« indietro RENATA MORRESI, Bagnanti, postfazione di Adelelmo Ruggieri, Roma, Giulio Perrone Editore, 2013, pp. 79, € 12,00.
A invitare un azzardato parallelo tra le Grandi bagnanti di Cézanne e i bagnanti che danno il titolo alla nuova raccolta poetica di Renata Morresi, non è l’equilibrata composizione di corpi astratti del celebre dipinto, nè la loro epidermide di strati di colore, come costretta da profonde linee nere di contorno. Le due opere iniziano a dialogare solo laddove cessa la determinatezza della figura, nel punto in cui si spezza la sua singolare separatezza, come nell’angolo destro della grande tela del 1906, in cui un piede perde contorno, si disfa, si confonde con lo sfondo, in un sanguinamento bianco, un lento defigurarsi. Anche i bagnanti dei versi della prima ed eponima sezione del libro di Morresi sono «abitanti confusi» e «mobili», sfigurati proprio perchè mai individuati da un preciso contorno soggettivo, ma sbavati, liquefatti nella condizione della loro moltitudine: «essere molti» sono le parole-soglia di questa raccolta. I bagnanti, i viaggiatori, gli affittuari e i passeggeri che incontriamo rispettivamente nelle quattro sezioni che compongono il libro sono soggetti collettivi, figure d’insieme («tutto questo accade insieme / tutti insieme tutto in una / volta sola»), una collettività apparentemente pre-politica, moltitudine in sè, punto in cui la società si manifesta come pura prossimità fisica dei singoli viventi, brutalmente aliena («tutti grigi extraterrestri / bracci lunghi come gambe / scivolando stupefatti lungo / gli altri non sfiorando / che gli spazi»). Rispetto al precedente Cuore comune (2010), dove l’aggettivo sembrava richiamare l’idea di una possibile concezione alternativa dei rapporti sociali, in Bagnanti si avverte il senso di un compiuto disastro, quello di un paese che arretra fino a minuscolarsi («l’italia fa così, / quest’anti-passo») e il cui destino ha coinvolto fatalmente i propri cittadini («è che a forza di pensare all’Italia / siamo diventati un po’ Italia anche noi»). Come Morresi, anche Bernard, il personaggio che ne Le onde di Virginia Woolf pronuncia la frase posta ad epigrafe della prima sezione («non credo che siamo essere separati, soli») è uno scrittore che scandaglia il linguaggio e che fatica a distinguere la propria e l’altrui esperienza. Per Bernard ci «sciogliamo gli uni negli altri tramite le frasi», a formare non una individualità ma un «territorio inconsistente». È da questo tipo di territorio che emerge, come uno scoglio, l’io di questa scrittura, per scomparire però immediatamente nell’indeterminatezza del «noi» dei bagnanti e delle altre concrescenze soggettive. In tutta la raccolta, proprio il senso generale d’indeterminatezza è enfatizzato dall’uso violento dell’enjambement, che provoca un incresparsi della superficie testuale paragonabile a un moto ondoso, figurale e sintattico. È in un contesto identitario costantemente diluito nel collettivo che l’«ufficio degli scomparsi / ampio mar mediterraneo» rivela a lettori e bagnanti anche identità letteralmente sciolte dall’acqua, perdute per sempre. Sono quelle dei migranti che cercano di raggiungere le coste delle isole siciliane («la notizia d’una carta / d’identità sulla battigia // mezzo nome seguito da numeri / ora è un altro / nome»), i cui frammenti sono portati a riva da una corrente d’anonimato, nomi decomposti come i corpi che giacciono negli abissi marini («denti, falangi in fila / sulla sabbia sotterranea, sui gasdotti»). La lingua di Renata Morresi descrive il movimento sempre ondivago di un’esperienza della contemporaneità mai completamente capace di circoscrivere l’oggetto osservato o il soggetto osservante. Si prendano ad esempio i versi seguenti: «vicino al lunedì / ce n’è uno vuoto di / ore, tutto specie eccitante e / contemporaneo niente, / mancante minore». Se da un lato è impossibile determinare l’oggetto del discorso, che sfugge con la neutralità plastica di una medusa verbale, dall’altro si ha la certezza che esso coincida con uno stato di assenza, di vacanza. Come in Un posto di vacanza di Sereni, anche le quattro sezioni di Bagnanti tracciano in vari modi la topografia linguistica di un vuoto pudicamente doloroso. Sono certamente un posto di vacanza le isole Pelagie che fanno da sfondo alle serie Bagnanti, in cui la morbida narratività della poesia sereniana è però soppiantata da una parola spasticamente contratta e spigolosa, che pungola il lettore con l’asperità di un corallo. Ma sanno di vacanza anche i partenti, «in file in gruppetti», della serie Aeroporto o i viaggiatori e i turisti di Trenitalia, dove l’idea di un’evacuazione identitaria è sottolineata dall’ambiente indagato: due non-luoghi come l’aeroporto e la stazione. Anche nella serie Vendesi, composta di false ottave che esplorano l’interno di appartamenti vuoti, vacanti, di case s-casate – per impiegare un termine caro al Giovenale citato in epigrafe – la soggettività si manifesta solo in maniera sindonica, ad esempio nelle «ombre di mobili» sui muri delle camere. Il vuoto, il «troppo vuoto» che disorienta un io parimenti disabitato, si materializza così sulla pagina in Facciata II, nella forma di un rettangolo bianco che riproduce en abyme una finestra aperta («si vede il bianco della finestra aperta»). Come testimoniano sia l’insistenza del «si vede» che il titolo Vendesi, siamo alle prese con una scrittura impersonale che è insieme una maniera di descrivere e di arginare il senso di vuoto, di deserto, entro cui transita, fluttuando, il soggetto. L’espressione stilisticamente piú raffinata e originale dell’ossimorica «piena mancanza» attorno alla quale si articola questa raccolta la si trova però nell’ultima sezione, Trenitalia, nell’intarsio orale di voci anonime dei passeggeri del treno, «tappeto di parole» tanto chiare quanto insensate di una collettività di cui siamo al tempo atterriti spettatori e involontari attanti. Quella che Morresi rifunzionalizza poeticamente è la parola svuotata e standardizzata dei cellulari («non prende», «c’è solo una tacca»), la lingua dei luoghi comuni («hai visto che gambe? », «ci vediamo, ciao»), un’oralità collettiva che ci rende tutti uguali eppure intrinsicamente incapaci di comunicare nulla che sia veramente significativo. Qualcosa che la poesia ha ancora la capacità di mostrare, senza piú alcuna certezza di potervi porre riparo.
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