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ANTONELLA ANEDDA, Dal balcone del corpo, Milano, Mondadori, 2007, pp. 108, € 10.

 

            Il corpo, protagonista assoluto di tanta poesia contemporanea, è il nuovo teatro di operazioni dell’io. L’allargamento del campo dell’interiorità a quello somatico ha determinato la creazione di nuove soluzioni stilistiche. Più che la semplice oggettivazione del vecchio io lirico (già al centro di tante soluzioni avanguardistiche e di ricerca), è la soggettivazione del corpo che ha permesso alla voce monologante di appropriarsi dei linguaggi del gesto, del desiderio, della socialità biologica e politica. In particolare, per queste ultime ragioni si può affermare che – anche al di fuori di un quadro specifico di militanza – le principali innovazioni riguardanti la ‘poetica del corpo’ hanno avuto luogo all’interno della poesia femminile. La traiettoria descritta affiora nel titolo di questa ultima raccolta di Antonella Anedda. Si tratta di una scelta che non rinvia soltanto alla presenza (anticipatrice) di figure proprie alle scritture del corpo in altri momenti della produzione della poetessa romana. Queste, quando presenti, non assumono infatti mai i caratteri di ‘smontaggio’ della macchina umana che riconosciamo come propri di quella che potrebbe senz’altro chiamarsi (con facile prelievo da altro ambito) body poetry. Nascono invece dagli effetti di concretezza legati alla valorizzazione fisica dello sguardo. Lo sguardo, in un incontro perseguito e provocato nei continui esercizi di descrizione e di ekphrasis su cui sono costruite poesie e prose (spesso prose su pittori) della Anedda, è investito del compito di mettere in relazione il soggetto con l’esistenza corporale delle cose. È un investimento di tipo fenomenologico che apre a una poesia della rivelazione e delle essenze che non manca di coinvolgere il soggetto stesso in una partita tra io e oggetti di tradizione pienamente novecentesca (ma che i termini non siano così rigidi come lo schema potrebbe far supporre è dimostrato dall’esistenza di una terza dimensione ‘intermedia’, quella del mondo degli animali, presenze familiari, insieme fuori e dentro la storia: vedi qui il geco, il pulcino, il corvo, il topo – bestiolina che si presta, letterariamente, ad un’allegoria sentimentale: topo dell’anima e topo dell’abbandono). Il trascinamento dell’io nella vita delle cose porta alla sovraesposizione (stilistica) delle incisioni del tempo nella tessitura del quotidiano e insieme all’innalzamento della quotidianità all’interno del flusso più ampio del tempo storico. La raccolta Notti di pace occidentale (1999) rimane una delle migliori esemplificazioni di come si possa leggere la sincronia delle nostre giornate insieme a quella di un normale orizzonte di guerra (in quel caso i bombardamenti NATO sulla Serbia). Un tale allargamento della sensibilità all’imprimersi del dato storico sul tempo individuale porta al recupero di venature ‘tragiche’ proprie alla tradizione europea (dalla poesia russa del Novecento a Celan), e a un suo particolare sinfonismo, ovvero costruzione di un linguaggio fatto ancora di miti e di allegorie, tanto più intrinsecamente tragiche quanto più staccate dal piano della diretta referenzialità. La presenza dell’elemento mitico e tragico si fa particolarmente esplicita in questa ultima raccolta che accoglie la rivisitazione di miti classici (Ero e Leandro – con bellissimo esercizio di riscrittura elegiaca nei termini del dialogato – Ercole e Deianira, Antigone, Orfeo, Polifemo), cristiani (la crocifissione) e precristiani (l’arcaica ritualità della morte nelle poesie in limba sarda). D’altra parte, l’introduzione di una nuova voce plurale alternativa all’io, il noi di un appunto dai Taccuini di Kafka («solo nel coro può esserci una certa verità»), è strutturata nella forma di interventi corali che rinviano naturalmente alle partizioni della tragedia greca. È probabile che questo stesso noi corale sia l’espediente per stringere in una sola comunità i vivi e i morti. Questi cori portano del resto l’impronta del Coro dei morti leopardiano, così come è evidente, per le numerose allusioni dantesche (particolarmente forti nel testo finale, Paesaggio: «“Osserva” disse l’ombra», ma anche altrove: «Tu non esisti, dice la fiamma che in una parte del petto / ha cominciato crollando a mormorare», con memoria di Inf. XXVI), che aleggia sul libro una ricercata atmosfera purgatoriale. Va sottolineato che se l’opzione mitica sembra inevitabilmente rinviare a un confronto con alcuni momenti dell’esperienza cosiddetta neo-orfica, soprattutto nella poesia italiana degli anni ’80, la prospettiva in cui si colloca la Anedda non è condizionata da un investimento esclusivo su un valore extra-temporale della poesia. Prevale infatti sempre la preoccupazione per la partecipazione comunicativa immediata del testo. Il quadro offerto dai miti è dunque quello che permette un libero gioco tra pathos e forma, una libera uscita dalla gabbia dell’io lirico, dando voce ai sentimenti di tutti (per esempio, tra questi, perché si trova quasi sempre un elemento di lutto nel mito, contano vari stati d’animo per l’accesso al dialogo interiore coi morti). Se torniamo al balcone del corpo che dà il titolo alla raccolta, vediamo come questo luogo topico della lirica moderna (si pensa a Le balcon di Baudelaire, spazio della promessa erotica) si presta a rappresentare l’incontro col noi. È nella poesia Anestesie che si legge: «Su tutto, l’anestesia del farmaco, la percezione del dolore trasportata all’esterno, / vista dal balcone del corpo», mentre sul fondo un video trasmette in silenzio le immagini del crollo delle torri gemelle l’11 settembre del 2001. Possiamo interpretare il gesto come uno sporgersi oltre il canzoniere, per uscire dal libro dell’io e per essere gli altri. Il corpo come ultima balaustra prima dell’incontro con il dolore della Storia. Ma un confronto con il testo di apertura di Notti di pace occidentale rivela che questo corpo, continuum possibile tra visione e soggetto, è soprattutto un effetto plastico. Può infatti essere schermo (si noti, da un balcone: l’architettura non è ancora diventata corpo per analogia): «Vedo dal buio / come dal più radioso dei balconi. / Il corpo è la scure: si abbatte sulla luce / scostandola in silenzio» (e si veda anche la schiena-ombra di una poesia di Residenze invernali), ma anche (vedi qui, Anniversario II) fonte di luce: «Vedo il mio corpo: adesso sprigiona faville / capaci di rischiararmi il cammino». Quello che conta allora è l’amalgama tra corporeità della visione e flusso temporale. La ricomposizione si realizza nei termini della figurazione, ed è quanto costituisce la vera originalità di questa poesia che si può definire sempre più ‘figurativa’, e che in questo incontra la lezione di un maestro di luce (non di metafore) quale Philippe Jaccottet. Non si vuole con ciò parlare propriamente di effetti pittorici. Piuttosto della virtù costruttiva dello sguardo («La casa di fronte per esempio / osservata in ogni variazione di luce è il mio capolavoro») e sottolineare come il libro contenga degli effetti che ricordano i video prodotti da Bill Viola, un artista che molto interessa Anedda. Basta citare, e non solo per il contenuto, un lavoro come The passing, serie di studi sul momento del trapasso, avendo a mente quanto il fading dei corpi malati sia un tema presente fin dall’epoca di Residenze invernali (lì sulla scorta della Serie ospedaliera della Rosselli). Ma citiamo anche, per quanto detto di Anestesie, Observance 2002, sull’elaborazione del dolore come trauma collettivo entrato nel cuore della società americana dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Prendiamo infine la chiusura della citata Paesaggio, per constatare come la stessa rappresentazione purgatoriale dell’io («Vidi me stessa dentro quel purgatorio»), da figura e cronotopo corporeo, scompaia nello sguardo di una luce dominante, in un lago di pixel azzurri: «E un tagliente azzurro prese – era già paradiso? / il posto del paesaggio, della prima persona».
                                                                                                                     Fabio Zinelli


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