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Eva Kushner(a cura di), L’époque de la Renaissance. Tome III: Maturations et mutations (1520-1560), Amsterdam-Philadelphia, John Benjamins Publishing Company, 2011, pp. IX-638, € 198.

 

Terzo della sottoserie in quattro volumi dedicata a L’époque de la Renaissance (1400-1600) – di cui sono finora usciti, rispettivamente nel 1988 e nel 2000, il primo, L’avènement de l’esprit nouveau (1400-80), e il quarto, Crises et essors nouveaux (1560-1610) – il volume Maturations et mutations (1520-1560) si inscrive all’interno dell’ambizioso progetto editoriale di un’Histoire comparée des littératures de langues européennes, concepito nel 1967 dall’Association internationale de littérature comparée (fondata a Venezia nel 1955). Il volume copre quattro decenni del Cinquecento che ben si prestano alla periodizzazione, tanto in ambito religioso (dall’avvio dell’offensiva riformatrice luterana agli ultimi anni del Concilio di Trento), quanto in ambito storico-politico (dall’incoronazione alla morte di Carlo V, durante il cui regno si dispiega la seconda fase delle guerre d’Italia, conclusasi nel 1559 con la pace di Cateau-Cambrésis). Attraverso 55 saggi, di straordinaria chiarezza e uniformità linguistica (merito forse anche della lingua, il francese), i 44 autori che hanno preso parte al progetto – molti dei quali non sono purtroppo riusciti ad avere fra le mani il risultato finale dei loro sforzi – hanno realizzato un inestimabile strumento di consultazione, eccezionale sia per la molteplicità delle competenze mobilitate, che ne fanno un lavoro a pieno titolo pluridisciplinare, sia per la vastità del corpus trattato, che ne rivela l’ambiziosa volontà di abbracciare ogni aspetto di quella “civiltà del libro” in cui più di tutte sembra identificarsi il Rinascimento europeo. L’intento generale che sottende l’opera sembra dunque quello di coprire e descrivere per il periodo storico in esame l’insieme della produzione scritta europea, in larga parte a stampa, riconducibile a una nozione la più ampia possibile di letteratura. Si comprende allora la scelta metodologica di esposizione che orienta gran parte dell’impresa, ovvero un approccio descrittivo per generi, talora tematico, quasi sempre la prima opzione sovrapponendosi o inglobando la seconda. Appare allora superfluo (oltre che impossibile) citare qui tutti gli autori che hanno contribuito all’impresa, mentre è possibile ripercorrerne la distribuzione in 12 capitoli, che costituiscono altrettanti nuclei tematici, segnalando – selezione certamente parziale e soggettiva ma che nondimeno individua chiari sforzi di interpretazione – alcuni interventi che offrono altrettante proposte storiografiche.   

Dopo l’abbozzo, nel primo capitolo (Transformation de l’Occident), di alcune macroscopiche coordinate storico-sociali di riferimento (la formazione di un mercato mondiale, il pericolo turco, gli assetti urbani e rurali, l’asservimento dell’Italia alle potenze straniere), il secondo e il terzo capitolo del volume appaiono interamente consacrati alla letteratura di argomento religioso, il cui impatto linguistico e stilistico si rivela in questi anni decisivo soprattutto in area franco-tedesca, e di cui si offre un doppio quadro articolato per autori o filiere confessionali (Mouvements réformateurs et littérature) e per generi (Diffusion et répercussion dell’évangelisme). Da una parte, fra le opere composte dai rappresentanti dei diversi movimenti (luterani, calvinisti, radicali, mistici, evangelicali, cattolici), assoluto risalto prendono quelle di Lutero – vero creatore della nuova teologia evangelica ma anche del primo modello normativo per la lingua tedesca – di cui Markus Wriedt, insistendo sulla nozione di «riforma conservatrice» (p. 43), offre un’ampia e puntuale – talora apologetica – panoramica. Non diversamente in Francia, è con i testi di Calvino e di Théodore de Bèze, con i Salmi messi in verso da Clément Marot e con i pamphlets dei polemisti religiosi, che trova origine la lingua francese classica (Higman, p. 72) e la frase semplice e lineare riesce ad avere la meglio sull’ornato e sulla sofisticazione avanzati dai poeti della Pléiade. D’altra parte, accanto agli scritti dei grandi riformatori, è necessario considerare le forme in cui proliferano tanto una ricca «letteratura di combattimento» (p. 113), che spazia dagli scritti dei polemisti ai pamphlets, dalle satire alle opere storiografiche e teatrali, quanto una più formalizzata «letteratura di edificazione» (glosse, commentari, sermoni, esposizioni dottrinarie); senza dimenticare lo slancio che acquisisce, sotto il doppio impulso dell’umanesimo e della Riforma, la pubblicazione in volgare delle Scritture, che sancisce l’abbandono della Vulgata di San Girolamo e impone il ricorso a fonti in lingua greca ed ebraica (soprattutto Erasmo per il Nuovo e Sante Pagnini per l’Antico Testamento). Il quarto capitolo (Défense et illustration des langues nationales) ripercorre lo straordinario sviluppo – in alcuni casi la nascita – della questione del volgare che, condizionata ovunque dalle prescrizioni di Bembo e dal «primato linguistico e letterario dell’italiano» (Chavy, p. 180), oltre ad alimentare la pubblicazione di grammatiche, vocabolari, retoriche e poetiche, orienta nei diversi paesi le pratiche di traduzione e imitazione. Normativa e prescrittiva è anche la materia del quinto capitolo (La civilité nouvelle), dedicato ai trattati sul comportamento, sul matrimonio e il ruolo sociale della donna, ma soprattutto alla nuova pedagogia umanistica, capace di far convergere cattolici e riformati (ad eccezione dei calvinisti) nel riconoscimento della necessità, già propugnata da Erasmo, di combinare cultura antica e dottrina cristiana. Da segnalare in questa sezione l’intervento tematico e pienamente comparatistico in cui John McClelland attira l’attenzione su quel fenomeno, condizionato dagli sviluppi della medicina, dell’anatomia e della storia dell’arte, che porta in questo periodo all’«instaurazione del corpo come oggetto costitutivo di un discorso di finzione e come soggetto d’azione letteraria» (p. 217). Di carattere soprattutto teorico sono invece gli scritti al centro del sesto capitolo (Conscience littéraire et artistique), inerenti ai dibattiti e alle questioni che percorrono non solo la riflessione sul dominio poetico e sul sistema dei generi letterari, ma interessano anche altri ambiti della creazione artistica alla ricerca di una propria autonomia (pittura, scultura, musica, architettura). Di fronte alla crisi della retorica, che perde le sue tradizionali funzioni etico-politiche e si riduce a «un dominio strettamente letterario» (Vasoli, p. 236), l’insieme di questa riflessione si intensifica per impulso della riscoperta, o per meglio dire dell’«invenzione» cinquecentesca della Poetica di Aristotele (Aguzzi-Barbagli, p. 247). Sul versante della letteratura di finzione, il settimo capitolo (Pour l’aristocratie de l’esprit) mette inequivocabilmente in luce il diffondersi in questo periodo di correnti poetiche provenienti dall’Italia, dal petrarchismo nella lirica (dove è all’opera un duplice modello: quello di «un ben definito idioma poetico da imitare» e quello di «una soggettività non sottomessa che s’interroga su se stessa», Kushner, p. 332) all’investimento narrativo dell’umanesimo nel genere novellistico, dal fiorire dell’arte epistolare al perpetuarsi in forme rinnovate della materia cavalleresca. Vale la pena, a riguardo, segnalare la nozione, proposta da Michel Stanesco, di «umanesimo cavalleresco», da accostare a quella di umanesimo classico (entrambe forme di nostalgia del passato), quale categoria stilistica che impronta «un insieme di comportamenti socializzati, prodotti dall’idealizzazione delle virtù cortesi e degli altri fatti d’arme» e che «concepisce il destino dell’uomo come una serie di bei gesti, degni di essere eternati in una narrazione romanzesca» (p. 316). Un approccio diverso contraddistingue i saggi contenuti nell’ottavo capitolo (L’humanisme érudit), sociologico nella descrizione di centri (accademie, circoli letterari, ordini religiosi) e figure della produzione letteraria (stampatori, editori), maggiormente storico-politico nell’esame della storiografia umanistica e dell’umanesimo giuridico. La produzione di argomento scientifico, declinata secondo le varie discipline (aritmetica, geometria, astronomia, medicina, botanica, astrologia, alchimia), occupa invece il nono capitolo (Progrès de la science), in cui si attira l’attenzione sul processo generale di «quantificazione» che presiede nelle scienze alla costruzione di «un nuovo quadro matematico per il trattamento a un tempo teorico e pratico della natura» (Veltman, p. 396). Nella sezione successiva (Mondes nouveaux) dall’esposizione delle conquiste scientifiche si passa, alternando interventi storici e tematici a trattazioni più mirate della letteratura geografica e di viaggio, alla ricostruzione delle conquiste economiche e commerciali che accompagnano l’allargamento degli orizzonti geografici, all’insegna del quale si apre, con la circumnavigazione magellanica, il periodo preso in esame. Il penultimo capitolo (La culture populaire), prima di passare in rassegna alcune specifiche forme letterarie popolari (didattiche, epiche, liriche, teatrali, i canti nazionali), si sofferma sull’asimmetria fondamentale che regola durante il Rinascimento i rapporti fra cultura scritta ufficiale e cultura orale popolare, alla quale i membri delle élites letterate di fatto continuano a partecipare. Asimmetria di cui è necessario tenere conto per comprendere come mai, mentre in questo periodo «a causa dello sviluppo della stampa, la cultura popolare è più che mai influenzata dalla cultura scritta», essa diventa allo stesso tempo «l’oggetto della censura delle élites e della loro missione moralizzatrice» e, «progressivamente bandita dalla sfera pubblica, si rifugia nell’ambito privato» (Péméja, p. 519). Proseguendo questa nota dolente, il capitolo che chiude il volume (La Renaissance en crise), quasi a fare da contrappunto al vitale dinamismo che sembra pervadere l’insieme dell’attività letteraria rinascimentale, che sembra non conoscere arresti o momenti di regresso, porta in superficie il lato meno luminoso del secolo, i suoi conflitti morali, i suoi scacchi filosofici, le sue persistenti credenze apocalittiche.

Come è facile rilevare da questo regesto, la sfida presa su di sé dagli autori – quella di restituire la varietà e la portata della produzione letteraria rinascimentale nel suo complesso – è stata portata a termine con merito e con successo, per quanto non manchino alcune problematicità, a ben vedere implicite fin dalle premesse del lavoro. In primo luogo, è necessario insistere sullo statuto letterario esteso che viene attribuito ai testi, perché è molto probabile che al comparatista italiano la letteratura stricto sensu, quella di finzione (poesia e narrativa) – alla quale viene riservato in ultima analisi un solo capitolo – appaia un po’ troppo schiacciata nel mare magnum della trattatistica rinascimentale, con il rischio di perderne di vista il fondamentale ruolo all’interno del complesso della cultura dell’epoca. In secondo luogo, la scelta prevalente di procedere per generi comporta inevitabilmente alcuni inconvenienti: sacrifica le gerarchie interne all’attività letteraria; sostituisce a una mappa della complessa rete dei centri di produzione letteraria una semplicistica compartimentazione nazionale; entra in contatto solo in maniera intermittente con processi storici (come quello della secolarizzazione) che investono in maniera continua gli scrittori e configurano i testi come frutto di negoziazione con forze plurime. Infine lo sforzo costante degli autori di allargare la base nazionale dei propri studi a una dimensione europea non pare essersi accompagnato alla scelta di coinvolgere in maniera proporzionata specialisti di tutte le letterature (perché bisogna tener presente che, in assenza di una comparatistica che si occupi di Rinascimento, un’operazione del genere rimane l’incontro fra specialisti di ambiti disciplinari che mantengono una propria connotazione nazionale). In questo senso la quasi estraneità dell’accademia italiana a un tale progetto internazionale spiega forse l’immagine ambigua che l’Italia assume nel volume: centro di irradiazione europea di modelli poetici, teorici, scientifici, artistici, proprio perché descritta dal punto di vista dei riceventi, sembra rimanere al di fuori dell’attualità storica. Così, a tradire una sotterranea prospettiva francofila, lo spazio che vengono ad occupare nel corso dei saggi le figure di Marot, dei poeti della Pléiade e di Margherita di Navarra, risulta sproporzionato rispetto ai loro pur contemporanei modelli italiani, cui viene riservato un trattamento analogo a quello dei classici (così per Ariosto, così per Guicciardini). Grazie a tale (involontario?) decentramento l’Europa di questo volume, che riconosce il proprio principe in Erasmo, finisce per disegnare al centro del continente il proprio cuore cristiano – diviso e allo stesso tempo unito dai conflitti religiosi – ma a costo di voltare le spalle non solo al Mediterraneo e alle sue isole e penisole, ma anche a quegli spazi, così tipicamente rinascimentali e così diffusi prima della Controriforma, in cui le identità diventavano ambigue, le appartenenze negoziabili, le parole eversive e gli scritti corsari.    

(Toni Veneri)


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