sovrana del Paradiso, richiedere di tingere del colore della ‘perfezione’ l’appena sorto ultimo dì? Se di una scontata corrispondenza si tratta – l’azzurro è primamente colore mariano e con questo si identifica pure l’idea medesima della beatitudine – la tinta, per confessione aperta dell’infermo (ma sarebbe ormai opportuno parlare di malata, poiché l’indefinitezza del protagonista qui viene meno: l’indubbio substrato biografico emerge a chiare note nel sesto capitolo), è anche senhal di un passato felice, di un’esclusiva esperienza di gioventù, stagione di speranze ancor non declinate, trascorsa nella città dell’acqua e della luce, la Venezia dei propri studi, galeotta occasione di amori e di prime amorose tenzoni poetiche. Una Venezia tornata – dopo la montaliana mascherata infernale del mottetto «La gondola che scivola in un forte» – al suo usato abito levantino, fatta di liquida materia e dei bagliori dei mosaici di Bisanzio; non solo azzurro, ma anche oro, oro abbagliante riflesso nelle acque, tanto da fare un tutt’uno coi riverberi dei fiotti ristagnanti: «Tutto l’azzurro e tutto l’oro... Azzurro, / da un’altra vita della vita, vieni, / vieni a fare il mio cuore tutto azzurro! // Oh, tutto azzurro... tutto pieno d’oro... / azzurro e oro... e tutto trascolora...» (137-41)45. Se l’invito rivolto ai colori del giubilo celeste, a inondare, pur attraverso la stretta feritoia del vasistas, la misera corsia dei moribondi, le loro stanche pupille, di luce e di un ultimo raggio sereno, appare chiaro rovesciamento della preghiera di altro poeta, atterrito dal potere dell’Azur, dilagante da inopportuni squarci di cielo, seppure la coppia delle due tinte rimandi a un formulario da plazer, essendo dittico guinizzelliano e poi cavalcantiano46, ostentato in figura di splendori eccelsi, l’abbinamento evoca d’altra parte una conforme coppia di tinte pascoliane, assiduamente riproposta, così da dare luogo a un topos ben riconoscibile. Dietro l’azzurro e l’oro della Serenissima, colori che rifulgono «nell’ora di Tiziano», sembra di intravedere il rosa e l’oro dei due momenti di trapasso del giorno, alba e tramonto, principio e fine del corso solare, sulla cui simiglianza Pascoli insiste più di una volta. Tanti i luoghi che potremmo citare, a partire dalla myrica saffica- catulliana La cucitrice: «Tutto il cielo è color rosa, / rosa e oro, e tutto il cielo / sulla testa le riluce»47, fino ad altro capitolo della medesima raccolta, Con gli angioli, 8 (poi, come dirò più avanti, apertamente alluso nel poemetto). Ma conviene prestare attenzione anche al verbo impiegato a descrivere il virare delle tinte l’una nell’altra, simile al tramutare dei ricordi gioiosi nell’ora disillusa del presente: «trascolora». Voce cara a Pascoli, è impiegata tanto in un’ode in cui, manco a dirlo, torna una delle due tinte vespertine, L’ora del disarmo, 2-3: «È questa l’ora che ciò ch’era in cielo / di nubi fosche trascolora in rosa» (identificazione diretta della quiete serale con la felicità), quanto nell’ottavo capitolo di chiusura del «Diario autunnale», quadro ‘segantiniano’ di una Pania che cangia all’alba i suoi dorsi marmorei in rosa, al sorgere del sole: «Ed ecco il monte trascolora in rosa»48. Non sarà comunque secondario rilevare come lo stesso massiccio garfagnino muti talvolta il suo sembiante, flettendo proprio alle tonalità bluastre, come si narra nel settimo capitolo della medesima sezione dei Canti, Nell’orto, 25: «Ma il monte allora ritornò turchino», fenomeno a cui altrove è consegnato un valore figurato. Mi riferisco ad altro canto ancora, il cui vago affiorare tra questi versi del poemetto valdughiano non potrebbe essere più prevedibile, data la sua velata consonanza di simbolico immaginario montano:
«The hammerless gun». È qui infatti che la Pania, la «mellifera» alpe, il buon «gigante» che nutre il popolo delle api operose, è assunta a emblema della difficile
ascesa alle vette impervie della poesia, monte che cangia i botri suoi ed i costoni ripidi dall’oro al rosa e da quest’ultima lieve tinta torna a rifarsi di un contegnoso, austero azzurro: «[...] leva la Pania alto la fronte / nel sereno: un aguzzo blocco d’oro, // su cui piovano petali di rose / appassite [...]», «[...] egli ride roseo, ma scorso / il suo minuto, ridoventa azzurro / e grave [...]» (22-5 e 47-9). Ceruleo
il dolce ricordo di Venezia, ma tali pure i monti della propria terra, di una Belluno con cieli di un turchese esclusivo, non meno delle lombarde volte manzoniane – «Sarò il mio cielo, nelle sue tranquille //... nelle tranquille mute azzurrità... » (380-1) –. Dal vasistas tralucono e ritornano insomma azzurre rimembranze non solo dai tempi della giovinezza universitaria, ma pure dall’infanzia trascorsa nell’alpestre veneto entroterra. Qui (terzo capitolo), su un’immaginaria cima, riandando col ricordo ad epoche più fauste, si vorrebbe ubicare l’angulus riposto della propria beata solitudo, non a caso descritto con altra espressione affine a quella che è dato leggere sempre in «The hammerless gun»: «Voglio un posto di viole e bucaneve... // di biancospini... il mio posto segreto... » (168-9) – «il mio
luogo alto e segreto» (56) –, ricerca di un «paese» tutt’altro che «innocente», sia perché effettivo luogo già conosciuto in vita, sia perché tipico ricetto di poeta, oraziano cantuccio già trovato da Pascoli tra selve inospiti e deserte della Garfagnana. La flora, umile campionario di fiori che spuntano tutti tra la fine dei rigori invernali e i primissimi indizi di primavera – viole, bucaneve e biancospini –, analogamente ci appare quale concreto ricordo di passate stagioni alpine e insieme indubbia memoria d’erbario pascoliano. Presenza di un modello che è, oltre a ciò, suffragata, là dove nuovamente si fantastica di andar scegliendo fior da fiore sulle giogaie della terra natale, da altro minimo indizio, una memoria da Nannetto, capitolo dei Nuovi poemetti che ha per protagonista un piccolo villeggiante, lontano dagli amati monti di una patria già perduta per esodo paterno, ora, «per sempre», a causa di una morte fraudolenta che ha ghermito il ragazzo avanti tempo. Nella lassa finale di Corsia degli incurabili, col caratteristico balbettio dell’agonia, si dichiara un ultimo desiderio – poter fare ritorno alla amata Belluno – ricorrendo proprio alla conforme formula pascoliana del nuovo poemetto, invero frase fatta, motivo andante da canzone della lontananza, ma posta comunque in identica sede di clausola e, analogamente, in rima ricca con la parola «tramonti» – «Oh! tornare a Belluno tra i miei monti... / e cor gliere le viole e i bucaneve... / quanta neve per me... quanti tramonti... » (466-8), («no, per restare anch’esso tra i suoi monti», 14). Irrilevante frammento, se non fosse preceduto da ben più tangibile memoria: è qui infatti, nel capitolo di chiusura del poemetto, che si ricompone nei suoi originali elementi quella coppia coloristica pascoliana ipotizzata
all’origine dell’oro e dell’azzurro valdughiani, nell’eco manifesta della myrica Con gli angioli, 8: «nuvole d’oro, nuvole di rosa». Giunta al termine della propria vita, l’inferma prende a dire l’ultima preghiera, supplica a un cielo in cui è riposta tutta la speranza, manto mariano di misericordia, azzurro sì, ma marezzato di sereni nembi,
segni di un rappacificarsi del cielo con la terra, dolce saluto d’accoglienza che il firmamento riserva nel giorno del tramonto di sua vita alla malata: «O cielo, cielo, mio leggero manto, // per te il mio cuore si mette in fortezza / e vive e sente e si protende e beve, / dentro il tuo azzurro tutta la tua brezza... // Nuvole d’oro... nuvole di rosa... » (459-63).
L’analisi di Corsia degli incurabili non si chiude su questa esplicita memoria myricea. Ancor più interessante mi sembra il fitto intreccio che la Valduga viene a intessere
fra tale modello e un d’Annunzio a sua volta in vena di riecheggiamenti pascoliani. Il modulo della postulatio su cui procede il poemetto, la parte destinata alla querula domanda di soccorso nel sistema quadripartito della preghiera, induce probabilmente al ricordo di altra implorazione di agonizzante, scongiuro contro l’alba che giunge a recare un nuovo giorno a cui si desidera sottrarsi. Le suppliche mariane della malata sdrucciolano, a un certo punto, nel pianto di una ninfa, lacerto virgolettato, poiché propriamente romanza intonata dalla donna, che riconosce nelle sorti della protagonista del canto analogo destino, ma opposta brama: «“L’alba separa dalla luce l’ombra / e la mia voluttà dal mio desire. // O dolci stelle, è l’ora di morire. / Un piú divino amor dal ciel vi sgombra.” / Sí, anche
per me è l’ora di morire... // “Pupille ardenti, o voi senza ritorno / stelle tristi, spegnetevi incorrotte! / Morir debbo. Veder non voglio il giorno...” // Come vorrei vederlo, invece, il giorno! / “... per amor del mio sogno e della notte.” / Tutto l’oro.... l’azzurro tutto intorno... // sento che è l’ora... e tutto trascolora... // “Chiudimi, o Notte, nel tuo sen materno, / mentre la terra pallida s’irrora. // Ma che dal sangue mio nasca l’aurora / e dal sogno mio breve il sole eterno!”» (siamo in uno dei capitoli principali, il quindicesimo, «Mi è venuta anche la tachicardia», 344-60, là dove ricompare il topos celatamente pascoliano delle due tinte della felicità). Immediato il riconoscimento della memoria dannunziana – si tratta della completa citazione della seconda canzone diAmaranta – ma soprattutto degni di analisi il proposito e l’uso di tale innesto. Non solo la Valduga deve aver notata la sintonia di questo d’Annunzio col Pascoli a propria volta preso a modello – almeno tre delle Quattro canzoni di Amaranta sono memori di topoi o formule pascoliane – ma nel medesimo poemetto si fa in modo di far interagire proprio tali tracce pascoliane della canzone coi diretti archetipi. Rinviando alla nota per quanto
riguarda le altre memorie myricee della prima e della quarta canzone49, mi soffermerei appunto sulla chiusa della seconda – «Ma che dal sogno mio nasca l’aurora / E dal sogno mio breve il sole eterno!». Come non vedere in quel «sogno [...] breve» sì un tangibile ricordo del «breve sonno» petrarchesco di RVF, CCCXXVII, 9, già metafora del passaggio terreno da cui ci si risveglia in cielo50, ma
pure una più esile eco dei «sogni [...] brevi» di Colloquio, II, 5, qui facenti un tutt’uno con lo shelleiano «sogno della vita»51 del Giorno dei morti, 39, interrotto dall’improvviso risveglio oltremondano, che per Amaranta comporta il conseguimento di una perenne aurora, negata invece in perpetuo alla povera ‘figlia maggiore’ della myrica («– o miei fratelli!, che bevete ancora / la luce, a cui mi mancano in eterno / gli occhi, assetati della dolce aurora», 40-2). Alba invermigliata dunque dal proprio sangue52, catartico deflusso, da cui risorgere qual singolo individuo all’immortalità, ma pure immolazione della propria finita persona per
conquistare un eterno ritorno di quell’astro che solo garantisce il ciclico rinnovo della vita. Strappare, tramite le parole di Amaranta, una promessa del genere – che la propria sacrificale morte sia comunque seguita da un perpetuarsi del cosmo intero, ipotesi raffigurata nell’immagine del «sole eterno» – comporta di avviare altro dialogo a distanza con Pascoli: lo scettico cantore dei sempiterni ed infiniti
spazi del Ciocco, al solito non solo alluso tramite antitetico tropo, ma chiamato in causa a ridire simili inquietudini di un essere che scopre adesso la sua caduca e finita natura, e che per accingersi al passo fatale abbisogna, qual bimbo spaurito, di edificanti e consolatorie rassicurazioni sul futuro dell’umanità a venire. Eterno il sole del radioso, compensativo futuro di Amaranta, come si augura anche l’inferma reclusa a cui già in vita è stata sottratta la piena luce del giorno, quanto caduco, il medesimo astro, è definito da Pascoli: «O Sole, eterno tu non sei [...]» (Il ciocco, II, 163). Da questa tenue oppositiva memoria scaturisce l’ultimo confronto col modello (rimandato in chiusura del poemetto). Se pur si viene infine ad accettare,
come Amaranta, di ripiegare il capo nel «sen materno» della «Notte» – altro dal virginale grembo dellaMorte leopardiana – e trovar pace in questa come un fanciullo protetto dall’abbraccio della genitrice, nelle fioche estreme implorazioni dell’inferma riudiamo parole di conformi suppliche pascoliane. Caduta ormai ogni più salda copernicana certezza, riconosciuta la natura finita del sistema solare e la pluralità dei mondi insieme, anche il protagonista del Ciocco riesce a vincere il senso di assoluto smarrimento percepito al rendersi conto della propria caducità solo nell’ipotesi di un perpetuarsi della materia. Il tutto è descritto tramite la celebre immagine figurata di un ‘lucreziano’ fanciullo vittorioso sullo sbigottimento patito tra le tenebre notturne grazie soltanto alla rassicurante presenza di una madre in veglia: «Anima nostra! fanciulletto mesto! / nor stro buono malato fanciulletto, / che non t’addormi, s’altri non è desto! [...]» (II, 164 e sgg.). Solo se ammettiamo un dialogo col Pascoli di questo specifico luogo del Ciocco, ci spieghiamo quell’ «ansante»53 invocare i viluppi intricati di stelle, dimora prossima della morente, turbata sì dall’evento fatale, ma non confusa nelle sue estreme razionali preci: «... fermi per sempre... in eterno soli... / di là, di là delle costellazioni... / di là dei piú lontani ultimi soli... // dei piú lontani grovigli di stelle... / Ora pregate che mi si
perdoni, / voi, cari morti, anime sorelle, // pregate un po’ di cielo per finire... / che il firmamento, pregate, perdoni / l’anima che non sa come finire... » (487-95). Non di un delirio affine al farnetico della vecchina dell’alpe si tratta – riconoscibili certi motivi e certe locuzioni provenienti oltre che da questo nuovo poemetto (cfr. La morte del papa, XII, 6-7: «[...] stelle, costellazïoni: // Soli: sciami di soli [...]»)
da altri due capitoli della medesima raccolta, La vertigine,II, 4-5: «su quell’immenso baratro di stelle, / sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi» e La pecorella smarrita, 22: «– Mucchi di stelle, grappoli di mondi»; l’eco più diretta resta comunque quella del Ciocco, II, 191: «fermi per sempre ed in eterno soli!» (nel passo si ritrova anche la rima «milïoni»-«costellazïoni»), e si rammentino inoltre anche i versi successivi, II, 233-4: «di là di voi, di là del firmamento, / di là del più lontano ultimo Sole» – né di un semplice rimettersi al perdono di anime cognate54, bensì di un’ultima pertinente richiesta: che dall’intero firmamento giunga, nepente di tranquillità, una promessa di eterno rinnovo, all’«anima che non sa come finire», «[...] questa anima fanciulla / che non ci vuole, non ci sa morire! / che chiuder gli occhi, e non veder più nulla, / vuole sotto il chiaror dell’avvenire» (Il ciocco, II, 237-40).

 

NOTE

1 Cfr.A. Cortellessa, Parola plurale, Roma, Luca Sossella Editore
2005, p. 325 (il virgolettato interno è citazione di Luigi Baldacci).
2 Cfr. Le parole, il desiderio, la morte, p. 51; l’intervento si
legge di seguito a P. Valduga, Lezione d’amore, Torino, Einaudi
2004.
3 Cfr. «In nome di Dio, aiutami! Ché tanto» in Medicamenta;
ma cfr. anche nella medesima raccolta «Mi dispero perché non ho
parole» e «Mi dispero perché».
4 L’aggettivo «muta» rimanda con tutta evidenza alla dantesca
«lingua [...] muta» di VN, «Tanto gentile e tanto onesta pare», 3,
già reiterata da Petrarca, RVF, CCCXXV, 97. Ma l’intera prima
quartina del sonetto appare satura di richiami letterari tra loro diversi
e con differente funzione evocativa. Il verosimile riecheggiamento
del disilluso adagio del Libro segreto, qui volto in tono
sbigottito, «Tutta la vita è senza mutamento» – un d’Annunzio di lì
a due versi più esplicitamente richiamato, tramite accenno al Solus
ad solam, «sola a te solo e col sole declino» (4), con conforme gioco
di parole, variazione sul precedente bisticcio – si oppone e si correla
nel contempo ad altra probabile eco, da un sonetto shakesperiano,
ricordato in quella versione ormai mandata a memoria da
generazioni della storica traduzione di Lucifero Darchini (cfr. W.
Shakespeare, Sonetti, a c. L. Darchini, Milano, Biblioteca Universale
Sonzogno 1909): «Amore non è amore se muta quando trova
un mutamento o se è pronto a recedere quando l’altro s’allontana»
(CXVI, 2-4), perennità senza riserve di una fede data, che se in Shakespeare
è quella riservata al soggetto amoroso del proprio cantare,
nella Valduga, potremmo dire, è unitamente consegnata a eros e poiesis,
fedeltà dunque giurata in primis a se stessi.
5 Cfr. Le parole, il desiderio, la morte, cit., p. 52.
6 Ibidem, p. 54. Se l’allusione diretta è alla lirica dannunziana
«Qui giacciono i miei cani», 4, non escluderei anche un più sottile
richiamo al titolo della raccolta di saggi pascoliana Antico sempre
nuovo, che la Valduga può aver sentita in consonanza con certi propri
assunti, se non con tanta dottrina enunciati, tuttavia con conforme
perizia posti in pratica.
7 Cfr. Per una definizione di «poesia»: «E sono passata dai barocchi,
dalla passione per lo scatenamento figurale del Cinque-Seicento,
a Pascoli, all’apparente semplicità del canto (che non esclude
affatto la pluralità del senso). / Pascoli mi ha insegnato anche a non
vergognarmi dei sentimenti» (il testo si legge di seguito a P. Valduga,
Quartine. Seconda centuria, p. 106).
8 Riporto le date delle prime edizioni delle opere dalla cui analisi
sono affiorate delle precise memorie pascoliane, ma segnalo
pure le edizioni in cui ho letto le medesime: Medicamenta,Milano,
Guanda 1982 (Medicamenta e altri medicamenta, Torino, Einaudi
1989); La tentazione,Milano, Crocetti 1985 (poi in Cento quartine
e altre storie d’amore, Torino, Einaudi 1997); Donna di dolori,Milano,
Mondadori 1991 (poi in Prima antologia, Torino, Einaudi,
1998); Requiem per mio padre morto il 2 dicembre 1991, Venezia,
Marsilio 1994 (Requiem, Torino, Einaudi 2002); Corsia degli incurabili,
Milano, Garzanti 1996 (poi in Prima antologia, cit.);
Cento quartine e altre storie d’amore, cit.; Cento quartine. Seconda
centuria, Torino, Einaudi 2001.
9 Testimone del continuo impiego di sintagmi e locuzioni, o
versi interi, di altri poeti, antichi e coevi, da parte della Valduga, la
sua pubblica auto-denuncia, uscita nel settembre 1988 nella rubrica
«Plagi» della rivista «Poesia», rassegna dei tanti involamenti perpetrati
in un poemetto: La Tentazione è un centone (pp. 6-19). Anticipo,
comunque, come, a gioconda beffa dei critici che vanno
braccheggiando orme di appostamenti e ruberie, le segnalazioni
delle fitte memorie pascoliane del poemetto in questione si riducano
solo a tre, quasi a canzonare orecchio e fiuto dei lettori, tre
soli cenni a versi, sì, pascoliani, ma neppure fra i più noti (due almeno
provengono da opere minori quali il poema italico Tostoi e La
canzone dell’Olifante dalle Canzoni di re Enzio), e soprattutto richiami
che a differenza dei numerosi altri ricordi mi appaiono avere
una funzione meno attiva all’interno del poemetto, semplici echi
centonatori offerti su un piatto d’argento a chi unicamente e inutilmente
va cercando ‘plagi’.
10 L’ottava di Medicamenta (nel corso della lirica continua il
gioco sulla sibilante dell’onomatopea) si apre del resto con un attacco
in cui è verosimile riconoscere un’impronta pascoliana: «Dormiva
[...]», consueto modulo impiegato a riscrivere la classica quies
della notte di Elissa, oscurità di pace tranne per chi di passione si
consuma, quale veglia o sogno di affanno vario (d’amore sì, ma non
meno di morte, cfr. soprattutto, tra i Primi poemetti, La notte, II, 2;
Suor Virginia, II, 1, III, 1, 10 e Accestisce, I, 16). Così i medesimi
termini descrittivi (nomi e verbi), colmi però di un’espressività onomatopeica,
che si leggono nell’altra ottava citata di «Notti incolori»
(immediatamente precedente), «E converrà che la notte mi amichi»,
si possono puntualmente ritrovare in tanti versi pascoliani: tralasciando
di stilare la lista delle numerose occorrenze di ‘frusci’ e
‘fruscii’ e ‘frusciare’, e ricordando a volo che il «cigolìo» del canto
La fonte di Castelvecchio, 22, si riudirà in seguito in un celebre osso
di Montale, si rammentino almeno la myrica già citata quale testo
in cui ricorre l’onomatopea con valore sillabico, Un rumore... , dove
ritroviamo il verbo ‘scricchiolare’, voce che ricompare, assieme al
verbo ‘incrinarsi’, in quel capolavoro di aspri e chiocci suoni iemali
che è L’uccellino del freddo.
11 Il sonetto continua sull’immagine di una luna svestita del suo
romantico alone, per la cui levata si adotta un disadorno termine sessuale,
«sotto erezioni di lune [...]» (6), che ben si attaglia alla chiusa
del capitolo, descrizione delle proprie pratiche erotiche per mezzo di
crude parole corporali, a parodiare un lessico da poesia giocosa
(«farsi invariabilmente con gran gusto / scalcagnare gli ischiatici in
trambusto?», 13-4). La locuzione d’altra parte sembra richiamare le
note delittuose e programmatiche soluzioni marinettiane circa l’astro
poetico per eccellenza, come la medesima formula «cadimento
vasto / di stelle» potrebbe riecheggiare certe «manate di parole essenziali
» dell’Ungaretti diMalinconia: «Calante malinconia [...] Calante
notturno abbandono / di corpi a pien’anima presi / nel silenzio
vasto», 1-5.
12 La sineciosi di cui si sostanzia la myrica nasce proprio dall’accordo
di due inconciliabili motivi: la lucreziana asserzione della
serena imperturbabilità dei cieli e la metafora popolare del «pianto
di stelle», già rielaborata, com’è noto, in un madrigale di Tasso
(«Qual rugiada o qual pianto, / quai lagrime eran quelle / che sparger
vidi dal notturno manto / e dal candido volto de le stelle»). Significativo
che i successivi richiami alla myrica in altri testi della
Valduga privilegino tutti la severa controparte lucreziana, piuttosto
che il languido tema popolare-tassiano.
13 La dimensione irreale del sogno è già tratteggiata nella definizione
del momento dell’episodio: «nel tempo che la vita non par
viva» (I, 12); segue l’invito suadente di un demone tentennino:
«“Non vuoi? piccola piccola sirena... ”» (I, 13), lusinghevole richiamo
a colei che sa sedurre con una parola che reitera canti ed
incanti di altri ammaliatori, ma soprattutto epiteto della tentatrice di
Purg., XIX, 19. D’altronde l’ingenua speranza nutrita dalla sedotta
«dolce serena», ossia che al mattino le larve allettatrici svaniranno
insieme al sonno, «“Il vostro sguardo insolente dovrà / chinarsi...
Voi, bastardi tracotanti, / l’alba che viene tutti squaglierà!”» (I, 58-
60), se è direttamente nutrita dalla lettura dantesca (anche la fantasia
notturna del viandante ultraterreno si interrompe all’alba),
poggia altri suoi fondamenti sul Pascoli che recupera (combinandolo
insieme a simili credenze popolari) il topos dell’idolo di femminea
blandizia ingannatrice sopraggiunto in sogno, visione che
invoglia al suicidio, fugata al primo grido del gallo, coincidente col
sorgere dell’aurora, nella myrica Povero dono: «Il gallo canta, fuggono
le larve. / Fuggirà, fuggirà la maledetta / maga che con fatali
occhi t’apparve» (4-6).
14 Se l’esordio della concione tenuta al cuore, «“Il tempo è
breve e te n’avanza poco» (II, 9), è riadattamento del secondo verso
del sonetto CCXCV di Michelangelo: «Di morte certo, ma non già
dell’ora, / la vita è breve e poco me n’avanza» (l’eco è segnalata
dalla Valduga stessa nell’articolo La tentazione è un centone, cit., p.
7, che fa riferimento all’edizione Carabba del 1920, in cui il sonetto
porta il numero CLVII), è indubbio che la peculiare tematica petrarchesca
si annoda a simile motivo brechtiano, posto in epigrafe
al poemetto: «Non vi date conforto: / vi resta poco tempo. / Chi è
disfatto, marcisca. / La vita è la piú grande: / nulla sarà piú vostro»
(si tratta della terza strofa di Contro la seduzione, da Poesie e canzoni
di Brecht, nella traduzione curata da Ruth Leiser e Franco Fortini,
uscita per Einaudi nel 1959; ma il passo del poemetto sembra
riecheggiare anche l’attacco della seconda strofa: «Non vi lasciate
illudere / che è poco, la vita»). I versi sono comunque fitti di reminescenze
aperte o riflesse: «a piene vele» (II, 10) è formula ariostesca
dall’Orl. fur., XVII, XXVII, 1 (a dimostrazione, tuttavia, di
come questi echi si perpetuino tramite continue catene di richiami,
la Valduga, in La tentazione è un centone, cit., p. 8, assegna l’espressione
a Daniello Bartoli, Dell’uomo al punto), per «ogni peccato
monda nuovo e antico» (II, 12) si recuperano topoi e lessico danteschi,
un Dante citato direttamente in «con miglior corso e con migliore
stella» (II, 13), (cfr. Par., I, 40), seguito da richiamo di un
verso cavalcantiano: «girerà del dolore la fortuna» (II, 14), (cfr.
Rime, XXXIV, 17), echi, questi due ultimi, rilevati sempre dalla
Valduga in La tentazione è un centone, cit., p. 8.
15 Del celebre attacco del poema dantesco ricorrono ben tre parole-
rima: «oscura», «dura» (col modello si instaura a distanza una
rima equivoca, dato che nella Tentazione si tratta di una voce verbale,
di contro all’aggettivo della terzina infernale) e, nella seconda
strofa, «vita».
16 Anche il quadro del ‘pasto’ erotico inflitto alla dannata, «la
parte che non voglio nominare / lui mi premeva in bocca con amore
/ e tutta me la dava da mangiare» (I, 37-9), presuppone come
‘antefatto’ (questa la parola che avrebbe impiegato Pascoli), la forzata
nutrizione di Beatrice, da parte di Amore, con ben altra nobile
parte corporale dell’amante, cfr. VN, III, 4-6.
17 La clausola, cara a Pascoli, si ritrova ancora in In ritardo, 47
(Canti di Castelvecchio), I due orfani, II, 6 (Primi poemetti), La
cetra d’Achille, III, 14 (Poemi conviviali).
18 La lugubre gentilezza della notte è rimarcata dall’amato che
le attribuisce comunque una sua luminosità, di contro alla donna la
quale, con formula dubitativa, fa risalire la causa di tale lucore alla
presenza della luna: «la notte è chiara. È chiarità di luna?» (II,18).
Da evidenziare più che il semplice fatto che tutto il verso è (come
segnala la Valduga nell’articolo La tentazione è un centone, cit., p.
9) citazione diretta dalla Canzone dell’Olifante, Il sacro Impero,
VIII, 37: «La notte è chiara: è chiarità di luna», il suo impiego artificioso:
non si tratta di affermare, come in altri casi, tramite memoria
pascoliana, un pensiero di particolare rilievo entro la dinamica
dialettica del poemetto; degna di nota è la suddivisione che il verso
subisce nei suoi due emistichi, che divengono parte finale del discorso
dell’uomo ed immediata risposta della donna entro la concitata
sticomitia.Altra centonatoria eco pascoliana (sempre confessata
in La tentazione è un centone, cit., p. 12) che si incontra nel medesimo
capitolo è impiegata in quel balzano racconto nel racconto che
l’amato fa alla donna del suo trascorso incubo notturno (cronaca di
un affine martirio amoroso subìto questa volta dall’uomo). Ideale
campo per assistere, senza sconto alcuno, ai propri tormenti, una
«terra», metaforico luogo di concretezza dei sensi, privilegiato dall’uomo
al punto che, se in un primo momento si limita a distendersi
sul suolo (II, 44), poi avverte la necessità di immergersi nelle viscere
del mondo, discesa agli inferi per saggiare con mano il traviamento,
che in tutto corrisponde alla catabasi dantesca, giacché
in questi stessi termini il Dante del poema italico Tolstoi descrive la
sua tremenda impresa: «Mi seppellii sotterra per vedere» (VI, 22).
Predilette le tenebre sulla luce, la parte animale, entro sempre il racconto
della sua onirica e oltremondana esperienza, ribadisce la propria
inclinazione per il notturno Ade, di contro ai regni illuminati
della vita, ricorrendo ancora una volta a un’espressione dietro cui si
cela una memoria pascoliana (la più importante ai fini dell’idea che
governa il poemetto, tra i soli tre richiami segnalati nell’articolo valdughiano,
p. 15). «No, mia cara, non so che cosa avviene; / dovunque
un cielo s’inarchi e dovunque // solchi il giorno con le sue verdi
vene» (II, 62-4). L’indifferenza riservata al mondo e ai suoi inutili
affanni è velata di mero disprezzo: la vita non è in fondo il luogo
della luce, se questa, che riverbera ogni mattino sul mondo in venature
di livido sfavillo, porta impressi i segni letali di quella pianta
mortifera che intacca, fino a soffocarne l’anima, l’albero del Vischio:
«ti solcò tutto con sue verdi vene» (V, 5).
19 Cfr. Novembre, 5-6: «Ma secco è il pruno, e le stecchite
piante / di nere trame segnano il sereno».
20 Nel presentare la natura silvana del giovane animale, cresciuto
sul litorale romagnolo, Pascoli sembra mitizzarne la nascita
rielaborando il topos di Georg., III, 266-79.
21 Anche le parole che la madre rivolge alla cavallina possono
essere avvertite, ma si tratta di errata interpretazione, quale imperativo-
ottativo: «Tu che ti senti ai fianchi l’uragano, / tu dài retta
alla sua piccola mano» («tu dài» è infatti un presente atemporale,
che tuttavia può sonare all’orecchio quale seconda persona singolare
di «un imperativo caratteristico dell’antica lingua d’oil», così
Perugi in G. Pascoli, Opere, a c. di M. Perugi, Milano-Napoli, Ricciardi
1981, vol. I).
22 Cfr. Il ciocco, II, 91, 107, 126, 145.
23 La «cella» che imprigiona nel suo angusto chiostro l’uomo è
plausibile richiamo alla più eufemistica «cellula di miele [...] lanciata
nello spazio» di un Montale similmente impegnato a trovare
variazioni sulla tastiera pascoliana (cfr. Notizie dall’Amiata, 10-1,
Le occasioni).
24 Cfr. Aen., VI, 341 e sgg.
25 L’unico verso mutato, quello centrale, porta su di sé il carico
del messaggio antitetico: l’idolo della reginella allieta mattini e vesperi
di Rigo (rendendoli in tutto affini con la sue dita di rosa), laddove
la larva amorosa della Tentazione fa dell’alba fidente, per
negricante magia, una sera profonda.
26 Cfr. Il sogno della vergine, 36-44: «O figlio d’un intimo riso /
dell’anima! o fiore non nato / da seme, e sbocciato improvviso! //
Tu fiore non retto da stelo, / tu luce non nata da fuoco, / tu simile a
stella del cielo; // dal cielo dell’anima, ov’ora / sbocciasti improvviso,
tra poco / tu dileguerai nell’aurora».
27 Cfr. A. Aleardi, Canti, Guerrini, Postuma, G. Prati, Iside.
28 Cfr. Il negro di Saint-Pierre, III, 19: «Non c’è più sangue, se
non arso, in grumi», V, 3: «l’unico verme d’un sepolcro chiuso».
L’angosciante attesa del condannato, il suo presagire la pena vicina,
pur essendo già ‘morto’ alla vita civile, l’assurdo, capovolto esito
della vicenda, costituiscono un indistinto magma – fra sensi di
colpa, ataviche paure e paradossi terreni –, che sotterraneo scorre
nelle viscere della Tentazione, e che alla svolta del poemetto, al ritorno
appunto alla vita della donna, scoperto rampolla e si condensa
in queste due esplicite citazioni dall’ode: al sonno visionario, sconvolto
da incubi di morte, segue un risveglio che è rimedio quotidiano
e perdizione eterna insieme, salvezza dalle false larve delle
tenebre per un ritorno al mondo della luce e del male effettivo.
29 D’altra parte se l’albero invaso dalla pianta parassita assurge
a simbolo dell’umana fragile esistenza (il motivo omerico, cfr.
Iliade, VI, 146-9, ricorre spesso nelle pagine liriche pascoliane, intimamente
intrecciandosi con la memoria dantesca di Inf., III, 112-
4), va ricordato che nel poemetto comunque, sotto il velame di un
compianto, amaramente si condanna una presunta cattiva volontà
dell’albero (in ciò esclusivo emblema dell’accidioso poeta); quanto
meno si allude a un suo peccato di credulità, a una sua menda di
stoltezza puerile: «Tu non sapevi o non credevi: ei volle» (V, 4).
30 Come è noto, il topos trae origine dal ciceroniano Somnium
Scipionis.
31 Giardini fa parte della sezione «Uno sguardo di rimando»,
degli Strumenti umani. Da notare anche il fatto che la lirica precedente,
Le sei del mattino, è resoconto sbigottito di una visione, già
stata pascoliana e quindi recuperata dalla Valduga: quella della propria
«fresca morte» in un’ora di quiete consueta. Sereni sarà inoltre
da qui a poco richiamato ancora esplicitamente nel decimo
capitolo del poemetto, allorché alle incalzanti domande della donna,
«Degli anni tuoi, mia vita, che farai? / Sta’ calma, aspetta... ma che
cosa? cosa?» (X, 61-2), l’amato risponderà con le parole inappellabili
della chiusa lapidaria di Intervista a un suicida (Gli strumenti
umani): «nulla nessuno in nessun luogo mai» (64) – «Niente, nessuno,
in nessun luogo, mai» (X, 63).
32 Caro a Pascoli, questo dantismo, che si rintraccia in Purg.,
VIII, 49.
33 Cfr. Quartine. Seconda centuria, 165, 3-4.
34 Cfr. Le parole, il desiderio, la morte, cit., p. 54.
35 Cfr. Lo stornello, 4: «trema nell’aura notte ogni parola».
36 Cfr.Monologo, la nota d’ambientazione che apre il poemetto.
37 L’esplicita elezione di due numi, di contro ad altro idolo non
amato, è vezzo metapoetico che ritorna anche in Corsia degli incurabili:
a Leopardi, al poeta in cui si riconoscono tanto gli «adolescenti
segaioli» quanto (seppur non nominata) la grama schiera dei
versificatori suoi ‘nipoti’, si antepongono ancora una volta l’umbratile
e grande artiere Pascoli, e, con questo, un affine fratello lirico,
Manzoni. Cfr. «Sí, sí, tenetevi la vostra luna!».
38 Questa seconda situazione è narrata nell’Or di notte (Canti di
Castelvecchio); agli antipodi la quotidiana vicenda dei morti goliosi
di vita di un altro canto, La tovaglia.
39 Gli esempi di maggior rilievo si rintracciano in Requiem, 2 dicembre
1992, 6: «che vivo la sua vita seppellita»; 2 dicembre 1995,
5: «Adesso vivile le nostre vite!».
40 Verosimilmente non casuale la presenza di un verbo che, se
per significato ripete, sinonimo triviale, uno degli elementi dell’accumulatio
pascoliana: «scopano»-«s’amano», per significante
si presenta quale perfetto anagramma di altro elemento della serie:
«scopano»-«pascono».
41 Così nella nota d’ambientazione su cui si apre il poemetto,
«Lama di luce da un vasistas. / Una persona, uomo o donna a letto /
in una stanza d’ospedale, la testa sollevata, / le braccia lungo il
corpo, immobile. / La luce va crescendo lentamente». Va da sé che
anche questo monologo è schietta dissertazione del poeta, di una
«donna di dolori» avanti l’ultima ora, sebbene a differenza che in
altri poemetti la Valduga non ponga in versi il proprio nome.
42 Se la supplica al presidente, «Signor Presidente della Repubblica
» (315), suona ad attacco quale formale appello da parlamentare
(ma non è neppure da escludere che il personaggio
pubblico sia chiamato in causa con quella medesima ufficiale
espressione con cui in passato altro «Monsieur le président» fu sottoposto
a interrogazione sul proprio operato), nel suo seguito si sviluppa
sui toni di una tradizionale preghiera, dato che l’autorità è
invocata perché liberi «nos a malo»: «Oh, ci liberi lei degli ignoranti,
/ di tutti i giornalisti di ventura, / dei critici cialtroni e botteganti!» (33-5).
43 L’appellativo traduce alla lettera la formula agostiniana che
si legge nel De sancta virginitate, XXXI, 31: «mensura humilitatis»,
assegnata alla virtù cristiana in questione.
44 Così nelle Litanie della Beata Vergine.
45 Simile sequenza di versi torna nel quindicesimo capitolo:
«Tutto l’oro... l’azzurro tutto intorno... // sento che è l’ora... tutto
trascolora... » (355-6).
46 Cfr. «Io voglio del ver la mia donna laudare», 7: «oro ed azzurro
e ricche gioi per dare» (cfr. G. Guinizzelli, Poesie, a c. di E.
Sanguineti,Milano,Mondadori 1986); «Biltà di donna e di saccente
core», 8: «oro, argento, azzurro ’n ornamenti» (cfr. G. Cavalcanti,
Rime, a c. di D. De Robertis, Torino, Einaudi 1986).
47 Al di là della coppia, con corrispondenza di un elemento, mi
sembra indubbia la relazione intrattenuta col modello pascoliano,
caratterizzato da conforme anadiplosi e da perfetta coincidenza di
uno dei membri ripetuti, l’aggettivo «tutto». Del resto anche il tipico
colore dell’alba (ma così pure del tramonto), che sembra andar completamente
perduto e sostituito dall’azzurro, il rosa (vermiglia pennellata
nel vespero di Fides, baluginante di analoghi riflessi d’oro),
riaffiora nel passo valdughiano, là dove, agendo sul motivo pascoliano
delle opposte eppur eguali fasi giornaliere, si afferma: «tramontavo
nel sangue dell’aurora» (152) (il gioco si fa ancor più
complesso, poiché, come dirò in seguito, l’immagine è compromessa
anche col d’Annunzio memore di certi echi pascoliani delle
Quattro canzoni di Amaranta).
48Altra myrica in cui si ricorre all’identica voce verbale è Rammarico,
descrizione del sorgere dell’alba, l’omerica rododattila aurora:
«Il cielo s’alza e tutto trascolora» (4).
49 La prima delle quattro canzoni, «Lasciami! Lascia ch’io respiri,
lascia», si chiude su un’immagine d’aurora antropomorfizzata
sul modello del cielo pietoso del X Agosto (non quello della
dottrina lucreziana, ma l’altro della fonte tassiana), a sua volta incrociato
con altro ricordo pascoliano, l’analoga chiusa del Giorno
dei morti («[...] il cielo si riversa in pianto / oscuramente sopra il
camposanto», 211-2): «L’alba piange su me tutto il suo pianto» (8)
(il verso tornerà a essere scandito in chiusura della quartina 119, in
Quartine. Seconda centuria). Nella quarta e ultima canzone, sempre
in explicit, altra plausibile eco da una myrica: «L’amante che
ha nome Domani / m’attende nell’ombra infinita» (31-2) ricalca fonicamente
l’intero ultimo verso della Felicità, ripetendone l’identica
clausola aggettivale: «discende al silenzio infinito».
50 Le rime «ombra»-«sgombra» della prima quartina della canzone
rappresentano altra indiscussa traccia della memoria petrarchesca
(sono anche la prima e quarta parola-rima della prima quartina
del sonetto).
51 Cfr. Adonais, XXXIX, 344.
52 Il naturale colore sanguigno dell’aurora, così accennato, per
immediata analogia, nel sesto capitolo, «tramontavo nel sangue dell’aurora
» (152), già riconnesso col motivo saffico-pascoliano del
vespero vermiglio (cfr. la nota 47), trova in fondo una spiegazione
in questo mito eziologico del sacrificio di Amaranta.
53 Il termine è usato quale didascalia scenica; ma chiaramente
rimanda alla terra «ansante» della myrica Il lampo, 2, quadro di sussulto
atmosferico sotto cui, curiosamente, si cela la sinopia della
tragica agonia paterna.
54 E pur sì che il linguaggio non potrebbe essere più marcatamente
pascoliano: sono i «cari [...] morti» del canto La tovaglia,
40, qui intesi già, in una prospettiva ultraterrena, quali «anime sorelle
», epiteto che spetta in vita alla ‘consorte’Maria del poemetto
Il vischio, III, 1. Un intervento provvidenziale delle ombre, sempre
secondo modulo pascoliano, si verifica nel penultimo capitolo, allorché
nell’agonia la donna avverte la silente presenza del nume tutelare
paterno, apparizione del tutto conforme a quelle della
rasserenante larva della madre che torna nei fatidici anniversari a
consolare l’orfano cresciuto: «Da dentro la tua scatola di legno, / tu
mi sorridi, padre mio, lo sento... / tu mi proteggi ancora... mi fai
segno... // lo sento che sorridi al mio lamento... » (443-6); probabilmente
si incrociano due memorie dal primo Anniversario, 14:
«tu m’accarezzi i riccioli d’allora» e da Colloquio, I, 8: «e ha sui
labbri il suo sorriso blando».

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Iniziative
22 novembre 2024
Recensibili per marzo 2025

19 settembre 2024
Il saluto del Direttore Francesco Stella

19 settembre 2024
Biblioteca Lettere Firenze: Mostra copertine Semicerchio e letture primi 70 volumi

16 settembre 2024
Guida alla mostra delle copertine, rassegna stampa web, video 25 anni

21 aprile 2024
Addio ad Anna Maria Volpini

9 dicembre 2023
Semicerchio in dibattito a "Più libri più liberi"

15 ottobre 2023
Semicerchio al Salon de la Revue di Parigi

30 settembre 2023
Il saggio sulla Compagnia delle Poete presentato a Viareggio

11 settembre 2023
Recensibili 2023

11 settembre 2023
Presentazione di Semicerchio sulle traduzioni di Zanzotto

26 giugno 2023
Dante cinese e coreano, Dante spagnolo e francese, Dante disegnato

21 giugno 2023
Tandem. Dialoghi poetici a Bibliotecanova

6 maggio 2023
Blog sulla traduzione

9 gennaio 2023
Addio a Charles Simic

9 dicembre 2022
Semicerchio a "Più libri più liberi", Roma

15 ottobre 2022
Hodoeporica al Salon de la Revue di Parigi

13 maggio 2022
Carteggio Ripellino-Holan su Semicerchio. Roma 13 maggio

26 ottobre 2021
Nuovo premio ai traduttori di "Semicerchio"

16 ottobre 2021
Immaginare Dante. Università di Siena, 21 ottobre

11 ottobre 2021
La Divina Commedia nelle lingue orientali

8 ottobre 2021
Dante: riletture e traduzioni in lingua romanza. Firenze, Institut Français

21 settembre 2021
HODOEPORICA al Festival "Voci lontane Voci sorelle"

11 giugno 2021
Laboratorio Poesia in prosa

4 giugno 2021
Antologie europee di poesia giovane

28 maggio 2021
Le riviste in tempo di pandemia

28 maggio 2021
De Francesco: Laboratorio di traduzione da poesia barocca

21 maggio 2021
Jhumpa Lahiri intervistata da Antonella Francini

11 maggio 2021
Hodoeporica. Presentazione di "Semicerchio" 63 su Youtube

7 maggio 2021
Jorie Graham a dialogo con la sua traduttrice italiana

23 aprile 2021
La poesia di Franco Buffoni in spagnolo

22 marzo 2021
Scuola aperta di Semicerchio aprile-giugno 2021

19 giugno 2020
Poesia russa: incontro finale del Virtual Lab di Semicerchio

1 giugno 2020
Call for papers: Semicerchio 63 "Gli ospiti del caso"

30 aprile 2020
Laboratori digitali della Scuola Semicerchio

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