« indietro GIOVANNI NADIANI, Il brusio delle cose. Sintagmi feriali in lingua bastarda, Prefazione di Simone Giusti, Faenza, Mobydick, 2014, pp. 69, € 11,00.
«L’aspetto feriale degli oggetti» è il sintagma con cui Roberto Longhi definì memorabilmente il nucleo del realismo caravaggesco, la sua evidenza fenomenologica quasi morandiana. Ora, stando alla poesia romagnola di Nadiani, mentre continuano a vivere di una vita loro e la loro fenomenologica alterità si esprime in brusii elettrici e elettronici, gli oggetti sono anche diventati merci, esistono perfino oltre il loro valore di consumo: «la roba la va sempr avanti da par lì / a furer e’ dè» (‘la merce avanza sempre da sola / a penetrare il giorno’). Sopravvivono all’uso: i rifiuti, i rottami e le merci sugli scaffali degli ipermercati sembrano una cosa sola, saturano il mondo e quell’angolo di paesaggio italiano che è la Romagna. Tutta la seconda parte del libro (Ritrèt – istantanee) è fatta di testi brevi costruiti come altrettanti haiku in romagnolo. Dedicati a Giovanni Zaffagnini, fotografo di ‘ricerche sul territorio’, gli effetti di straniamento così tipici dei paesaggi di Luigi Ghirri: «i umbrilon asré da e’ sabion» (‘gli ombrelloni chiusi battuti dalla sabbia’) si presentano qui come parcellizzati («manifest smalvì d’partì i sbat a bangera / e pu i s staca»: ‘manifesti di partiti scoloriti sventolano / e poi si staccano’), appena attualizzati («al bicicleti mezi inriznidi dal badanti / parchigedi int e’ perch la zobia dopmezdè»: ‘le biciclette mezze arrugginite delle badanti / parcheggiate nel parco il giovedì pomeriggio’), dispersi in una tipica piazza metafisica della pianura: «porbia a mulinel la s liva tra i giarul / insimunì da e’ sol dla piaza // 3 scudlot d’gelè sfat a ruzler / contra e’ scalen de’ marciapì» (‘Polvere a mulinello si alza tra i sampietrini / storditi dal sole della piazza // 3 barattoli di gelato sciolto a rotolare / contro il cordolo del marciapiede’). E le immagini possono subire ingrandimenti brutali a documentare gli effetti provinciali della globalizzazione: «No delocalizzazione. 3 capanôn vut / vidar rot tub inriznì ziment sgrustlê //1 linzol smalvì e sfranzê e’ svintaia / a bangera»(‘No delocalizzazione. 3 capannoni vuoti / Vetri rotti tubi arrugginiti cemento scrostato // 1 lenzuolo sbiadito e sfilacciato sventaglia / a bandiera’). Di ‘feriale’ insomma, è rimasta la lingua, anch’essa staccata dagli oggetti, al loro (inutile) inseguimento: un dialetto contaminatissimo, con l’italiano, con l’inglese (‘lingua bastarda’ ma insieme forse ha ancora qualche chance di rivolta se bastèrd è anche la parola che significa ‘giovani, ragazzi’?), che resiste per frasi fatte (i sintagmi del titolo) nella memoria di chi ancora lo parla o lo ha sentito parlare ed è comunque (la sociolinguistica ce lo insegna) un po’ presente anche nell’italiano dei nativi e di chi è arrivato in Romagna negli ultimi vent’anni. Tutti i testi lunghi della prima parte sono testi-suite al modo delle performances ‘parlate’ di Nadiani fatte con accompagnamento di strumentisti jazz. A volte la performance si fa strada nei testi con il vecchio gesto dada (e delle avanguardie viennesi degli anni sessanta se pensiamo alla cultura di Nadiani che è quella di un germanista) di seminare parole esplose sulle pagina. Soprattutto, è il titolo di tutta la sezione, post-felliniano e post- Tonino Guerra: aNmarcord ‘non mi ricordo’, aperta da testo un testo programmaticamente anti-terapeutico, sull’impossibilità di usare musica e poesia come cura ritardante dell’Alzheimer (Alzpoetry e si intende soprattutto la propria poesia che sona nel «zet vut dla mi testa» ‘silenzio vuoto della mia testa’), che sancisce come la lingua feriale vada ormai slegata dal frame di un uso parlato (e scritto) condiviso. La lingua è feriale in quanto si è fatta vicaria della vita degli oggetti, li descrive perifrasticamente, ha abdicato al potere di crearli. L’immagine forte che rimane è quella del ‘poeta’ seduto nel vuoto di una serata estiva nel giardino nell’improvviso silenzio creato dalla migrazione in massa della gioventù faentina verso una discoteca della costa romagnola e interrotto solo da sirene nella notte (cioè, secondo il pattern della frase fatta: «al sireni dla pulizia – o srala la cros rosa?», ‘le sirene della polizia – o sarà l’autoambulanza?’), dall’epifania di un aereo della Ryanair («al lus de’ sòlit aparec dla Ryanair / da ca d’dio l’ultm os a sbaliner sempre piò basi / par sparir cun un rug d’la de’ fiom», ‘le luci del solito aereo Ryanair / da in capo al mondo a balenare qui sempre più basse / a sparire con un rombo oltre il fiume ...’). Nadiani sembra accogliere il consiglio finale della famosa I vècc di Tonino Guerra: «I vécc i m’à fatt sègn / ch’a guèrda bén in zéir / préima ch’a m ciéuda ad chèsa» (‘I vecchi mi han fatto segno / che guardi bene in giro / prima di chiudermi in casa’). Si è chiuso in casa. I vecchi e tutto un patrimonio di lingua e di esperienza sono un’assenza, il ricordo tutt’al più dei gesti e dei segni delle carte («i bosa e i stresa», «i taja», ‘bussano e strisciano’, tagliano’), in un finale di partita di aria beckettiana. Al buio compie gesti triviali: «a ’rves ’na bera pian / a ’pej un muzgon d’fujaza pian pian / sora un blues d’Van Morrison: Cry for Home ... » (‘lento stappo una birra / lento lento accendo un mozzicone di toscano / su un blues di Van Morrison: Cry for Home ...’). Possono sembrare i gesti del meritato riposo di chi nella scrittura ha salvato ancora una volta l’originale, un residuo di vero nelle cose e che (come scrive Simone Giusti nella prefazione) anche se sporco e male in arnese, resiste, perché passa pur sempre attraverso il corpo, cioè attraverso il dialetto. Ma gli elementi di un finale ci sono tutti: fine dell’autore, fine della lingua, fine del mondo. Soltanto, c’è il rito di spostare la fine più in là, nonostante il monito del poeta yiddish lituano-newyorkese Eliakum Zunser: «mai sopravvivere alla propria lingua». Per chi scrive una lingua feriale c’è ancora molto lavoro da fare. (Fabio Zinelli)
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