« indietro LUIGI SOCCI, Il rovescio del dolore (Poesie 1990-2004), con una nota di Massimo Raffaeli, Ancona, italic pequod, 2013, pp. 143, € 10,00.
Se il libro raccoglie con un certo ritardo la sparsa produzione di Luigi Socci (Ancona, 1966), la critica si era mossa per tempo per riconoscerne il valore evidenziandone molto pertinentemente due componenti essenziali. L’appartenenza a una linea comica italiana (in cui Socci si riconosce pienamente), un «comune buon buffo italiano», secondo le parole di Friedrich Schlegel in esergo, che qualcosa ha a che vedere con un ‘categoria’ agambeniana, ed è soprattutto, come vuole la tradizione, una maschera per dire il suo contrario (Paolo Febbraro: «Socci è un vero tragico che per pudore si fa comico»). Socci non ha infatti tutta la violenza di un poeta comico (non ci si immagina un «S’io fossi Socci arderei lo mondo»). La lingua quella sì è ‘comica’, con punte di preziosismo, come nel bellissimo e burchiellesco funerale di parole organizzato in memoria di Franco Scataglini in 28 agosto 94: «Nerastro miramare / funereo zittarsi di triglie / bare a vela [...] Cozze col cuore a pezzi [...] Un morto vive altrove». D’altra parte, del performer Socci è stata subito vista la qualità teatrale della parola, non solo perché detta in teatro ma perché costruita teatralmente (Cecilia Bello citando Tristan Tzara: «il pensiero nasce sulla bocca»). E Massimo Raffaeli nella post-fazione evoca ora il modello del saltimbanco (J. Starobinski), buffone e sabotatore delle idee ricevute ma insieme fraterno saggiatore di ciò che di vero in esse rimane. Per avere visto Socci recitare circondato da fumo che non è fumo ma il vapore acqueo di una sigaretta elettronica, contraffazione di un poeta-fumista, citazione vivente del Perelà palazzeschiano, l’omino di fumo (e che l’uomo è fatto di fumo o di polvere, è ricordato con vena barocca nei versi: «se è vero che la polvere / domestica è composta / dal nostro quotidiano sbriciolarci / in parte consistente»), penso si possa applicare a Socci un’ulteriore incarnazione del performer, quella del mago illusionista. Una poesia è dedicata a Silvan, il mago della televisione, che per contrasto con l’epigrafe cavalcantiana (la famosa immagine dell’automa di Io vo come colui ch’è fuor di vita) appare soprattutto come un povero diavolo: «In un cerchio di fuoco, senza scarpe / svelando al primo colpo le mie carte / storcevo un cucchiaino / (l’orologio schiacciato in un pestello) / con un buco vistoso nel calzino». E allo stesso modo si legge l’inventario di trucchi da circo di un clown scalcagnato (tra cui: «fialette puzzolenti», caramelle all’aglio, la starnutina, «le marlboro fasulle / munite di tagliola / che stacca una falange»), carne da circo: «Nel vario armamentario / del circo dello strazio il requisito / necessario è che spruzzi / o dia la scossa / ogni cosa. // Carne professionale / siamo del carnevale / del finto farsi male la ferita / che maschera la piaga». Queste sono però soprattutto le maschere dell’autore, abile a pescare in un baule pieno di travestimenti, mentre più in profondità all’interno del testo avvengono ben altre esperienze di prestidigiditazione. Sono i trucchi per cui il verso è sbriciolato e ricomposto come un orologio dopo una vera martellata per finta: «attore è l’anagramma di teatro», o «processo di deversificazione» (per ‘desertificazione’), o quando si nasconde l’oggetto per poi farcelo vedere al posto sbagliato come in «Ha un diavolo per setola / ha i nervi a fior di cotica / il maiale», o, come nel titolo «Fare il plazer», per détournement di una frase fatta e triviale nella definizione di un genere della poesia provenzale. Allo stesso effetto serve l’uso della rima tra Palazzeschi e Caproni, rima come leva per una capriola metafisica (sono quasi pseudo-citazioni caproniane: «L’avviso ai naviganti era criptato. / Era evidente il posto era sbagliato», e, in consonanza: «Forse nemmeno c’eri / visto che non esisti, / forse nemmeno c’ero / -io? Figurarsi.»), né può mancare l’illusione di una rima per l’occhio: male con Yale (la serratura). Ma non è tutto. Il lettore è infatti più volte colto e colpito a freddo. Si tratta di quello che il grande Orson Welles, che era un appassionato di magia (andava alle feste con un coniglio in tasca nella speranza che qualcuno gli chiedesse di fare dei trucchi), chiamava la tecnica del cold reading. In alcune interviste, Welles parla della sua occasionale esperienza di veggente e di fake fortune teller come dell’arte di fare previsioni o rivelazioni sul passato di uno spettatore scelto dal pubblico che sembrano accuratissime ma in realtà lo abbagliano con ovvietà. Se si dicono cose del tipo: «tra i 15 e i 17 anni hai avuto un periodo molto difficile» («Sì, è vero! Come fai a saperlo?»), è chiaro che il veggente sta dicendo una cosa ovvia e banalissima (tutti abbiamo avuto un periodo difficile tra i 15 e i 17 anni). Il veggente legge in trasparenza l’ascoltatore affidando al proprio inconscio la lettura dei segnali che arrivano dall’inconscio dell’interrogato, imbrogliandoli. Questo è il cold reading secondo Welles e di cui va sottolineato tanto il carattere freddo dell’atto pseudo-interpretativo quanto il brivido del mago nell’abbandonarsi al trucco, credendoci (così come ogni mago crede di essere ‘il più grande mago del mondo’), per poterlo mettere in relazione con le tante freddure che attraversano i testi di Socci. È un processo di disvelamento graduale e poi fulminante che si svolge davanti ai nostri occhi. In un testo più recente e non incluso nella raccolta, Poesia visiva, l’anafora «Adesso vi faccio vedere» induce una vera e propria ipnosi introducendo visioni sempre nuove ma preparando il risveglio finale del pubblico per la sorpresa di riconoscere finalmente tutta la frase, nota dalle cronache («Adesso vi faccio vedere come muore un italiano ... »). Ma basta prendere qui tra vari miraggi («Qualcuno è appena uscito / con passi senza piedi», oppure, in A babbo morto: «... per intanto essendosi reso disponibile / il corpo del Socci in concomitanza / con la di lui mancanza ...»), il testo Certi rovesci che spiega il titolo della raccolta: «La foglia rimbalza in cima all’albero / la primavera retrocede a gambero. // La pagina si sbianca / l’inchiostro è risalito nella penna. / (bel risparmio) // Il fumo scende nella sigaretta / tornata intatta / come mamma l’ha fatta. / Fumo di meno e ho il pacchetto pieno. / (tutta salute) // Rovescio del dolore il suo discuore. / Allegri! Oggi si muore». Insomma, la risata muore sulla bocca: il rovescio del dolore è sempre il dolore e il dolore finto è vero. Del resto, non si può giocare con l’inconscio e uscirne indenni. Se la frantumazione e ricomposizione delle parole ha il suo culmine nella ripetizione di lapsus linguistici a grappoli (per es. il citato «bare a vela»), l’iterazione appende chi scrive e chi legge allo stesso vuoto. È il momento in cui scatta e ci unisce il Freddo da palco, titolo della piccola, compatta raccolta che chiude il volume. Nel testo finale, la «lunga didascalia in versi» Ultima prima al Na Dubrovka, va in scena la strage nell’omonimo teatro moscovita, quando, il 23 ottobre 2002, le forze speciali russe intervennero per liberare gli spettatori presi in ostaggio da un gruppo di militanti ceceni. Secondo la ‘tecnica’ del disvelamento assistiamo a una messa a fuoco progressiva e glaciale: «Il teatro russo degli anni ottanta / mi stanca. / Il teatro russo degli anni novanta / invece incanta. / Ma il teatro russo degli anni zero / è vero». La regia prevede ancora: «Una cappa di fumo scendeva dal soffitto / come un effetto speciale reale», con la nota che «L’emissione vocale del morire / non arriva alle ultime file», e l’immagine di un cadavere, quello «della giovane terrorista addormentata morta in poltronissima». L’illusionista prova qui di sapere anche attraversare il muro dell’impossibilità di parlare degli altri, per quanto sappia, con il Ripellino di Il trucco e l’anima, che «ogni discorso sugli altri è un diario truccato». Ma il rovescio della vita è il teatro, ed è vero. (Fabio Zinelli) in Semicerchio 50 (2014, 1) ¬ top of page |
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