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MARCO GIOVENALE, Delvaux, Salerno-Milano, Oèdipus, 2013, pp. 89, € 11,00.

 

Come titolo, nitido, monorematico, il più recente libro di Marco Giovenale reca il nome di un pittore che con difficoltà – con felice difficoltà – trova collocazione all’interno di un movimento, di una corrente: Delvaux. Con le sue architetture classiche ricostruite o ‘risognate’, con i suoi pieni, carnali nudi di donna, con i suoi rarissimi ed enigmatici uomini abbigliati, con i suoi rigori e le sue morbidezze, con le forme esatte e gli scarti di senso, gli enigmi spalancati, Paul Delvaux «è appena dentro appena fuori dal surrealismo», si legge in (Esplicito), la nota d’autore in calce. La raccolta di Giovenale non presenta immagini, quadri commisti ai testi, il rimando al pittore è solo segnale, si sarebbe tentati di dire senhal, di un nodo dall’autore doverosamente amato: il proprio rapporto con il Novecento, il rapporto con la propria scrittura del e nel Novecento, e, di conseguenza, con la propria scrittura dopo il Novecento. Riflessione di poetica quant’altre mai, e insieme, quasi di necessità, riflessione esistenziale, questa raccolta di versi è invero molto problematica, sia per l’autore, scientemente, sia per i lettori. Lancia, rilancia una questione capitale che investe la tradizione del Novecento, i suoi linguaggi, i suoi temi e la sua retorica, la sua conclusione o il suo perdurare, ostinato, nel secolo successivo. La messa a frutto della sua eredità, se davvero il Novecento può dirsi chiuso, la sua peculiare longevità a oltranza, con le sue spinte e diramazioni che invadono il secolo nuovo, se invece il Novecento è ancora vitale. La lettura di Delvaux conferma l’impressione che per Giovenale quello che ci ha preceduto sia un ‘secolo lungo’, scoprendo così una consonanza teorico-interpretativa dei fenomeni storici e culturali non tanto con Hobsbawm quanto, a sorpresa, con Sanguineti che, in quel «mosaico arbitrario» che è il suo Ritratto del Novecento, lo considerava addirittura «interminabile». E si dice ‘a sorpresa’ perché il Sanguineti poeta o critico non ha mai funzionato, per Giovenale, come modello attivo. La premessa posta da Delvaux, che vuole essere libro «di confine», appare di fatto interrogativa e non risolutiva. Si tratta di un congedo autentico o solo di un’intenzione? O meglio di una finzione di congedo, di una sua (ri)costruita, testuale e sapiente messa in pagina? In Delvaux Giovenale espone lacerti del suo Novecento, della sua scrittura dell’altro secolo dilagata nel primo decennio nel Duemila: alla soglia del libro la precisazione «Delvaux. Inizio della distanza / (sezioni, resezioni, ripetizioni) / 2002-2010». Sopravvivenze poetiche, porzioni resecate da contesti oggi divenuti (o percepiti) altri, ripetizioni di moduli e temi già esperiti. In effetti alcuni testi sembrano scampati da precedenti libri di Giovenale, quasi ne fossero fantasmi concettuali e tematici, oltre che formali. Il primo testo della sezione QUALCHE DECLINO AVANZATO, la quinta di sette totali, è particolarmente rivelatore: «Clima della clinica» non può che rimandare a Shelter (2010), o più indietro ad alcune sezioni di La casa esposta. Il tessuto ritmico di questo testo – le sdrucciole «clinica» e «domenica» che si rispondono a distanza e completano al mezzo due versi quasi perfettamente paralleli con tanto di paragramma iniziale: «Clima della clinica / [...] in cima alla domenica, viale»; l’attacco di un testo successivo, «La medicina per lo sguardo / si risente in gola, fa l’amara» vive (ancora) del respiro di «che sono analisi non invasive – / non si usano sonde; non c’è», attacco di un testo di clinica. casa, terza sezione di Criterio dei vetri (2007). E d’improvviso acquista nuova luce la poesia che costituisce il pronao al libro, «Si allarga allaga il criterio», col suo iniziale paragramma, soluzione retorica frequentissima in ‘questa’ scrittura di Giovenale, ripetizione con variazione e sconcertante impennata e (s)travolgimento di senso. ‘Spie’ di Novecento, in senso lato, attraversano senz’altro Delvaux, è il caso della scheggia che rimanda a un altro discrimine epocale, al 1897, e a un poeta che nel Novecento ha avuto conseguenze indubbie: «un colpo di benna / non abolisce il caso» fa il verso, distorto dalla sostituzione con una macchina da lavoro, al mallarméano, capitale, fondativo, Un coup de dés jamais n’abolira le hasard. Analoga spia di Novecento e di tensione tra secoli è l’allusione a «un verso breve di Blok» in un testo della sezione AREA APERTA, «westward, nessuno sa la ragione», più marcato in senso espressionista, rispetto alla consuetudine di Marco Giovenale – «si presentavano solo crani disgiunti»; «l’esaustione / la combustione del ferro / perdevano sangue dagli occhi, dal retto» –, e con una cifra retorica di sostenutezza – «rientravano neri di neve» – allitterazione di un ossimoro che mette in allarme il lettore, che chiama a interpretare le cose sotto i loro sembianti, a scorgere la violenza che può sporcare la neve o il congelamento necrotico che da questa può essere cagionato. La citazione di Blok è spia di un altro crinale, bastino alcune osservazioni di Angelo Maria Ripellino, nel volume curato per Lerici nel 1961, dove scriveva che i poeti simbolisti russi sono «maturati sul limitare di due epoche, con tutta l’irrequietezza di chi vive su un’incerta striscia di confine» e pienamente riconosceva che, «pervasa del disperato presagio della vicina catastrofe, dell’ansia febbrile del crollo del vecchio mondo, la poesia blokiana è appunto poesia di confine. I suoi versi preannunziano il cataclisma». Altri segnali (di Novecento), altri nodi critici sono la rilettura materialista, a suo modo novecentista, di un anche abusato assunto hegeliano – «luce punto chiuso. / tutto il reale è commerciale, / e il commerciale è reale» (e dunque commerciale coincide, oggi, con razionale...) – che chiude in corsivo, seguito da una lunghissima fila di puntini, la sezione QUALCHE DECLINO AVANZATO; e il nonsenso tragico e nichilista (di sapore beckettiano), ironico, certo, e però murato in una totale assenza di speranza, veicolato dal testo che chiude la prima sezione, LAB, ‘laboratorio’: «mentre aspettano, / già che sono lì sono / fucilati. Quelli fuori / vivi vanno avanti ad aspettare». Forse, tuttavia, l’interesse maggiore suscitato da Delvaux è da cogliersi all’interno dell’ampia produzione di Giovenale. Libro distillato e lucidissimo, di profondo disincanto sul fare poesia ed esplicitamente generoso verso il lettore, Delvaux impone in primo luogo il confronto – o meglio dialogo – tra temi e opere del suo autore. Conserva alcune sue immagini antiche, riconoscibili come sphraghìs – le terre etrusche ricche di suggestioni emotive, qualche scorcio di una Roma barocca, teverina, o rinascimental-papale (l’ultima sezione ha titolo PASSETTI, ipotizzabile corridoio di collegamento e via di fuga come il Passetto di Borgo), il «nero» e l’opacità, qualche ekphrasis in cui si addensano grumi di cupezza, coscienza di dolore e di morte. E poi case, fortune e casate; le impalcature, i «capri» e «la bottega dei gessi»; accostamenti di «vero» e «vetro», come nel Criterio; soluzioni specifiche come anfibologie, paragrammi e anagrammi, ellissi ad alta caratura enigmatica; un «segno di mancanza» che replica e varia Il segno meno (2003), e altre dissimulate ripetizioni con variazione: «sollevati, musi chiusi fuori», verso finale della poesia che apre la sezione CASA, non può che ricordare il titolo di una silloge, Cose chiuse fuori, apparsa in uno dei quaderni di poesia curati da Franco Buffoni. Delvaux sembra invertire di colpo la rotta rispetto alla sperimentazione visiva e testuale delle Sibille asemantiche (2008), ai contributi di Prosa in prosa (2009), alla scrittura di Quasi tutti (2010), o del recentissimo anachromisms (2014), di fatto ne percorre una parallela, forse proprio la medesima, perché anche le sue ‘altre sperimentazioni’ hanno ottime e nobili radici nel Novecento, diverse, meno note e meno praticate in Italia, ma pur sempre storicizzabili ed epocali. Col Novecento, dunque, i conti rimangono pluralmente aperti, anche se «chi già non sta più qui / lo sa»: lo sguardo si spinge con insistenza fuori dal quadro, come l’autore osserva nell’Eco di Paul Delvaux, e lo spazio si allarga (e si allaga di materia nota e d’altra, più rara o nuova). In ogni caso diffusamente risuona, e consuona.
                                                                                            (Cecilia Bello Minciacchi)

 


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