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STEFANO CARRAI, Il tempo che non muore. Con una nota di Luigi Surdich, Novara, Interlinea edizioni, 2012, pp. 90, euro 12.

«Il tempo che non muore e ci rimane / dentro è una consolazione»: sono i versi iniziali di Cercando un gate, la lirica posta da Stefano Carrai a chiusura del suo primo libro di poesia. Libro, non semplice raccolta, nonostante la misura sia di poco superiore alla plaquette; il fatto che il titolo sia preso proprio dai versi della lirica finale sembra indizio, del resto, di una volontà costruttiva, della presenza di un principio di organizzazione che tiene insieme le parti diverse di Il tempo che non muore (malgrado queste non siano riconducibili – con le parole di Surdich – «a unità di canzoniere»).

Nella prima sezione, Foglio matricolare, l’io conduce un’inchiesta emotiva intorno all’esperienza del padre in guerra, immaginandone e a tratti ricreandone ragioni e fatti, cui il bambino di un tempo poteva accostarsi solo proiettandoli contro lo schermo retorico delle letture di scuola: «i tuoi racconti / erano un po’ l’Iliade / un po’ Le mie prigioni». La seconda sezione, Ai miei occhi soltanto, descrive una traiettoria di formazione sentimentale e di presa di coscienza storica, attraverso la geografia personale dell’autore: dalla Versilia delle estati di ragazzo, ignare del passato che aveva imposto una forma ai luoghi conosciuti («Questi stucchi art decó / da ragazzino / non erano l’eleganza superstite / dell’Italia fascista», Passeggiata di Viareggio) fino all’Olanda in cui Carrai ha vissuto e insegnato («la pena dei ritagli di Anna Frank / rimasti sulla carta da parati…», Gli anni di Amsterdàm). La sezione Angelus novus contiene una sola poesia, di valore quasi programmatico: l’autore vi svolge infatti il tema evocato nel titolo benjaminiano, quello del passato come traccia il cui senso si svela procedendo con lo «sguardo retrorso», volto all’indietro (come l’angelo raffigurato nell’omonimo acquerello di Klee): «mi seducono le tracce / i residui / l’abbandono lasciato / passando / dalla grande ala del tempo». Le ultime tre parti del libro declinano quel tema dapprima attraverso una spazializzazione del tempo (nella sezione Cartoline), misurato con la doppia vista di chi, guardando un luogo, una città, vi sovrappone le figure del passato, gli amici e i maestri, come Giovanni Parenti e Gianfranco Folena. Nella sezione successiva, Taccuino familiare, il filo del tempo congiunge il ritratto della madre adolescente al ricordo dei gesti delle figlie bambine. Si capisce qui come il tempo che non muore sia anche il tempo di ieri adempiuto nell’oggi e nel domani, attraverso la corrispondenza tra le generazioni e l’impegno a conservare un senso, una storia. È proprio questo il motivo che tiene insieme le poesie dell’ultima sezione, Aforismi ritmici, alcune delle quali rendono omaggio a figure come Renzo Gherardini, o come la «bruna reginetta di Saba» della trattoria Bibe al Ponte all’Asse, ritratta giovanissima nelle Occasioni di Montale: testimoni d’incontri e vicende del Novecento fiorentino di cui Carrai vuole salvare e celebrare appunto le tracce, i residui.

La densità variabile e l’oscillazione tematica del macrotesto sono tratti che il libro di Carrai condivide con alcuni suoi punti di riferimento nel canone moderno e contemporaneo: Montale e soprattutto Sereni, gli stessi autori che, con Saba, sono al centro degli studi che il Carrai filologo e docente di letteratura ha dedicato alla poesia del Novecento. I tre poeti sono anche quelli che affiorano più spesso alla memoria letteraria dell’autore, con grado diverso di allusività. Il titolo della lirica finale, la già citata Cercando un gate, ricalca quello di un flash montaliano (Lasciando un ‘Dove’); mentre i versi conclusivi della medesima poesia («siamo entrambi / coi piedi sul nastro trasportatore») sembrano riferirsi a un’altra famosa immagine di un Montale più tardo: «Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri / che paralleli slittano» (Tempo e tempi, in Satura), giusta in entrambi i testi l’analogia tra lo scorrere del tempo e quello di un nastro meccanico. Numerose le citazioni vere e proprie, come nel ‘dittico’ spontaneo costituito da A ricordo di Renzo e Trattoria fuori porta: le tessere intertestuali – prelevate da Saba e ancora da Montale – sono qui, più che altro, elementi di un linguaggio del ricordo, adottato per modulare l’esperienza in chiave di elegia e al tempo stesso di illuminazione, riconoscimento imprevisto (e a tratti euforico) di un residuo illustre. La presenza (costante, a volte perfino ingombrante) della letteratura nei versi di Carrai perciò, non è esibizione colta del poeta-professore, ma forma del tempo interiore che trova nella citazione e nell’allusione uno strumento di condivisione, oltre che un legame tra il passato abitato dagli scomparsi (e dallo stesso protagonista, negli anni della prima giovinezza) e il presente dell’io. Presente in cui il tempo sopravvive, o prova a farlo, difeso dalla mite lotta che il soggetto ingaggia con l’oblio. Talvolta la sconfitta è incombente («Penso al tempo / al suo asse / curvo / e il buio mi cala / addosso / di sorpresa», In terrazza); altre volte «la subdola fedeltà delle cose» (Sereni) convince alla celebrazione. In questi casi, il rito individuale non vuole solo esorcizzare il passato che si dilegua, ma anche ispirare un tentativo di riconciliazione e di rinnovamento di sé: «Da un po’ mi sono fatto / ricrescere le unghie / come se fossi un vero chitarrista // […] / come se volessi accorciare i più / di quarant’anni passati» (Aria).

Concepite per lo più come istantanee di tempi e di luoghi direttamente o indirettamente familiari all’autore, le poesie del libro sono composte nello stile medio che meglio si concilia con la loro intonazione emotiva. La domesticità dei contesti non autorizza mai la discesa nel vernacolare (pochissime sono le tracce toscane, più colloquiali che regionali: ‘te’ soggetto, ‘spenge’ per ‘spegne’). D’altro canto, le scelte lessicali sono ispirate dalla necessità di testimoniare per mezzo di una nominazione onesta, capace di chiamare le cose con il loro nome senza compiacimenti ed escursioni in alto e in basso. Numerosi sono i forestierismi, i toponimi e i nomi fortemente evocativi del colore locale e temporale («il magazzino Duilio Quarantotto»). Più in generale, a prevalere è il lessico dell’esperienza, sia questa da riferirsi alla guerra nei ricordi del padre (tradotte, plotone, zaino affardellato – che passa però attraverso una memoria sabiana), sia quella del giovane protagonista (si pensi al lessico calcistico di Virtus Arno: pallonetto, svirgolando).

 Le stesse citazioni dalla poesia del Novecento non sono esibite come insegne araldiche, ma come lemmi più cordiali di un vocabolario culturale accessibile. Del resto, i versi delle poesie convivono con quelli memorabili delle canzoni (come in Bagno Manè: «Ho scritto t’amo sulla sabbia / Dio / è morto / all’ombra dell’ultimo sole…»).

Lo stile del ricordo coinvolge anche gli aspetti metrici, qui più determinanti ancora del lessico, perché incidono sulla struttura dei testi. Caratteristici delle poesie di Carrai sono infatti, tra gli altri, due fenomeni complementari, quali la presenza significativa di versi ‘a scalino’ e la tendenza a ribadire la chiusura del testo con un finale metricamente marcato: ad esempio attraverso l’uso dell’endecasillabo regolare (in poesie che ne sono povere) e della rima ravvicinata (anche con effetti stranianti o ironici, come si vede soprattutto in Foglio matricolare: ‘comodino: moncherino’, ‘fritti misti: turisti’). Di entrambi i fenomeni, ben attestati nella tradizione del Novecento, si può dare un’interpretazione che ne metta in luce la funzione rispetto alla dinamica dell’evocazione, centrale nel libro; esemplare, in tal senso, è la poesia iniziale, il cui testo è fatto da una sequenza di gradini per lo più monoverbali («I richiami / le tradotte / i piroscafi»; «Germania / prigionia / amputazione») e sigillato da un endecasillabo sdrucciolo («su questo vecchio foglio di matricola»): gli uni individuano i residui, gli sparsi materiali che il tempo si è lasciato alle spalle e che riaffiorano alla spicciolata; l’altro, il verso regolare di chiusura, sancisce la persistenza di quelle tracce, recuperate dentro un sistema che le organizza e le preserva.

Niccolò Scaffai

(in uscita su Semicerchio 50, 2014)

 


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